«Levati di mezzo e facci vedere il film» diceva Dino Risi a Nanni Moretti. Levati di mezzo e basta viene da dire di fronte all’esordio alla regia di Barbagallo, onnipresente sullo schermo, in un lungometraggio autoreferenziale, alle prese con una rimasticata sindrome di Peter Pan e un disagio che vorrebbe ricordarci Troisi ma ce lo fa solo rimpiangere. L’ennesimo film prodotto in deficit con i soldi pubblici.

Possibile che la sindrome di Peter Pan faccia ancora danni? Quanti ne avremo visti, sul grande schermo, di giovani che non vogliono crescere, incerti sul futuro ma prima ancora su loro stessi, raccontati da registi convinti di aver qualcosa di importante e magari di spiritoso da dire? Della sindrome di Peter Pan se ne parlava già quarant’anni fa (il film dell’ex componente con Lello Arena de la “Smorfia” di Troisi Enzo Decaro, “Io Peter Pan”, che riassumeva già nel titolo un certo andazzo, è del 1989) e in questi decenni nulla sembra sia cambiato. Siamo sempre lì, il (giovane) cinema italiano è sempre lì, a cincischiare con film una volta etichettati “due camere e cucina”, miseramente autoreferenziali, cioè, chiusi in una prospettiva la cui apertura assomiglia molto a quella di una pinzetta…

Troppo azzurro di Filippo Barbagallo proprio a questa specie appartiene, e non voglio nemmeno chiedermi se il fatto di essere il figlio di quell’Angelo storicamente legato (prima della separazione) a Nanni Moretti nel segno della Sacher Film, abbia giocato un qualche ruolo per la genesi di questo film “scritto, diretto e interpretato” dal regista romano meno che trentenne, in scena praticamente dall’inizio alla fine.

«Levati di mezzo e facci vedere un po’ il film».

Così, col solito senso dello spirito, Dino Risi rimproverava proprio Nanni Moretti, colpevole ai suoi occhi di occupare fisicamente col suo ego strabordante troppo spazio. Risi, maestro del sarcasmo fatto commedia, apparteneva alla generazione del “diretto da”; Moretti invece, a quella di “un film di”. Registi e autori. Un mondo di differenza. La grande scuola classica americana (meno si vede la mano del regista e meglio è) e quella europea, codificata in Francia da quella famosa “teoria degli autori” che tirando una riga tra “buoni” e “cattivi”, praticamente imponeva di sostenere un brutto film se era “d’autore” e consentiva di maltrattarlo se il regista “autore” non era.   

Per il suo esordio, intitolato Troppo azzurro, Filippo Barbagallo, per fortuna, non ha scelto la dicitura “un film di”, optando per quella di “scritto, diretto e interpretato da”. Sarebbe stato obiettivamente troppo. Anche perché se nel caso di Moretti, fin da quel Io sono un autarchico di quasi cinquant’anni fa, si capiva fin troppo bene quale fosse il suo “mondo”, quali le sue (allora spesso condivisibili) antipatie e nevrosi, quali le sue capacità di dar voce a una generazione postsessantottina polemica con certo cinema “commerciale” (o “scemo”, per dirla con lo stesso Moretti) ma anche allo stesso tempo con la ridicola seriosità di certo cinema “impegnato”, in questo Troppo azzurro si capisce che il mondo di Barbagallo tanto “mondo” (con le sue coordinate, le sue attrattive) proprio non è. Quella del giovane Dario è piuttosto una balbettante, inconcludente anticamera a un’età adulta molto di là da venire, l’ennesima (più che romanzesca, romanesca) versione appunto dell’eterno modello Peter Pan, la cui incapacità di prendere decisioni, nel suo caso specifico, si direbbero da addebitarsi al troppo amore dei genitori. Come analisi sociologica non proprio il massimo dell’originalità…

Ma al di là della storia e di una sceneggiatura di carta velina e incurante dello straniamento provocato da snodi narrativi decisamente forzati (valga per tutti la ragazza partita e non seguita da Dario come lei avrebbe voluto a Rimini che lui incredibilmente ritrova a casa del suo migliore amico dove si presenta con una nuova fiamma per una cena imbarazzante da tutti i punti di vista), a procurare maggior danno al film (e il sospetto era già venuto guardando il trailer) è proprio l’eccessiva presenza di Barbagallo attore, praticamente sempre in mezzo come il Moretti di Risi, privo di sussulti morettiani, perennemente impegnato in una gamma di smorfie e di disagi che magari vorrebbe recare memoria degli imbarazzi di un Troisi, ma riesce però solo a farne avvertire ancor più la mancanza. Un’iperpresenza di natura semi-fumettistica concepita forse per sopperire alla povertà di una storia convenzionale, ma che finisce per avvilire anche il lavoro degli altri interpreti, tra cui anche un Valerio Mastandrea in “partecipazione amichevole”, nella parte di un padre anche troppo affettuoso.

“Io penso troppo” dice Dario a un certo punto all’amico Sandro, il quale gli ribatte “no, troppo poco”. Ecco, vien da pensare davvero che abbia ragione Sandro, che il tutto il film sia stato pensato troppo poco. E ancora meno lo abbia fatto – ma questa purtroppo non è certo una novità – chi al Ministero dei beni culturali (il cui logo suona solo teoricamente come bollino di garanzia) ha deciso di sostenere con soldi pubblici il film.