La percezione ormai diffusa, a queste latitudini, è che il conflitto israelo-palestinese, riaccesosi recentemente in seguito agli attacchi guidati da Hamas il 7 ottobre scorso, stia prendendo una piega insolita. È dalla guerra dei Sei giorni del 1967 che le potenze arabe limitrofe si sono dovute rassegnare. La supremazia dell’esercito israeliano nella valle del Giordano, da quel breve conflitto in poi, risulta incontestabile. Benché gli eventi dell’ottobre scorso abbiano evidenziato qualche falla nel sistema di Difesa israeliano e le continue incursioni balistiche di Hezbollāh rendano instabile il confine con il Libano, la superiorità delle Forze di Difesa israeliane non sembra in alcun modo in discussione.
Inedita invece è la sconfitta che Israele e il suo governo stanno registrando in un’altra declinazione del conflitto, all’apparenza meno significativa, ovvero quella mediatica. Il sostegno che, appena dieci anni fa, l’opinione pubblica occidentale sembrava garantire senza riserve allo Stato ebraico e al suo esercito – ad eccezione di poche, spesso infrequentabili, voci contrarie – oggi pare vacillare. Il capitale di credibilità al quale il governo gerosolimitano si era abituato ad attingere illimitatamente sembra sul punto di esaurirsi. Per quanto sia improbabile la fine del sostegno occidentale, tanto militare quanto economico, per Israele – rappresentando quest’ultimo l’avamposto militare delle potenze atlantiste nella regione più instabile del pianeta – l’incompetenza comunicativa rischia di minare i presupposti della sua egemonia nella regione. Si impone dunque una riflessione sulla natura del conflitto mediatico in generale e su come esso sia diventato progressivamente più rilevante dalla seconda guerra mondiale in poi. Per gettare luce su di un paese costretto a incassare un’amara sconfitta dentro un successo militare.
Nel film La zona d’interesse, vincitore del Gran Prix della Giuria a Cannes (oltre che dell’Oscar per la miglior pellicola straniera) e ultima fatica del regista di origine ebraica Jonathan Glazer, l’Olocausto è una entità soprannaturale. Come un’inaccessibile divinità, esso non si manifesta mai nella sua brutale concretezza. A farne le veci sono un insieme di oggetti, di suoni, di riferimenti: un vestito troppo stretto – a suggerire lo stato di inedia di colei cui è stato sottratto -, lo stridio delle rotaie dei treni, gli ordini strillati in tedesco, le grida delle camere a gas.
Il tutto proveniente dall’aldilà di un muro, nella prossimità di un inferno celato alla vista, a rimarcare la colpevole quotidianità di una famiglia come tante, nei giorni più bui della storia d’Europa. Per offrire un contesto storico, a Glazer è bastato tessere una trama di suggerimenti e rimandi, perché nessun evento recente ha segnato così profondamente l’inconscio occidentale quanto la Shoah, nessuna vicenda è tanto identificabile e densa di emotività.
Sul corpo degli ebrei si è consumata la contraddizione, squisitamente europea, tra le magnifiche sorti e progressive dell’illuminismo e la volontà di potenza coloniale. L’uomo bianco, raccolto il suo fardello, si è messo in moto sul piano inclinato che lo ha condotto fino ai campi di sterminio. All’indomani dell’orrore di ciò che in essi ha trovato, l’Occidente ha dovuto riformulare le proprie aspirazioni imperialistiche, bandendo le parole più compromesse con la storia recente, reprimendo gli impulsi più ottocenteschi e sottoponendo a un’attenta revisione retorica l’espressione delle pretese egemoniche.
Siamo portati a pensare che gli orrori dei campi di sterminio e del genocidio ebraico abbiano sconvolto l’essere umano al punto da frenarne la millenaria follia fratricida, che la seconda guerra mondiale abbia lasciato in eredità – oltre a un vecchio continente ridotto a un cumulo di macerie, desolazione e fosse comuni – una nuova idea di umanità da cui ripartire, con la quale riprendere con coscienza il percorso frastagliato lungo l’asse della storia.
