Quarto e ultimo capitolo di un viaggio nei territori occupati illegalmente da Israele della Cisgiordania.
di L. Vitelli.

In Palestina abbiamo respirato solo una volta. È successo quando siamo arrivati a Nablus, una delle ultime città “libere” della Palestina, senza dubbio la più bella. Capita poche volte nella vita di avere così tanto bisogno di una città e trovarsela difronte. A noi è capitato di giovedì sera, all’ultima ora del mercato, prima del riposo settimanale del venerdì.

Erano state settimane faticose. Ogni singola informazione che avevamo ricevuto fino a quel punto, ogni tassello in più del fragile e complesso mosaico che vedevamo comporsi di giorno in giorno raccontava una storia sempre più sconfortante.

Sono davvero pochi i momenti sereni che ci si riesce a ritagliare sotto un’occupazione militare. Si tratta principalmente e perlopiù di restare in silenzio ad ascoltare e osservare, e mascherare l’imbarazzo per la banalità del dolore che si prova. La tragedia palestinese è talmente vasta per cui è quasi impossibile documentarsi esaustivamente, ci sono così tante storie da raccontare, ciascuna a suo modo importante, quasi tutte cancellate dalle infrastrutture rigogliose e tecnologiche di Israele.
 
Siamo andati a Nablus dopo essere stati in un’altra città palestinese, Al-Khalil, più nota all’occidente come Hebron. È la più popolosa della Cisgiordania, ci abitano 200.000 palestinesi, e un manipolo di 1000 coloni, protetti da altrettanti militari israeliani, che hanno illegalmente occupato il centro della città. Di Hebron se n’è parlato molto, è il simbolo dell’occupazione illegale di Israele della Palestina. A molti giornalisti e scrittori basta visitarla per tre-quattro notti per avere abbastanza materiale per scrivere un paio di libri. Somiglia a un esperimento di oncologia urbanistica: cosa succederebbe a una metropoli se nel suo centro sorgesse un cancro molto aggressivo. Chiunque voglia documentarsi su quello che succede a Al-Khalil troverà in rete e in libreria tanto materiale molto meno sommario di quanto non sarebbe un nostro resoconto, perciò ve lo risparmiamo.

Alcune cose notevoli però: dentro la moschea di Abramo, poi riconvertita per metà in sinagoga dopo l’occupazione, c’è un unico punto di contatto tra arabi ed ebrei: la tomba del patriarca, di Abramo. Su di essa affacciano sia alcune finestre della moschea, sia altre speculari della sinagoga. In mezzo hanno dovuto ereggere una lastra di vetro antiproiettile, perché via del massacro del 1994 che si è consumato al suo interno.
 
L’edificio più alto di Al Khalil è una ex-scuola palestinese, convertita poi in scuola rabbinica per coloni dopo l’occupazione militare. Su di essa sventola un enorme bandiera di Israele, visibile da molti punti della città.

Militari che escono per una ronda nella parte “libera” della città. Sulla destra il palazzo in questione

Dentro la colonia si può leggere, nel centro della piazza, la storia di Hebron secondo l’autorità comunale israeliana. Per chi non leggesse l’inglese, ci tengono a informare che l’unica occorrenza storica della città in cui un essere umano diverso da un ebreo ha fatto qualcosa di rilevante nei dintorni, è stato quando degli “arabi jihadisti” hanno compiuto il massacro del 1929.

Abbiamo scelto di andare ad Al-Khalil perché siamo venuti a sapere di una manifestazione di coloni che vi ha luogo ogni sabato. Degli israeliani, principalmente adolescenti, sfilano settimanalmente per la città, nelle zone vietate loro anche dalla stessa legge comunale della colonia (colonia già di per sé illegale, come tutte le altre, secondo il diritto internazionale). Sono scortati da un equivalente numero di militari armati, e da un conferenziere, che si ferma negli stessi punti del centro-città ogni sabato, punti ormai semi-deserti, e racconta ai presenti la storia ebraica di Hebron. Un assaggio del bottino di guerra futuro, in età impressionabile. La nostra semplice presenza in una delle piazze in cui si sono fermati è stata tutt’altro che gradita. I militari passati per la ronda preventiva ci avevano già intimato di andarcene, prendendoci i passaporti e dichiarando la nostra presenza in città illegale – sebbene, ripetiamolo ulteriormente che non fa mai male, secondo il loro stesso “protocollo di Hebron”, oltre al diritto internazionale, fosse illegale la loro. Essendoci rifiutati di seguirli non hanno potuto fare molto altro. Alla manifestazione ci prendiamo qualche sguardo di sbieco, ci fanno qualche video, sputano per terra guardandoci negli occhi. Dietro di noi si nascondono dei bambini palestinesi di Al-Khalil, che ci stavano un po’ importunando prima dell’arrivo dei militari. Ora sono in silenzio alle nostre spalle. Ci colpisce la serenità con cui i giovani coloni si fanno scortare dai militari, che liberano la strada preventivamente dai bambini e i commercianti di Al-Khalil. Non fosse per i loro vestiti alla moda sembrerebbero usciti da un altra epoca. Non c’è un’etnia di riferimento, si deducono le origini europee, nord-africane, centro-africane, medio-orientali. Tutti accomunati da quell’aria di serena e beffarda superiorità che potrebbe darti, in un cortile di un liceo, l’essere amico dei ragazzi più grandi, o in un’occupazione militare essere scortato dai soldati. La nostra presenza è pressoché inutile, se non per darci una prova tangibile del lato della barricata dietro la quale vogliamo stare.

