Che il governo Meloni fosse partito col piede sbagliato, sulla RAI, lo si era capito già un anno fa, con l’inizio della penosa sceneggiata riguardante Carlo Fuortes; oggi gli strafalcioni continuano grazie a un cast che non perde occasione per dimostrarsi in forma olimpica: un amministratore delegato, Roberto Sergio, già messosi in evidenza per aver fatto leggere alla fidata Mara Venier una lettera imbarazzata a seguito del caso Ghali e del suo “stop al genocidio” a un Festival di Sanremo rovinato dalla “scarpata” pubblicitaria esibita da John Travolta; non contento, dopo il recente pasticciaccio Scurati, è arrivato ad adombrare oscure manovre ostili provenienti dalla stessa RAI di cui sarebbe comandante in capo, quasi in fotocopia con le parole pronunciate giusto un annetto fa da Fuortes alla vigilia delle dimissioni: “Sulla carica da me ricoperta e sulla mia persona si è aperto uno scontro politico che contribuisce a indebolire la Rai e il Servizio pubblico”). Accanto a Fuortes, anzi, meglio, sulla stessa poltrona per due, un direttore Generale RAI Corporate nonché responsabile ad interim della Direzione Diritti sportivi come Giampaolo Rossi, uno che passa per intellettuale prediletto della Meloni, uno che andava in giro cianciando di elmetti da indossare, fucili da imbracciare e guerre da combattere in nome della libertà e che aspetta solo la scadenza del mandato del cda (questa estate) per prendere il comando dell’azienda; in più, a contorno, tutta una serie di comprimari specialisti nel creare prima disastri gestionali e subito dopo comunicativi, a cominciare da questo Paolo Corsini, capo degli approfondimenti, sbugiardato in Commissione Vigilanza sulla cancellazione del contributo di Scurati al programma “Che sarà…” (Raitre) dallo stesso Sergio: nessun costo eccessivo (1800 euro invece di 1500, era stata la versione fatta circolare), l’intervento dello scrittore era a titolo gratuito, legato a una (oscura) promozione, è stato lui a rinunciare (boh). Quello che si è capito fin troppo bene è solo una cosa: a generare tanto panico è stata una parola, famigerata: “censura”. Al punto che per scacciarne l’ombra (no, noi no, anzi), Sergio è arrivato ad annunciare sempre durante la sua audizione in Commissione vigilanza, la partenza del programma di Roberto Saviano, la cui soppressione era stata motivata nel luglio scorso (dallo stesso Sergio!) come una scelta “aziendale e non politica”.
La dilettantesca gestione del “caso” Scurati (un caso sia detto forzato fin dall’inizio da un testo che con la motivazione formale di ricordare il delitto Matteotti si risolveva di fatto in un attacco fuori squadra diretto alla Meloni (la strumentalizzazione di Matteotti è passata praticamente inosservata), risolta lì per lì dalla stessa presidente del consiglio che tra imbarazzi, balbettamenti e silenzi personali decideva infine di pubblicare il testo incriminato sul proprio profilo social, è stata solo l’ultima conferma del caos interno in atto nell’azienda televisiva di Stato. Un caos dove l’intensità del fuoco (amico e nemico) è pari solo alla sprovvedutezza degli interpreti, sfociato ora in una vera e propria guerra civile con lo sciopero indetto dall’USIGRAI (l’indifendibile sindacato interno dei giornalisti) per la prima volta parato o forse meglio deviato in corner (Tg1 e Tg2 sono andati in qualche modo in onda). Un clima di accuse, veleni e sospetti penetrato e diffuso tra Saxa Rubra e viale Mazzini come mai accaduto prima d’ora, e che il direttore generale Rossi (sì, quello dei fucili e dell’elmetto) ha pensato bene di acuire agitando minacce di morte avanzate via social…
In questo festival dell’inadeguatezza e dell’incultura, gli inquilini governativi possono contare però su alleati formidabili ancorché involontari. Sono le forze (ma sarebbe più giusto dire le debolezze) d’opposizione, lanciatesi negli ultimi tempi in una sarabanda di accuse contro i nuovi occupanti provenienti da destra, come se finora la RAI fosse stata la casa di cristallo del pensiero pluralista, il santo laboratorio delle idee libere, il tempio dei compensi trasparenti. In questo clima, “censura” è appunto la parola magica: agitata con fin troppa facilità dal mondo intellettuale “progressista” in nome dell’antifascismo e accuratamente evitata da un partito, Fratelli d’Italia, che dal fascismo non riesce a prendere le distanze, proprio come il PCI di qualche decennio con l’Unione Sovietica.
Più di trent’anni sono passati da quando, all’indomani di Tangentopoli, il verbo più coniugato dai partiti (oggi letteralmente scomparso dal vocabolario politico) era “delottizzare”, e già questo basterebbe da solo a impedire di prendere sul serio sia la RAI che la nostra intera classe politica, la quale non solo non ha delottizzato un accidente, ma addirittura, con la verticistica riforma voluta da Renzi, ha consegnato nella realtà la gestione dell’ente direttamente al governo, dando paradossalmente seguito – ma in senso opposto a quello perennemente invocato – a quel famoso quanto ridicolo “Fuori i partiti dalla RAI” capace solo di denotare ipocrisia in chi ancora ha il coraggio di pronunciarlo.
La RAI come “Siberia della mente”, per usare un’espressione cara a Wyndham Lewis, come centro immoto della nostra vita sociale, come maldestra prolunga della politica, come oscillante termometro del potere. Il famoso “carro” evocato da Bruno Barilli su cui tutti voglion sempre salire, ormai abituati ad avvicinamenti, cambi di casacca e strategici salti da un partito all’altro. Ma anche come fossa mortale in cui tutti scivolano, compreso il Movimento cinque stelle che si può dire (auto)certificò la propria fine proprio adeguandosi miseramente alla riforma Renzi fino a pochi mesi prima tanto contestata. Una scelta politica degna anticipatrice del suicidio collettivo stile lemmini ideato e guidato poi dopo da Di Maio in epoca Draghi…
Pochi giorni fa, in Commissione vigilanza, Sergio è tornato, si diceva, sul caso Scurati; senza nulla chiarire (ci mancherebbe), ma annunciando un’altra lettera, stavolta “silenziosa” (Venier free, cioè), spedita a Serena Bortone, la conduttrice del programma che denunciando la “censura” ai danni di Scurati, aveva azionato il tristo tourbillon mediatico-pubblicitario. A suo carico, non una contestazione ma – attenzione – “un avvio di contestazione”, una “richiesta di chiarimenti” che è fin troppo facile immaginare non porterà a nessun chiarimento. Così come a nulla porteranno le “azioni civili” intraprese contro l’agenzia di John Travolta e la società produttrice delle scarpe da lui pubblicizzate in quel di Sanremo.
Niente lettere invece a Bruna Vespa, il giornalista-collaboratore esterno che tutto decide internamente, in vista del confronto prossimo venturo Meloni-Schlein. Lì non c’è nemmeno bisogno di dir nulla. La Schlein ha detto di aver accettato di giocare in trasferta, ma senza calcolare che in RAI solo una dimensione ha sempre contato, quella di cui Bruno Vespa è il più perfetto dei maggiordomi, quella partitica. E il fatto che Sergio continui a ripetere che è importante non subirne i condizionamenti, ne è solo la comica conferma…