In un futuro pericolosamente prossimo, la società americana sembra regredire a uno stato tribale sprofondando in una terribile guerra civile che non conosce né buoni né cattivi. Una guerra civile che non ha ideali e criteri, e che, in fondo, non ha neanche uno scopo. È una guerra acefala, un magma indistinto di violenza e dissoluzione.
Inizia così Civil War, il nuovo film di Alex Garland, in medias res, senza fornire spiegazioni sugli antefatti. Non sappiamo come sia scoppiata, questa guerra civile, sappiamo solo che un presidente si è confermato alla Casa Bianca per tre volte consecutive, ignorando quel fondamento democratico che è il processo d’elezione popolare. Dall’altra parte ci sono i sovversivi, che sono composti da una insolita alleanza tra Texas e California che coinvolge, in qualche misura, anche lo stato della Florida.
In questo contesto, Lee Smith (Kirsten Dunst), celebre fotoreporter di guerra, si mette in viaggio per andare a raccontare “l’unica storia che ha ancora valore”, quella della presa di Washington e dell’uccisione del Presidente. I ribelli si stanno infatti avvicinando rapidamente alla capitale e sono intenzionati a mettere fine al regime.
Con lei troviamo Joel, suo collaboratore, Sammy uno storico giornalista del New York Times, e la giovane Jessie, un’aspirante fotoreporter che vede Lee come un mentore, e che scatta foto in bianco e nero, a sottolineare lo stato di regressione in cui si trova la società e la stessa professione del fotogiornalismo, un tempo nobile e significativa, ormai ridotta a mera perversione adrenalinica, privata di qualsiasi nobile intento e ripiegata su sé stessa.
“Voglio sapere come sarà quando lo intervisteremo” dice Joel mentre sogna di poter avvicinare il Presidente. “Come tutti gli altri”, gli risponde Sammy, “Gheddafi, Ceausescu, Tito, valgono sempre meno di quanto ti aspetti”. Il Presidente degli Stati Uniti non sarà da meno e quando verrà trascinato fuori dalla scrivania sotto la quale si nasconde, di fronte alla possibilità di un’ultima dichiarazione, sarà solo capace di implorare pietà.
Il film racconta un viaggio iniziatico dove la protagonista, consumata da una carriera logorante, insegue quest’ultima occasione come se fosse l’unica cosa da fare. Ma durante il viaggio qualcosa in lei sembra cambiare. Le continue violenze gratuite, il caos spaventoso che ha fagocitato la società, la confusione tra bene e male, sembrano non lasciar spazio a nessun tipo di speranza, ma il giornalista, anche se Lee sembra negarlo, della speranza ha un bisogno vitale. Alla fine quello stesso cinismo che l’aveva contraddistinta sembra soffocarla. Si rende conto che a quella guerra terribile ha partecipato pure lei: capisce che fotografare è come sparare (parallelismo presente durante tutto il film, basti ricordare che il verbo inglese “to shoot” indica sia fotografare che sparare), comprende che il sogno del giornalismo è morto. Ucciso da una nuova forma di giornalismo degenere, sadico, che non si ferma mai a riflettere (si pensi a quando muore Sammy, oppure, in maniera eclatante, alla metamorfosi che sul finale vede la giovane Jessie, trasformarsi in qualcosa di più vicino ad uno sciacallo che ad un reporter).
Tuttavia, nella degenerazione della società, la protagonista sembra conservare ancora una parvenza di coscienza, è consapevole che il suo lavoro può avere valore solo in un contesto che è capace di riceverlo ma nel caos apocalittico dove tutto è uguale a tutto, non esiste più alcuna immagine, per quanto forte, capace di generare una riflessione o un pensiero. E, quando morirà, in un sacrificio che è un passaggio di testimone, anche questo ultimo refolo di coscienza sociale se ne andrà con lei. A quel punto non rimarrà che la regressione, la brutalizzazione incarnata dalla giovane Jessie, sia del mestiere fotogiornalistico, che della società tutta.
Le musiche sono travolgenti e vitali, la regia perfetta. Il film è sempre organico, coerente come lo sono le opere dei grandi, e Garland si conferma come uno dei migliori autori dei nostri giorni che qui sembra essere giunto ad una piena e completa maturità.
Eppure c’è qualcosa in questo film che infastidisce, qualcosa di irritante. Una certa furberia velata, che forse dovremmo sottolineare. Del resto già con la sua fatica precedente, Man, alcuni di noi avevano annusato la tendenza non troppo nascosta del regista di strizzare l’occhio al politically correct (quello era un folk horror che dava di gomito al movimento del femminismo più oltranzista), e quando un autore comincia ad adagiarsi sui grandi e comodi filoni ideologici, di solito, da spettatori dovremmo iniziare a preoccuparci.