Per quanto lusinghiera, questa confortante teodicea non tiene in considerazione l’altra eredità fondamentale del secondo conflitto mondiale: l’invenzione delle armi di distruzione di massa. Se la macchina della morte nazista rimane una soluzione analogica e selettiva al problema della soppressione in scala del proprio simile – seppur efficientata secondo i ritmi della catena di montaggio – la bomba atomica rappresenta la sua alternativa numerica e indiscriminata.
In una celebre conferenza del 1984, intitolata Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Hans Jonas tenta di ripensare gli attributi divini di “bontà”, “onnipotenza” e “comprensibilità” in seguito al genocidio ebraico. Dopo una lunga e convincente dissertazione teologica, Jonas si scopre costretto, per salvare il concetto talmudico di Dio, a rinunciare al presupposto della sua onnipotenza. Sembra suggestiva la congettura che questo attributo divino, anziché venire meno, sia semplicemente passato di mano, e che quest’ennesima declinazione del peccato adamico/furto prometeico abbia avuto luogo non tanto per l’inconciliabilità etica del concetto di Dio e degli orrori della Shoah, ma per le imprevedibili conseguenze della conquista umana della fissione nucleare. La creazione di un ordigno capace di terminare all’istante qualsiasi conflitto, presto diffusosi tra qualsiasi potenza che disponesse di un’autorità sufficiente per esigerlo, ha irrimediabilmente suggestionato l’immaginazione umana. Ciò ha avuto delle pesanti ripercussioni anche e soprattutto sulla strategia militare.
La stessa idea di guerra su larga scala è venuta meno. L’ars bellica si è ritrovata confinata in un’impasse senza precedenti; qualsiasi conflitto tra due potenze atomiche – o per loro procura – condotto esclusivamente sul campo di battaglia, non potrà che offrire un unico e medesimo esito immaginabile: l’olocausto nucleare.
Non potendo rinunciare al dispositivo che, fin dalle origini dell’umanità, ha svolto il ruolo di sanare i conflitti, laddove la via della moderazione e del compromesso risultassero impraticabili, la strategia militare si è dovuta semplicemente riadattare al contesto socio-tecnologico del secondo dopoguerra. Da un lato, i grandi dispiegamenti di forza sul campo sono progressivamente venuti meno, sostituiti da piccoli conflitti regionali, più gestibili e meno a rischio di escalation. Dall’altro, a subire un’intensa inflessione incrementale è stata la declinazione mediatica della guerra.
Seppure l’aspetto comunicativo non sia mai stato del tutto escluso dalla scienza militare – dopotutto per mandare degli esseri umani a morire, si è sempre dovuto quantomeno provare a convincerli – il suo sviluppo massiccio è una prerogativa della modernità.
Dal secondo dopoguerra in poi, la guerra di espansione al cospetto della costante minaccia di un giudizio atomico, prevede come conditio sine qua non l’impiego di un vigoroso arsenale mediatico. Curiosamente, a tirare fuori i quadri militari occidentali dal vicolo cieco nel quale la bomba atomica li aveva confinati è stato, in parte, un altro lascito della seconda guerra mondiale, ovvero la recettività dell’opinione pubblica nei confronti delle parole compromesse con il regime nazionalsocialista tedesco.
Alla dittatura hitleriana è stata riservata un’inusitata forma di damnatio memoriae, ovvero una riproposizione ossessiva del nazismo identificato con l’incarnazione del male assoluto, diffusasi poi in maniera accelerata tramite gli strumenti della comunicazione di massa.
Ciò ha dato vita a un nuovo strumento di legittimazione interventista, ovvero l’associazione al nemico da invadere o da delegittimare di una parola genericamente correlata al nazismo. Nel discorso di febbraio 2022 in cui annunciava l’invasione dell’Ucraina, Vladimir Putin giustificava “l’operazione militare speciale” con la presenza nel Donbass di contingenti “nazisti”. Gli stessi portavoce del fronte occidentale si sono rivelati restii ad affrontare la questione.
La percezione diffusa da ambo le parti è che l’opinione pubblica dei paesi che sostengono l’Ucraina potrebbe rivedere le proprie priorità qualora il governo di Volodymir Zelensky si rivelasse compromesso con elementi che si richiamano al nazismo.