Arriviamo a Nablus perciò dopo settimane di un viaggio sconfortante. Nella Valle del Giordano avevamo testimoniato a più riprese cosa significasse provare a condurre una vita normale in Cisgiordania, ovvero attendere, aspettare, accettare qualsiasi sopruso, senza una reale speranza, senza la possibilità di raccogliere i frutti del proprio lavoro, far crescere un’attività, conquistare col lavoro una speranza diversa per i propri figli. Fino a che, un giorno o l’altro, esauriti, non si prova a emigrare altrove (ma dove?) oppure a rivoltarsi singolarmente, e quindi finire inevitabilmente o in carcere per decenni o al campo santo.

Dopo di che eravamo andati a Beita, sfiorando Nablus, per provare a vedere che forma potessero ancora avere le manifestazioni pubbliche palestinesi, le lotte collettive e pacifiche. A Beita abbiamo visto il rimasuglio di un movimento pacifico, un piccolo manipolo di vecchi veramente poco minacciosi, riuniti per una preghiera simbolica di un quarto d’ora. Come abbiamo raccontato, di giovani non se ne vedeva neanche uno, perché negli anni erano stati decimati dagli arresti militari e dai cecchini dei coloni, appostati sulla collina di fronte, e non ne valeva più la pena di esporli a un tale rischio per una preghiera simbolica. Anche a Beita perciò, nessun tipo di speranza, tanto meno perciò di progettualità.

Ad Al-Khalil infine, abbiamo avuto un assaggio del probabile destino futuro anche delle grandi città palestinesi, dove Israele intende raggruppare e spingere tutti coloro sparsi per la Cisgiordania, per poi disperderli nuovamente verso il nulla, senza casa e senza un terreno, come ha fatto con il campo profughi di Jenin. Anche qui poca speranza, molta rassegnazione, quasi nessuna progettualità. Di contro abbiamo visto la luce negli occhi dei coloni, l’odio con cui ci guardavano dietro i fucili, per la nostra piccola e ininfluente presenza lungo un percorso di deportazione e sterminio dal quale non vogliono essere distratti in alcun modo.

A Nablus però, per la prima e ultima volta, abbiamo visto qualcosa di diverso. Era giovedì all’ora del tramonto, la città era stordita dai rumori dei banchi del mercato che chiudeva. Un cartello all’ingresso segnalava la presenza della ferrovia ottomana. Nablus è una città antica, Flavia Neapoli, colonia (sic!) romana. Nei millenni è stato un centro importante per ogni potenza che ha conquistato o provato a conquistare la Terra Santa, in particolare per i primi crociati. Gli ottomani l’avevano inserita nella loro rete ferroviaria. La ferrovia di Nablus è una testimonianza archeologica di quella che potrebbe essere la No-State Solution, un miraggio di anti-nazionalismo assolutamente improponibile al tavolo delle grandi potenze moderne, un allucinazione nel deserto della politica internazionale: nessuna dogana, passaggio libero delle persone attraverso un unico grande territorio, indipendentemente dalla religione, dall’etnia, dal popolo di appartenenza. Divisione culturale, certo, ma non nazionale, arabi palestinesi nel vagone con ebrei sefarditi, arabi egiziani, ebrei samaritani, europei dei balcani, turchi. Poco più che un esercizio mentale, probabilmente qualcosa di molto lontano dalla realtà storica, ma quel cartello ci predispone già a uno stato d’animo, e apre le strade di Nablus.

Quello che abbiamo visto a Nablus non è niente di meno e niente di più della resistenza palestinese. Non quella di tutti i giorni, quella di cui abbiamo provato a parlare negli altri articoli, quella la cui esistenza è di per sé già resistenza. Abbiamo visto i partigiani palestinesi, i martiri, la loro sagoma impressa sui muri, le impronte insanguinate dei palmi delle loro mani, nascoste tra i vicoli, protette da teche in vetro a memoria futura. Camminando per le strade di questa città ci siamo ricordati di cosa doveva voler dire il sogno di una Palestina liberata da Israele.