La scelta di parlare di una guerra civile – scelta che di per sé, a pochi mesi dalle prossime elezioni americane, visti i fatti di quattro anni fa e conoscendo le dinamiche delle produzioni cinematografiche americane, poteva generare qualche sospetto – ci poteva far sperare che Garland avrebbe fatto quello che fanno gli artisti giovani e sfrontati che non esistono più: che avrebbe rischiato, che avrebbe osato. Invece, di coraggioso, in questo Civil War, non c’è proprio niente. Perché per quanto la critica alla società americana e occidentale sia condivisibile e sottile, degna dei più grandi autori, rimane sullo sfondo un fastidioso e insistito ammiccamento ad una certa visione politica.
E non credo si possa sostenere, come fanno alcuni, che questo non sia un film politico, perché un film che parla della guerra civile e che la pone in un contesto di realtà così vicino al nostro, è intrinsecamente un film politico, se non altro in virtù del fatto che la guerra civile è il fallimento della politica.
Del resto la critica sembra non poter fare a meno di mettere in relazione quest’opera agli avvenimenti tragici, ma anche poco seri, avvenuti il sei gennaio di tre anni fa a Capitol Hill. Sui quei fatti si è speculato fin troppo, e un’intera schiera di opinionisti, cronachisti e sedicenti esperti politici, continua a parlarne come del momento cruciale in cui la grande democrazia americana ha rischiato di crollare, in cui lo spauracchio della guerra civile si è affacciato alle finestre della società.
Se la sovversione fu maldestra e ridicola, rimane la sua valenza simbolica, e il Potere presta particolare attenzione alla valenza simbolica degli eventi, soprattutto di quelli che lo insidiano. Nessuno può permettersi di mettere in discussione l’autorità della democrazia e il suo dominio, soprattutto quando di democratico non ha più nulla.
Il racconto personale della protagonista, inserito in questa cornice, assume toni moralistici, e il discorso sul giornalismo, e sulla società dell’immagine, che sarebbe interessante e di qualità, si appiattisce facendo riferimento solo ad una eventualità, negando che quella stessa riflessione è perfettamente attuale adesso, che la guerra civile è ben lontana ed è solo uno spettro ideato da certa stampa ideologizzata.
Perciò un film, per quanto di pregevole produzione, che racconta la guerra civile come la definitiva dissoluzione della società, non rendendosi conto che questa dissoluzione che vorrebbe mettere in scena è già la realtà della democrazia occidentale, e che la guerra civile non farebbe altro che portare alla luce contraddizioni e brutalità che già esistono e che già sono pienamente compiute, rimane un film iscritto in un sistema autoconservativo che difende lo status quo, che tira in ballo temi sovversivi ma che in realtà teme il cambiamento, un film degno di una società profondamente conservatrice, alla stregua delle peggiori tirannie. E quindi il racconto di questo dittatore, che prende il potere e precipita la società nel caos, e che nei riferimenti ricorda sempre un famoso ex presidente, ha tutta l’aria di essere solo una scelta molto furba.
Del resto, le poche frasi che si sentono pronunciare dal Presidente fanno tutte riferimento ai grandi temi conservatori, Dio, la famiglia, etc., le poche informazioni che di lui si hanno ci dicono che ha “dichiarato guerra ai giornalisti”, Sammy in macchina addirittura dice che a “Washington, sui giornalisti, sparano a vista”, e ci riportano alla mente gli scontri che Trump ha avuto con tutto il sistema mediatico americano. E poi, per non farci mancare nulla, l’araldica della cravatta: il Presidente di Civil War non manca mai di indossare una sgargiante cravatta rossa, segno distintivo dei politici repubblicani.
Quindi, per concludere, se consideriamo l’oggetto filmico come una sonda mcLuhaniana, e cioè come un oggetto immerso in un contesto socio-culturale e in profonda relazione con esso, alla fine, il film risulta valido ma disonesto, perché a pochi mesi dalle elezioni, raccontare l’eventualità della guerra civile come l’apocalisse, tacendo l’evidenza che l’apocalisse non ha bisogno di nessuna guerra civile per manifestarsi, e che anzi prospera in questa dimensione di ipocrisia democratica, significa giocare di furbizia. Gioco che a Garland, confermatosi ancora una volta un grande regista, riesce particolarmente bene.