Il mondo occidentale è ricco di pratiche, credenze e costumi provenienti dalla cultura indiana, estrapolate e riadattate appositamente per adeguarsi allo stile di vita nordamericano ed europeo. Dei paesi orientali, l’India è quello che ha maggiormente contribuito ad appagare le esigenze spirituali di questa parte di mondo, in evidente crisi di trascendenza. Dallo yoga aziendale, all’ayurveda come medicina alternativa, dal vegetarianismo alle pratiche non-violente, fino alla curcuma e i pantaloni “punjabi”, elementi che si richiamano al vasto ed eterogeneo insieme del mondo culturale del subcontinente indiano, sono ormai equivalentemente caratteristici della cultura occidentale. Per contro, le usanze del mondo islamico o di quello ebraico, per quanto entrambi più prossimi geograficamente e interconnessi storicamente, non hanno attecchito in uguale misura, conservando una più ampia specificità loro propria, inassimilabile. Può darsi che ciò sia dovuto all’eterogeneità dei gruppi etnici presenti in India, il che ha impedito che uno solo tra di essi potesse rivendicare, e difendere, la paternità delle tradizioni culturali e spirituali indiane[1]. Ma con quale grado di fedeltà sono state integrate le pratiche e le credenze importate? Quali sono state le conseguenze di questa colonizzazione all’inverso, sia per il popolo occidentale che per quello indiano? Ma anzitutto, cos’è che ha portato l’Occidente a ricorrere, in tale misura, a soluzioni esogene ed esotiche per le proprie esigenze spirituali e culturali?
Dal secondo dopoguerra in poi, l’Occidente si trova nel mezzo di una perdurante sindrome da scompenso spirituale. Avendo esaurito, per il momento, le risorse spirituali endogene delle proprie religioni ufficiali, da qualche decennio questa parte di mondo si dedica al recupero, al revival e al pastiche di elementi del proprio passato esoterico, mescolati ad acquisizioni esotiche, estratte da paesi più fertili in materia di spirito. Tutto ciò ha dato vita alla religiosità New Age, una rivisitazione sincretica degli attributi più spendibili e meno problematici dei culti essoterici ed esoterici con cui il mondo occidentale è entrato in contatto.
Durante la seconda metà del secolo scorso l’avanguardia spirituale europea ed americana, in crisi di trascendenza, ha ripreso le antiche rotte missionarie che avevano portato il cristianesimo in ogni latitudine del mondo, invertendo però lo scopo del viaggio. Mentre i missionari partivano con l’obiettivo di spargere il verbo cristiano, e convertire gli infedeli, negli anni ’60 e ’70 del ’900, gli hippie e gli alternativi europei ed americani facevano rotta verso Oriente – lungo quello che a posteriori è stato battezzato l’hippie trail – con l’obiettivo di immergersi nelle culture locali, delle quali cercavano di estrarre le risorse spirituali, adottandone pratiche e costumi, da integrare in un melange posticcio una volta rientrati in patria.
Il pellegrinaggio occidentale degli anni ’60 e ’70 ebbe conseguenze di vario tipo dal punto di vista culturale. Se alcuni gruppi etnici, come gli han cinesi, vi si dimostrarono pressoché indifferenti, altri, come i persiani sciti dell’Iran, ne ricavarono, per opposizione, un principio identitario più forte, marcatamente anti-occidentale. Un paese in particolare si distinse tra le mete dei turisti spirituali, l’India, terra da sempre contesa e attraversata da etnie diverse, con credi e tradizioni differenti. Il subcontinente indiano sembrava offrire al mondo occidentale un’accessibile riserva di spiritualità, da cui esso scopriva così di poter attingere profusamente.
Per una naturale osmosi, le fedi esotiche e i valori che esse veicolano, tendono a subire, se introdotte e trafugate in paesi diversi da quello di origine, un preventivo e spontaneo depotenziamento dei loro aspetti più sovversivi e meno conciliabili, una riduzione della loro complessità. Già i romani si erano distinti per la loro grande capacità di assimilare e riadattare i culti delle popolazioni con cui entravano in contatto – il più delle volte sottomettendole. Può darsi che ciò abbia contribuito a consolidare l’Impero e a garantirne la tenuta[2]. In maniera simile, il mondo occidentale contemporaneo sembra coltivare la medesima disposizione assimilativa, quasi un correlato della sua coazione a ripetere imperiale.