Persino l’enfasi della stampa occidentale sul trattamento riservato alla minoranza etnica degli Uiguri da parte della Repubblica Popolare Cinese sembra volta a creare i presupposti di un accostamento del governo di Pechino a quello passato di Berlino.
Nella prospettiva di una delegittimazione morale dell’operato di Xi Jinping, denunciare la persecuzione di una minoranza etnica è stata giudicata, per ora, la tattica più efficiente.
Lo Stato di Israele, da questo punto di vista, è nato sotto il miglior auspicio.
Esso possiede, fin dalla sua concezione, uno strumento di legittimazione di considerevole efficacia. Nessun popolo della storia recente ha dovuto subire una violenza così efferata e sistematica quanto quello ebraico. Qualsiasi azione che abbia anche solo la parvenza di una violenza perpetrata al popolo ebraico in quanto tale, rimanda immediatamente agli orrori della soluzione finale nazista.
La questione israelo-palestinese ha perciò avuto, fin da subito, un aspetto squisitamente comunicativo; è la serietà del conflitto in corso – l’orrore delle morti civili e della distruzione, la tragedia dell’odio razziale – che sfoca le tinte facete di due schieramenti opposti che si accusano vicendevolmente di nazismo.
Considerando esclusivamente questo aspetto, tuttavia, non esiste Stato al mondo dotato di un tale capitale di credibilità – agli occhi del blocco occidentale – quanto lo Stato d’Israele.
In quanto Stato, esso ha il pieno diritto di usare qualsiasi strumento a disposizione per perseguire i propri obiettivi. Giacché il popolo che rappresenta è obbligato a sopravvivere circondato da un’ostilità il più delle volte sostenuta da un disprezzo razziale e un odio intollerante, per i dirigenti israeliani è stato giocoforza conveniente proporre una lettura delle critiche a loro rivolte su uno sfondo di fanatismo razziale.
È da questo punto di vista che il governo di Gerusalemme, nonostante l’invasione della Striscia di Gaza e il controllo totale della Cisgiordania dal punto di vista militare, è costretto oggi a registrare la novità di una sconfitta.
Nel contesto internazionale contemporaneo, essendo ogni escalation bandita, l’impiego dell’arsenale militare deve andare di pari passo con l’attivazione di quello mediatico. Affinché possa essere efficace, la tattica comunicativa da sempre adottata da Israele prevede che sia tutelata la percezione di un approccio moderato e proporzionale delle sue Forze armate. Il governo israeliano si è illuso che l’evidente radice antisemita degli attacchi del 7 ottobre 2023 fosse sufficiente a controbilanciare l’impatto, agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, di un uso indiscriminato della forza militare di cui dispone.
L’entourage di Bibi Netanyahu, dotato dei mezzi necessari a sconfiggere Hamas sul campo di battaglia, ha creduto d’avere già vinto in partenza un nuovo capitolo della guerra mediatica.
In seguito all’attacco aereo israeliano che ha ucciso sette operatori della ong World Central Kitchen nella città di Deir al Balah, nel centro della Striscia di Gaza, le lapalissiane dichiarazioni di Netanyahu – ovvero che le morti civili «sono tragici errori che capitano durante una guerra» – hanno invece mostrato al mondo intero quanto la classe dirigente israeliana fosse impreparata a gestire le pressioni di un conflitto più complesso dal punto di vista comunicativo che militare.
Che sia per una progressiva desensibilizzazione demografica rispetto agli orrori della Shoah o per un’imprudente gestione del proprio capitale militare e diplomatico, presto Israele dovrà rivedere l’approccio comunicativo. Forse non rischia di perdere il sostegno delle cancellerie occidentali, giacché dettato da questioni che trascendono la sfera etica (come dimostra la vicinanza di americani ed europei a Egitto e Arabia Saudita), ma potrebbe per tale ragione essere costretto a ridimensionare le proprie ambizioni territoriali e di sicurezza. Quest’ultima, nell’interpretazione del governo Netanyahu, legata alla dissoluzione del popolo palestinese in altre entità nazionali.