Non bisogna illudersi però. Nablus è una città relativamente piccola, anch’essa a disposizione militare di Israele, che entra periodicamente a caccia di terroristi e combattenti, compiendo stragi sommarie. Ci sono varie lapidi, per l’appunto, in giro per la città. Segnano i luoghi in cui sono morti i martiri, gli shahid, fucilati per strada. Alcune sono nei vicoli, sotto i portici, agli angoli delle strade; lasciano intendere una guerriglia o un inseguimento, operazioni militari speciali, furtive. Una in particolare ci colpisce, la data è recente (2024), la gigantografia del martire è enorme. Avrà avuto trent’anni, e per la grandezza dell’immagine doveva ricoprire un ruolo di prestigio. Tutti gli altri manifesti celebrano giovani, 18enni o poco più. Per chi sceglie di resistere appropriandosi della violenza l’aspettativa di vita è molto bassa, a 30 anni si è già probabilmente in un ruolo di comando, per il semplice fatto di essere ancora vivi.

Se non fosse per Israele, Nablus sarebbe oggi una città come tante altre, certo millenaria e affascinante, incastonata in una valle tra le montagne, ricca di cultura e reperti archeologici, un crocevia di vicoli di mercati e negozi. Oggi è invece una delle ultime città della Cisgiordania, insieme a Jenin, nella quale i palestinesi possono rivendicare liberamente e rendere onore al proprio martirio, i giovani morti in battaglia, quelli innocentemente uccisi da Israele, quelli che hanno consegnato la propria vita a un attentato.

Passeggiando per i vicoli della città, scatta l’ora della preghiera. Nablus è immersa in una valle, le registrazioni in alto dai campanili rimbombano sulle montagne e immergono la piana, confuse in un rumore pieno e sacro. Il cielo è fermo, qualche scia di rosa spezza le nuvole bianche e basse. Vediamo, volto dopo volto, i ragazzi morti; ogni porta del mercato ha appeso il manifesto di un martire diverso. Cosa avrei fatto al posto loro? Chi sarei stato se fossi nato in Cisgiordania? Dove sarei? Sarei fuggito? Magari ce l’avrei fatta ad andarmene via, in qualche altro paese arabo, o in Europa. Oppure starei cercando di vivere una vita normale? Magari sarei già uscito un paio di volte di prigione, starei sperando di riuscire a evitare un altro arresto, o peggio, guardando con rassegnazione la casa del mio vicino mentre viene rasa al suolo, i militari che si addestrano, i territori requisiti, quelli rubati, pregando la notte i fratelli morti e ringraziando che perlomeno non sono nato a Gaza? O sarei stato un attivista? Andrei ancora alle manifestazioni? Proverei ad organizzarle a testa alta, schivando i proiettili dei coloni e disposto al carcere militare? Mi sarei tolto la vita? Avrei tradito la mia gente per qualche soldo e vantaggio in più? O starei su uno di questi manifesti che mi circondano, vestito di nero col fucile tra le mani, morto sapendo che sarei morto, che avrei onorato il martirio del mio popolo con il martirio della mia vita? Che avrei esposto, andando incontro a morte certa, l’insopportabile oppressione che è toccata alla mia gente e che ha una data di inizio, il 1948, e vede da una parte un popolo invaso e dall’altra uno invasore? Sarei stato capace di uccidere un innocente? Riuscirei ad avere pietà di un colono israeliano? Accordargli il lusso, per me sconosciuto da una vita, di essere considerato un innocente?

E invece se fossi nato in Israele? Sarei riuscito a fare finta di nulla? Mi sarei radicalizzato, andando in avanscoperta a fondare nuove colonie in Giudea e Samaria? Avrei avuto la forza e il coraggio, come hanno fatto molti, di litigare con la mia famiglia, perdere gli amici, ripudiare l’educazione che ho ricevuto e che il mio Stato ha provato a innestare sulla mia etnia? Avrei risposto alla chiamata alle armi? Sarei andato a Gaza? Ci sarei tornato tutte le volte che i miei generali me lo avrebbero chiesto? Sarei morto per Israele?

 
Non so cosa avrei fatto, non ho modo di saperlo. In cuore mio spero davvero, però, che avrei disertato l’esercito e la cultura israeliana e avrei avuto il coraggio di fare parte della resistenza, se fossi stato palestinese. Non per l’onore, la gloria, per la retorica partigiana, o per le promesse nell’aldilà, ma perché qui, in mezzo a tutti questi morti, vedo per la prima volta in tutta la mia vita, qual è il prezzo della libertà.