Alcune pratiche indiane, in particolare, sono divenute a tal punto popolari da essere ormai parte integrate della cultura occidentale, ed elementi imprescindibili di ciò che comunemente si intende per religiosità “New Age”. Una forma riadattata di queste pratiche sembra aver trovato un proprio luogo naturale nel Nordamerica e in Europa, ai due poli opposti delle rappresentanze dell’ideologia neoliberale: sia, da un lato, all’interno della cultura aziendale, capitalista e tecnocratica, che, dall’altro, nelle sottoculture che rivendicano un’incompatibilità con la mentalità del profitto. Lo yoga, per citare l’esempio più evidente di chiara derivazione indiana, è una pratica che ha sedotto sia l’universo degli ambiziosi guru (termine affatto casuale) del tech e delle start-up che quello delle controculture, che invece si richiamano a un rapporto più diretto con la natura, lontano dalle lusinghe della tecnologia e del capitale. Sia gli eredi degli hippie che quelli degli yuppie, per dirlo in una battuta.
La millenaria disciplina dello yoga è finalizzata nell’induismo a raggiungere uno stato di coscienza superiore, e nell’interpretazione buddhista a fuoriuscire dal samsara (ciclo delle reincarnazioni) tramite l’annullamento di tanha e trshna (brama e sete), sulla base del presupposto che la realtà non sia altro che dukkha (sofferenza o angoscia, agitazione, commozione). Nel suo riadattamento occidentale invece, lo yoga sembra aver subito una distillazione integrativa, per essere accolta senza attrito sia negli open office della Silicon Valley che lungo le spiagge della West Coast o negli eco-villaggi anticapitalisti; una sorta di “californizzazione” coatta. La realtà di fondo dell’esistenza, nella vulgata californiana, non è più dukkha – dolore, angoscia – ma stress, ovvero un prodotto di scarto delle contraddizioni che l’ideologia capitalista obbliga a sopportare.
La pratica finalizzata alla fuoriuscita dalla corrente samsarica, alla liberazione dell’anima dall’oppressione corporale, e al pieno controllo ascetico dei propri pensieri e delle proprie passioni, si è così trasformata in una disciplina di fitness tesa al riequilibrio spirituale e fisico, una forma elaborata ed esotica di riscaldamento muscolare, volta a integrare ed accogliere gli urti esistenziali. Lo yoga occidentale, rendendo più flessibili anima e corpo, è diventata così un’ulteriore pratica sportiva, che oltre a tonificare e allungare i muscoli, permette di scongiurare, ancora per un po’, lo spettro del nichilismo. Nella sua declinazione aziendale esso assume persino le caratteristiche di un training cognitivo ed esistenziale, finalizzato a massimizzare creatività, evoluzione personale, capacità manageriali ed efficienza lavorativa, e monetizzare così al massimo sul proprio equilibrio emotivo e spirituale[3].
Un’altra pratica di origine indiana, di derivazione vedica, che ha trovato modo di essere riadattata all’interno della cultura occidentale è la meditazione trascendentale. Popolarizzata in Occidente da Maharishi Mahesh Yogi, e promossa da celebrità quali i Beatles e i Beach Boys, la pratica ha riscosso un enorme successo sia in America che in Europa. Al pari dello yoga, però, anch’essa si è dovuta riadattare per diffondersi, e rispondere così a esigenze e prerogative lontane da quelle inizialmente contemplate dai Veda. Essa infatti ha trovato modo di insinuarsi nelle crepe dell’ideologia, spiritualmente arida, del transumanismo. Lasciandosi alle spalle i complicati percorsi di ascesi e autocoscienza della tradizione induista, la disciplina della meditazione trascendentale è stata propagandata in Occidente alla stregua di un’alternativa, ammantata di un’aura sacrale, per esaudire i desideri che i transumanisti, di norma, affidano al bio-engineering. Da un lato essa funzionerebbe come stabilizzatore del ciclo circadiano, della pressione sanguigna e dell’umore (principalmente, di nuovo, sotto forma di riduzione dello stress), dall’altro essa può essere applicata anche come strumento di ingegneria sociale, che ridurrebbe la criminalità e le conflittualità nel mondo; nel pacchetto riservato solo agli iscritti al Trancendental Meditation – Sidhi Program, la pratica concederebbe persino la facoltà di volare, in grande anticipo rispetto al progresso tecnologico.
