Peggio di una persona che corre ci sono solo due persone che corrono

Questa mattina Federico è l’ultimo ad arrivare al run club. Non partiva il motorino. Poi non riusciva a rintracciare suo padre. Poi sua madre non ha potuto accompagnarlo perché aveva un appuntamento di terapia ayurvedica di cui si era dimenticata. Alla fine ha preso i mezzi. Madre natura lo ha dotato di un paio di occhi cerulei che trafiggono il cuore delle biondine in tenuta ginnica. È lui l’organizzatore. Al liceo faceva il rappresentante d’istituto: lista “Cambiare per crescere”. Adesso alterna allenamenti ibridi, monitorati da un Garmin dal cinturino personalizzato, a eventi di corsa e socializzazione. Gli è sempre piaciuto, dice, stare in mezzo alle cose. La sua dote è la capacità di esserci, sempre, esserci, costi quel che costi. Nella gestione di iscrizioni, percorsi e luoghi di incontro Federico è coadiuvato dal suo Sancho Panza, la quota paese reale dell’organizzazione, nano grassoccio e villoso con una calata meridionale che testimonia ai partecipanti che tutti, proprio tutti, possono correre. Sono sufficienti un paio di scarpe in fibra di carbonio e un abbonamento a Strava.

Alle undici e mezza di un sabato di ottobre il gruppo si incontra all’entrata di una caffetteria dagli interni scandinavi. Federico trova i corridori arzilli ai nastri di partenza. Trentenni pelati, sfessati e fuori forma si preparano a rincorrere croccanti ventiduenni con un passato nell’atletica leggera. Anime sensibili che soffrono della dilagante fomo sfoggiano i loro cappellini nuovi di pacca. Di recente hanno visto troppi reel e allora per forza dovevano provarci anche loro, a correre, sostengono. Per forza?

Eccoli: intrappolati nell’intersezione tra il bisogno di comunità e la performance asservita al capitale. Il villaggio comunitario che diventa villaggio olimpico. Questo villaggio non si prende cura: ti denuda di fronte ai tuoi limiti, limiti che non puoi far altro che superare, e allora sotto di integratori, sali minerali, maltodestrine e abbondante idratazione. Qualcuno era pure venuto con la stupida idea di farsi degli amici, oggi. Un passante domanda a uno dei runner se è a lui che deve chiedere per il fornetto a microonde che ha acquistato su Vinted. Lui lo fulmina. Manco gli avesse chiesto che ore sono. In che razza di mondo viviamo. Non lo vedi che sto per iniziare a correre, non lo vedi cazzarola che sto per diventare la versione migliore di me.

Are you fucking ready?

Federico sale in cattedra. Gli aficionados cacciano uno strilletto giulivo. I nuovi arrivati si atterriscono. A uno, addirittura, scappa un volgarissimo sbadiglio. Prima di dare avvio alle danze, a Sancho Panza tocca l’ingrato compito della divisione in gruppi. In testa sfolgoranti ultimi modelli di Oakley, corpi avvenenti e desiderabili. In fondo reietti e donne sovrappeso oggetto di scherno collettivo. Una perfetta macchina da presa houellebecqiana sul capitalismo relazionale e l’accesso ai mezzi di riproduzione. Cinque minuti di stretching dinamico, qualche movimento di anca. Clic di orologi all’unisono, avvio della diretta Instagram e si parte. Iniziano piano. Dopo pochi minuti accelerano. Trecento spettatori. Il gruppo di testa incede deciso. Meravigliosi quadricipiti neoliberisti affiancano marmorei femorali che si dichiarano apolitici ma in favore di una società meritocratica. Dietro si arranca. In fondo, una coppia va talmente piano che nel mentre ha fatto in tempo a mettersi assieme e a lasciarsi. Adesso stanno litigando per l’affido del figlio Gennarino, che dietro di loro piange disperato e, a gattoni, cerca di tenere il passo. Ma non ce la fa, perché non indossa le Nike Vomero. Stupido coglione di un bambino senza soldi. Sequela di frasi motivazionali in inglese di Federico (keep going, come on, let’s go, soprattutto let’s go, gli piace tanto). L’ultima maratona l’ha chiusa sotto le tre ore, sta raccontando a Kimberly. La prossima sfida comunque sarà un Hyrox. È naturale. È tutto un vortice di endorfine che si liberano nell’aria. Passi cadenzati. Un tripudio di outfit abbinati e consigli per abbassare la frequenza cardiaca. Qui bisogna stare bene. È un imperativo morale. Poi, se stai male, starai male a casa tua. Qui si corre col sorriso. Federico manda giù un sorso di saliva e sali minerali. Punta a essere il primo uomo a essere ricoverato per eccesso di magnesio e potassio. Sancho Panza coordina il gruppo di coda. Ha il fiatone, ma sorride. La masnada, tutto sommato, procede.

