Estratti del libro "L'ideologia vendicativa" di Nathalie Heinich, appena pubblicato da GOG Edizioni.
di Nathalie Heinich

Nella logica dell’identitarismo, è ovvio confinare gli individui una volta per tutte in categorie identitarie, per “essenzializzarli” come appartenenti a un particolare sesso, a una razza, a una religione o a un orientamento sessuale. Con il pretesto di garantire l’uguaglianza per tutti, il woke confina ciascuno in una comunità asse­gnata, vietando la modulazione dell’identità in base al contesto. Invece di concentrarsi sulle variazioni nei processi di autopercezione, di presentazione di sé e di designazione da parte degli altri che permettono alle persone di passare da una dimensione dell’identità a un’altra a seconda delle circostanze, i seguaci di questo nuovo militantismo esigono l’imposizione caricaturale di un’identità collettiva alla quale pretendono di ridur­re gli individui in ogni momento e in ogni luogo. In questo senso, il woke è un ostacolo alla libertà: una for­ma di totalitarismo esercitato non, ovviamente, da un potere statale, ma da forze militanti, diluite ma potenti.

Questo è particolarmente vero per il neofemminismo differenzialista e per la sua volontà di imporre la femmi­nilizzazione sistematica dei nomi dei titolari di cariche, la scrittura inclusiva, così come l’ossessiva focalizzazio­ne sulla “violenza sessista e sessuale” (un sintagma che lascia perplessi, perché mette sotto la stessa etichetta stigmatizzante di «violenza» il rifiuto di una promozio­ne, una strizzatina d’occhio insistita e uno stupro). È il contrario di un femminismo universalista, che chiede di mettere da parte, nel contesto civile, ciò che ci differen­zia a vantaggio di ciò che ci accomuna, e offre così una vera libertà permettendo alle donne di non essere siste­maticamente assegnate al loro sesso, di potersi muovere nello spazio pubblico come persone, come esseri umani, e non necessariamente come appartenenti al sesso fem­minile. È proprio questa libertà che viene loro negata dalle neofemministe, che pretendono che una donna debba sempre, in qualsiasi contesto, essere ridotta alla sua condizione femminile, inevitabilmente “dominata”.

Ora, l’identità è un gioco contestuale: una persona di sesso femminile può presentarsi, e aspettarsi di essere presa in considerazione non come donna, ma come detentrice di una competenza o di una funzione in ambito professionale, mentre in un contesto privato potrebbe voler enfatizzare la sua femminilità; nel primo caso vivrebbe la riduzione al suo sesso come un insulto, mentre nel secondo caso vi­vrebbe l’indifferenza alla sua femminilità come un’umilia­zione. Ma come possono interessarsi a questo sottile gioco delle parti quelli che intendono imporre contro tutto e tutti una lettura unilateralmente “di genere” del mondo?

Essere responsabile soltanto di fronte al collettivo astratto della nazione o del genere umano, offre una libertà molto maggiore rispetto a quella di dover costan­temente esibire la propria appartenenza a un collettivo ristretto – che sarebbe la propria cosiddetta “comu­nità”. Ma i sostenitori del comunitarismo stanno di­mostrando un’incapacità di astrazione, che impedisce loro di investire in una modalità di appartenenza meno immediata e meno concreta dell’evidenza di un genere o di un colore della pelle. Focalizzandosi sull’“ugua­glianza reale” a scapito dell’ “uguaglianza formale” (cioè l’uguaglianza dei diritti), gli attivisti imbevuti di woke vedono soltanto la realtà fattuale di una situazio­ne segnata, di fatto, da ogni sorta di disuguaglianze, senza vedere che nessuna disuguaglianza può essere combattuta senza fare riferimento a quell’entità emi­nentemente astratta che è il valore dell’uguaglianza, e senza fare riferimento a quell’altra entità altrettanto astratta che è la condizione di cittadino e, al di là di questa, la condizione umana. Ancora una volta, l’u­niversalismo richiede una capacità di astrazione a cui resiste il comunitarismo ristretto, imperniato sull’im­mediatezza delle relazioni visibili a occhio nudo. Il wokismo è miope.

Tuttavia, l’identitarismo implica non solo il con­finamento dell’identità, ma anche il confinamento nello status di vittima, poiché non conosce altre iden­tità se non quelle definite dalla coppia dominante/dominato, discriminatore/discriminato, sfruttatore/sfruttato. La colpevolizzazione sistematica degli uni si nutre della vittimizzazione altrettanto sistematica degli altri, non per quello che fanno ma per quello che sono: essere «bianchi» è necessariamente un “privile­gio” (anche se si è poveri e disoccupati), e quindi una colpa. Da quel momento in poi, è facile scivolare in un’identità di “vittima”: il fatto di essere considerati e di considerarsi come una vittima viene rivendicato come un’identità in sé, basata sul sentimento di una ferita morale. Da qui l’idea, cara al wokismo, che le «sensibilità ferite» vadano protette, grazie soprattutto ai sensitivity readers nell’editoria e, nelle universi­tà, grazie ai safe spaces, quegli spazi riservati dove chiunque si senta attaccato nella propria identità o nei propri valori può trovare rifugio.

