Anzitutto una premessa, il fatto che alla Palestina serva una figura simile al Mahatma Gandhi o a Nelson Mandela, i paladini da stencil della protesta non-violenta, della disobbedienza civile, non significa che ciò sia quel che la Palestina si merita. La Palestina e i palestinesi si meriterebbero che la maggior parte degli ebrei di Israele lasciassero la Terra Santa, si rimescolassero ai loro connazionali europei e americani, magari nel frattempo guariti dal virus dell’antisemitismo, e che venisse loro accordato un risarcimento, probabilmente inquantificabile, per i danni subiti negli ultimi 70 anni come conseguenza di una guerra fratricida tra i popoli europei. Questo è quello che i palestinesi, probabilmente, si meriterebbero, se a determinare la storia non fossero i rapporti di forza, ed è anche lo scopo che la maggior parte delle frange estremiste si sono prefissate di raggiungere tramite la lotta armata e indiscriminata contro gli israeliani, concepiti, per il fatto stesso di trovarsi in territori occupati, come colpevoli invasori, anche se trascorrono vite innocenti e serene, protette da mura ad alta tensione e guardie giurate dell’esercito.
Ma è una soluzione troppo ambiziosa se considerata la disparità di mezzi tra le due parti in causa. Mezzi che Israele si sente legittimato ad usare proprio nel momento in cui subisce un attacco. Motivo per il quale ogni Intifada, ad oggi, si è conclusa con un ulteriore perdita di terreno e mezzi da parte dei palestinesi, un monte vittime sproporzionato e impietoso, numeri da rappresaglia. Per ogni israeliano morto o ferito in un’esplosione di insofferenza violenta sono morti, ogni volta, circa 10-15 palestinesi. Nella prima, del 1987, morirono 160 israeliani, e 1.100 palestinesi. Nella seconda, a fronte di 1.000 vittime israeliane ce ne furono 5.000 palestinesi. Se il 7/10, poi, ha causato circa 1.600 morti israeliani, le morti palestinesi ad oggi si aggirano intorno alle 50.000, ma sono probabilmente molte di più. Per questo motivo le strade che si profilano per la Palestina sembrano essere 3:
1) Una lenta ma violenta occupazione da parte di Israele di tutti i loro territori, come è avvenuto in Cisgiordania dalla guerra dei sei giorni fino ad oggi, con la supervisione impotente di Fatah, che rinsecchisce progressivamente quei lembi di territorio che si possono ancora chiamare Palestina senza scadere nel ridicolo, alla quale nessuno oppone più alcun tipo di resistenza, premurandosi invece di preparare la propria vita da esiliati in Giordania o da subordinati al popolo israeliano;
2) Una veloce eliminazione di tutto ciò che rimane della resistenza palestinese, trucidata dai droni e dalle truppe d’assalto dell’IDF (truppe di “difesa”, per l’appunto), legittimata dai tentativi di quella stessa resistenza di esercitarsi attraversi la lotta armata. Ovvero ancora altri 7/10 e ancora altre occupazioni militari della Palestina, in parte legittimate da un’opinione pubblica israeliana comprensibilmente faziosa, fino all’inevitabile vittoria totale di Israele e la sua sovrapposizione geografica a quei territori che 150 anni fa l’Inghilterra battezzò come Palestina;
3) La nascita di un movimento guidato da un leader, possibilmente scolarizzato in occidente, o che piaccia già all’opinione pubblica occidentale, un Gandhi o un Mandela, che rinunci alla lotta armata e mostri l’altra guancia ai coloni israeliani e all’esercito, avanzando, scortato dai media, nei territori occupati, esponendosi a un martirio difficile da legittimare.
Esisterebbe anche una quarta opzione, quella di una vittoria sul campo raggiunta grazie al sostegno dell’asse della Resistenza, ma è certamente, tra tutte, la più improbabile.
Ciò di cui la resistenza palestinese ha bisogno, piuttosto, è la disobbedienza civile. Ma non quella alla Thoreau, la distaccata e fiera non-partecipazione, con annessa accettazione stoica delle conseguenze. Israele non vedrebbe l’ora e in parte è ciò che sta già avvenendo. Ciò che serve – di nuovo non ciò che sarebbe giusto, ma che serve – è una non-violenza militante, rumorosa, mediatizzabile. Serve una bella storia, una narrazione travolgente, dai contorni misticheggianti, come solo la Terra Santa sa fornirne. Serve una figura legittimata alla violenza vendicativa da un passato di soprusi subiti, un orfano nomade, un prigioniero politico, che rinuncia però alla lotta armata in nome della pace e della integrazione, come Mandela. Oppure un mandarino che abbia saputo integrarsi a pieno nel mondo occidentale, come Gandhi, magari un CEO della Silicon Valley di origine palestinese, che rinunci ai propri privilegi per camminare scalzo tra le rovine di Gaza, raccogliendo odio e frustrazione e seminando un perdono immeritato. impietosendo nella vergogna l’opinione pubblica occidentale e israeliana.
L’Occidente conosce fin troppo bene il linguaggio della forza, sa muoversi con maestria sul piano materiale della conquista, della guerra, dell’infiltrazione tecnologica, mediatica, politica, di tutto ciò che è mondano e quantificabile. Sul questo piano, ad oggi, risulta imbattibile. Se, per frustrazione, gli si scaglia una pietra contro, sa rispondere con un arsenale di macigni. Non sa e non ha mai saputo come comportarsi, però, davanti al perdono immotivato, al martirio, a chi risponde alla sua violenza con la compassione. Le violenze perpetrate sulla popolazione di Gaza hanno diffuso l’indignazione nei confronti di Israele in tutto il mondo, ma la destra di Netanyahu ha potuto giustificare a sé e alle altre potenze coinvolte i propri abusi di potere richiamandosi al 7/10. Mostrare l’altra guancia sarebbe certo già di per sé un fallimento e un riconoscimento della legittimità dell’esistenza di Israele, persino una forma compiacente di mansuetudine, che metterebbe in una posizione di prestigio e totale discrezione l’esercito israeliano ai danni della resistenza. Qui non si tratta, ancora una volta, di cosa sia giusto o meno, ma di quali strade rimangono realisticamente a disposizione per il popolo palestinese.