Ding ding. Arriva un messaggio dal padre di Federico. Sfila il telefono dalla fascia. Il motorino, legge, è tutto a posto. Il meccanico non ha voluto soldi. Suo padre fa l’avvocato e lo chiama campione. Federico lo venera, nonostante tutto. Nonostante, per esempio, cinque anni fa, quando Federico era appena maggiorenne, suo padre si sia scopato la sua ragazza.

– Papà, ma perché proprio Cristina? Tra tutte le donne del mondo, perché proprio lei?

– Non lo so, campione. Ho un mostro che mi divora da dentro. Mi dispiace. To’, puoi finirti questo Magnum bianco però.

Federico ha un minuscolo cedimento, però sa che non può permetterselo. Mancano trecento metri alla fine dei cinque chilometri di oggi. Sul marciapiede le persone si scansano. Non possono far altro che annusare i miasmi di questi fuoristrada della galassia pedonale. I runner pregustano il caffè etiope che berranno. Le chiacchiere che scambieranno. Il croissant al burro con cui reintegreranno le calorie bruciate. Attendono con ansia di rivedere le metriche che determineranno se la loro uscita è stata produttiva o meno, se valgono qualcosa o meno in questa vertiginosa corsa al benessere. Il più è fatto. Federico trascina il gruppo verso il traguardo. Non una goccia di sudore. Resiste. Simmetria da discobolo. In un foglio stropicciato e unto di crema corpo il numero di Kimberly. Fa uno scatto. Alza gli occhi. In senso contrario vede arrivare un uomo sulla cinquantina. Alfio, di Acilia, podista e camperista, maglietta col quarantasei di Valentino Rossi stinto. L’orologio sul suo polso segna trentotto chilometri, quasi trentanove. Si guardano. Un brivido di sfida lungo la schiena di Federico. Niente che possa smuoversi, invece, dentro Alfio. È morto nell’anima. Corre per sfinirsi, per strapparsi un polpaccio, per farsi venire una tendinite e aggravarla correndoci sopra. Non sa cosa sia la zona due, la temibile Strava tax che ti priva di un personal best, i piani di allenamento, le fasce cardio, le influencer sponsorizzate che vanno a New York con i soldi dell’Adidas, la VO2 max. Non sa niente di niente, Alfio. Corre per autodistruggersi, perché disprezza sé stesso e il mondo, e perché il mondo lo disprezza, da sempre. Come un mustang, corre e basta. Federico riflette sulla caption per la foto che pubblicherà. Alfio gli passa accanto. Sguardo basso. Rantolo affannoso. Un olezzo nauseabondo. Federico si volta. Sulla schiena dell’uomo, una frase scritta con un pennarello:

– Peggio di una persona che corre ci sono solo due persone che corrono.

E peggio di due persone che corrono? Si domanda Federico. Alle sue spalle, cinquanta atleti si scambiano abbracci e baci di fronte all’ingresso della caffetteria.

Cazzo, Gennarino!