La notevole disponibilità emotiva che l’Occidente, minacciato dal nichilismo, è stato disposto a investire in tutto quel che concerne la spiritualità e la cultura indiana lo ha esposto anche ai pericoli della suggestione esercitata da individui carismatici e controversi. Come il “guru del sesso” Osho Rajneesh, nel cui ashram a Pune si può entrare solo passando prima per un anticamera-laboratorio e sottoponendosi al test dell’HIV; o Bickram Choudhury, sedicente ideatore del Bickram yoga, una versione “al caldo” dell’antica pratica indiana, accusato da alcune sue allieve di molestie sessuali.
La californizzazione della cultura indiana, reinventando molti aspetti delle pratiche e delle dottrine originarie su cui si basa – spesso mistificandole o banalizzandole – ha ormai creato un immaginario separato, una sua versione occidentale, un vero e proprio orientalismo. Per contro, il successo dell’ideologia hindutva, promossa in particolare dal primo ministro uscente dell’India, Narendra Modi, sembra confermare la percezione da parte del popolo indiano di un travisamento della “tradizione induista”, da cui nascerebbe l’esigenza di difenderla e promuoverla. Il nazionalismo hindu riscuote consensi in India in primo luogo in opposizione al panislamismo, un’ideologia reputata pericolosa per le sue possibili conseguenze sul conflitto indo-pakistano nella regione del Kashmir. Ma può darsi che l’abuso di pratiche e costumi indiani, avvenuto negli ultimi decenni in Occidente, non sia del tutto irrelato alla diffusione dell’ideologia hindutva. Una tradizione, infatti, nasce spesso in risposta a un tentativo di assimilazione illegittima, un sacrilegio, una profanazione. Ad esempio è in momenti di particolare promiscuità e confusione linguistica che nascono le varie e ufficiali accademie preposte, così come le ricette ufficiali tendono ad essere esaltate proprio per prendere le distanze dalla diffusione di variazioni e travisamenti. In periodi storici ad alta intensità di domanda spirituale ciò può capitare anche nella sfera delle religioni[4].
L’integrazione tollerante e l’esclusione tradizionalista sono le due facce della medaglia che rotola sul piano inclinato della storia. Il popolo indiano, dovendo fronteggiare sia l’una che l’altra tendenza – nei tentativi di assimilazione dell’Occidente da una parte e nell’opposizione frontale del mondo islamico dall’altra – sembra essersi adattato. Esso si è radicato, per difesa, in un’inedita forma di nazionalismo, pronta ad accogliere la sua specifica eterogeneità linguistica, etnica e religiosa, la medesima che ne aveva garantito l’eccezionale fecondità spirituale e culturale.
[1] Ciò potrebbe anche essere la causa dell’eccezionale produttività religiosa dell’India, paese in cui sono nate ben quattro religioni diverse: l’induismo, il buddhismo, il giainsimo e il sikhismo.
[2] Oltre ai culti mitraici e zoroastriani, la più celebre delle evenienze in questo senso fu l’importazione del cristianesimo, ordinato all’interno della religione cattolica. A fondare il cattolicesimo fu infatti non tanto l’ebreo Gesù di Nazareth, ma il romano Paolo di Tarso – a tal punto romano da scampare la crocifissione, in cambio di una dignitosa decapitazione -, che, senza essere mai entrato in contatto con il suo Messia, ne professò comunque con zelo la dottrina. L’interpretazione paolina tuttavia tendeva a escluderne gli aspetti più sovversivi e rivoluzionari, mettendo piuttosto l’accento sull’invito cristiano, più pacifico e conciliante, a investire sulle ricompense dell’aldilà, tralasciando le esigenze del presente.
[3] In ciò affine all’uso degli psichedelici a scopo non più ri-creativo, ma creativo e imprenditoriale, promosso da molti elementi di spicco della tech industry e dell’ambiente delle start-up americane.
[4] Uno dei periodi più floridi per la produzione dogmatica cattolica, e quindi l’istituzione della sua tradizione religiosa, la Controriforma del Concilio di Trento, deriva il proprio nome precisamente dal successo delle riforme luterane e calviniste. Le guerre di religione producono spesso le stesse tradizioni oggetto della contesa.