Questa enfasi sull’identità di vittima sofferente, per definizione, rimanda a quello che lo psicoanalista un­gherese Sándor Ferenczi ha chiamato «terrorismo della sofferenza»: un modo di assoggettare chi ci circonda ai nostri capricci per evitare il minimo rischio di aumen­tare il dolore di essere ciò che si è, cioè una vittima de­bole e passiva del tragico destino della propria comu­nità. Questo tipo di configurazione tossica è ben nota in alcune famiglie. Ma ciò che è meno noto è che con la militanza dei vittimisti, non è più solo nelle famiglie disfunzionali che regna questo «terrorismo della soffe­renza», ma anche in tutto il corpo sociale, non appena il vittimismo diventa una rivendicazione politica.

C’è in questo una politicizzazione delle soggettivi­tà che pone un’ulteriore equivalenza tra identitarismo e totalitarismo: oltre al confinamento dell’identità e alla presa di potere attraverso una sof­ferenza posta come strumento di dominio sugli altri, il woke pratica una vera e propria politica identitaria, non assegnando limiti alla definizione comunitarista e vittimista del rapporto con gli altri. Questo ci riporta al passato non troppo lontano del «tutto è politica» e ai suoi corollari stalinisti e maoisti: tutto si svolge sotto lo sguardo della collettività, sotto la sua custodia e sotto il suo controllo. «Tutto è politica», compreso anche e soprattutto quel rifugio dell’intimità personale che è la sessualità, che ora deve essere esibita a tutti gli sguardi – compresi quelli dei bambini, grazie alla nuova cur­vatura assunta dai corsi di educazione sessuale lasciati (come i programmi del Planning familial) nelle mani degli attivisti della «teoria gender», cioè di coloro che disprezzano la differenza tra i sessi. Anche la lotta con­tro “la violenza sessista e sessuale” è diventata appan­naggio dei guardiani autoproclamati della correttezza imposta con tanto di sessioni obbligatorie di rieduca­zione come ai tempi della “rivoluzione culturale”.

Contrariamente a quanto dicono alcuni, dire questo non significa essere indifferenti agli stupri e agli abu­si sessuali, o alle disuguaglianze immotivate: significa semplicemente rifiutare che cause legittime vengano difese con mezzi totalitari. Quindi non c’è affatto nel nostro avvertimento un «accanimento degli ambienti ostili al woke a sviluppare un discorso negazionista riguardo alle discriminazioni subite dalle persone a causa del loro genere, del colore della loro pelle, della loro religione o del loro orientamento sessuale», come sostiene un attivista “pro-woke”[1]: non si tratta di con­testare le finalità della lotta contro le discriminazioni, ma di rifiutare i mezzi che usa da quando il wokismo se ne è impossessato. Si può ad esempio essere contrari al maltrattamento degli animali senza per questo soste­nere l’«anti-specismo», cioè la cancellazione delle diffe­renze di status e di trattamento tra uomini e animali. La lotta legittima contro le disuguaglianze immotivate o contro le discriminazioni non deve implicare la sua radicalizzazione attraverso la soppressione della diffe­renza tra i sessi o della differenza tra le specie.

Ecco perché combattere il wokismo non significa ri­fiutare di combattere le discriminazioni: si tratta in­vece di rifiutare di accettare la riduzione del mondo a un inventario di ciò che ci separa, a scapito di ciò che ci unisce; e di rifiutare di accettare la trasformazione del legittimo sforzo per ridurre le ingiustizie in un tentativo di invertire i rapporti di dominio. Di fatto, quel che è peggio non è tanto il riduzionismo del quadro di riferimento dell’identità, mentre invece ogni identità si costruisce in riferimento a una molteplicità di predi­cati possibili; il peggio non è nemmeno il fatto di non riconoscere il ruolo fondamentale del contesto in ogni processo identitario; e non è neanche la manipolazio­ne della condizione di vittima usata come strumento di controllo degli altri, né la soggettività innalzata a modalità di legittimazione politica. Il peggio è che la lotta – legittima – contro la stigmatizzazione si trasfor­ma subdolamente in una lotta per una stigmatizzazio­ne inversa: non l’eradicazione rivendicata del dominio, ma piuttosto, ahimè, il suo rovesciamento vendicativo.


[1] Albert Ogien, intervista sul quotidiano Le Monde, 7 febbraio 2023.