Ogni società è a suo modo conservatrice, perché chi detiene il potere in un determinato gruppo sociale ha tutto l’interesse a conservarlo, a difendere i principi di legittimità sui quali si fondano i suoi privilegi. Se nelle società totalitarie prevale l’uso della forza fisica, il ricatto della violenza, nelle società democratiche esistono altri strumenti di coercizione.

Oggi, tra questi, se ne conta uno insospettabile: la Cultura.

Complesso di apparati amministrato da intellettuali, giornalisti, scrittori, artisti, registi, sceneggiatori, direttori artistici ed editoriali, direttori di rete, editor, curatori, e che opera per mezzo di case editrici e case di produzione, fondazioni, istituti, fiere, programmi televisivi, festival, premi letterari e scuole di scrittura, la Cultura è un settore in chiaro default, incapace di produrre contenuti spendibili sul mercato e quindi di generare un reddito sufficiente a mantenere chi lavora al suo interno.

Chiudono librerie, i giornali e i grandi gruppi editoriali sono in perdita, le piccole case editrici si sostentano a malapena, la televisione soffre cali vertiginosi di ascolti, i premi perdono autorevolezza: la Cultura per sopravvivere ha sempre più bisogno dello Stato, che promuove, valorizza, incentiva, finanzia. E lo Stato non è un’entità neutrale, né si esaurisce nel governo del momento, ma è il soggetto che esprime i rapporti di forza in una determinata società, quindi la Cultura che promuove è il risultato inevitabile di questi rapporti, e insieme ciò che li nasconde.

Lo Stato, attraverso la Cultura e i suoi funzionari, amministra il sapere, sorveglia le modalità e i termini del pensiero, allocando risorse finanziare e certificati di approvazione là dove questo pensiero coincide con i suoi interessi e con gli interessi dei gruppi di potere di cui è espressione. Per accedere ai suoi fondi bisogna avanzare progetti che attingano le loro parole d’ordine da un campo semantico preciso, i loro promotori da un gruppo ben circoscritto di intellettuali, i loro temi da un campione pre-imposto.

La Cultura è, a tutti gli effetti, un nuovo dispositivo – inteso in senso foucaultiano come insieme di pratiche, discorsi, istituzioni, leggi – di supervisione e quindi di neutralizzazione della critica, per questo oggi non esercita più alcun fascino, non genera alcun valore, perché ha subito una riduzione a intrattenimento, a passe-partout morale, a porta d’ingresso per l’impegno civile, a mezzo di arricchimento personale: tutti concetti che noi disprezziamo. Lo storico Jacob Burckhardt parlava della cultura in altri termini, come della «somma complessiva di quei processi intellettuali che sono spontanei e non rivendicano a sé nessuna validità universale o coercitiva. La cultura opera incessantemente sulle due istituzioni stabili della vita (lo Stato e la Religione), modificandole e disgregandole, a meno che esse non se la siano completamente asservita e l’abbiano circoscritta ai loro fini. In tutti gli altri casi, la cultura è la critica dello Stato». La Cultura oggi è emanazione diretta dei rapporti di forza, e dei gruppi di potere in lotta tra di loro per monopolizzare quella forza: non ha più nulla di spontaneo, ma è sottoposta a una preventiva pianificazione. Il Nemico, di fronte a questo scenario, svolge quel lavoro di critica all’ideologia che i marxisti hanno trascurato, e funzionerà da organo di delegittimazione e di destituzione dei funzionari della cultura. Sottrarre credibilità e autorevolezza a questa classe che controlla i concetti, i tabù e le sedi deputate a veicolarli, è la strategia più efficace che abbiamo a disposizione – perché gli intellettuali posseggono principalmente un capitale, e non è la verità, ma la legittimità, ossia la verità che chi li ascolta attribuisce loro. Espropriamoli.