Nel 2024, Todd Phillips ha fatto qualcosa di inaspettato per il pubblico in trepidante attesa di un sequel: ha trasformato il Joker in un personaggio da musical. Non è stato un errore, ma un atto deliberato di sovversione. Come lui, sempre più autori scelgono di uccidere i propri personaggi più iconici per sottrarli a interpretazioni ideologiche distorte e appropriazioni da parte del pubblico. È una tendenza che attraversa il cinema contemporaneo: da Matrix Resurrections a Fight Club 2, assistiamo a opere che sembrano tradire deliberatamente le aspettative del pubblico. Clamorosi insuccessi, costellati di attacchi della critica e flop al botteghino. Ma questi apparenti tradimenti nascondono una strategia più sottile: la decostruzione del simbolo come atto di negoziazione culturale nell’eterno braccio di ferro tra pubblico e autore.
Joker: Folie à Deux una negazione culturale
Il caso Joker: Folie à Deux rappresenta l’esempio più recente e clamoroso di questa strategia. Dopo che il primo film era diventato, suo malgrado, un simbolo per la destra alternativa americana e i gruppi incel, Phillips ha scelto la via più radicale: trasformare l’antieroe in un impresentabile. Una mossa che ha alienato il pubblico (gli incassi sono infatti crollati del 50% rispetto al primo capitolo), ma che ha efficacemente sabotato ogni possibile lettura machista o nichilista del personaggio.
Potrà sembrare una sovrainterpretazione, ma ci sono tanti elementi che portano a leggere questa tendenza come, se non intenzionale, almeno desiderata. Certo, l’insuccesso è reale. Al punto che gli scarsi incassi potrebbero ora avere una reale ripercussione sui risultati trimestrali di Warner Bros. Una delle conseguenze immediate, potrebbe essere la scelta dello studio di diminuire in futuro il numero di nuove uscite nelle sale. Una volta iniziato il disastro, è stato facile stare finire la bestia già agonizzante. Tra chi si dissociava, chi asseriva che il regista stesse agendo senza il consenso di nessuno, chi che il film non avesse nemmeno avuto uno screening test. Insomma, un disastro annunciato. Recentemente Tim Dillon, attore che interpretava una delle guardie del manicomio, è arrivato a dichiarare:
“Non ha una trama. Stavamo lì, io e gli altri ragazzi vestiti da guardie di sicurezza perché lavoravamo all’Arkham Asylum… mi giravo verso uno di loro mentre ascoltavamo queste assurdità e gli dicevo, ‘Ma che ca**o è questa roba?’ E loro rispondevano, ‘Questo film sarà un disastro.’ Io rispondevo, ‘È la cosa peggiore che abbia mai visto.’ Ne parlavamo a pranzo e ci chiedevamo, ‘Ma qual è la trama? C’è una trama? Non lo so, credo che lui si innamori di lei in prigione?’ Non è nemmeno uno di quei film così brutti da essere guardabili. È veramente orribile.”
Come se non bastasse, assieme alla damnatio memoriae chiesta dal pubblico, è seguita una netta stroncatura da parte della critica: il film ha il 33% delle valutazioni positive su Rotten Tomatoes e un raro voto “D” su CinemaScore. Parte delle recensioni attribuisce il risultato negativo all’eccessiva ambizione artistica del regista Todd Phillips. Eppure il regista ha scelto di scontentare deliberatamente il pubblico e demolire ogni possibile interpretazione eroica o epica del protagonista.
Dillon stesso ammette:
“Penso che dopo il primo Joker si sia molto discusso del fatto che ‘Oh, è piaciuto agli incel. È piaciuto al pubblico sbagliato. Ha mandato il messaggio sbagliato. Rabbia maschile! Nichilismo!’ Tutti questi articoli… E così hanno pensato, ‘E se andassimo nella direzione opposta?’ e così in questo film ci ritroviamo con Joaquin Phoenix e Lady Gaga che fanno tip tap a livelli insensati.”
Ogni scena smentisce le interpretazioni populiste del primo film, rifiutando l’immagine di un Joker come eroe antisociale e incompreso. Phillips sembra voler ribadire che il suo protagonista è ben lontano da un modello da seguire: un uomo fragile, in lotta contro i propri demoni interiori, anziché un’icona maschile di rivalsa. Come dice la recensione di Hypercritic, “Il sequel mostra diversi personaggi che cercano di vestire Fleck da Joker per uno spettacolo che dia un senso alle loro vite, imponendogli un ruolo che non vuole interpretare”.
La liberazione avviene a più piani, meta-narrativamente. Ad esempio attraverso il format del musical, per antonomasia investito di un “aurea” femminile e che poco si addice ad un’icona antisociale machista. La femminilizzazione forzata del protagonista, mossa spietata quanto dissacrante, avviene anche nella scena della violenza subita. Arthur non è più il killer del primo film. È una vittima di tutti quelli che cercano di usarlo per i loro interessi. Pubblico compreso. Rappresentato inoltre da un effettivo pubblico all’interno dell’economia della narrazione, fuori dall’ospedale psichiatrico, che esteticizza ed esalta la figura del Joker. È stato proprio questo il punto di forza per Tarantino, che ha dichiarato:
“Ha speso i soldi dello studio come li avrebbe spesi lo stesso Joker! […] Manda al diavolo tutti, manda al diavolo il pubblico in sala, la stessa Hollywood, gli azionisti della Warner. […] Todd Phillips è il Joker”.
Anche il gamedesigner Kojima ha apprezzato la pellicola, proprio per questi aspetti:
“È davvero il Joker che tutti amavano, o era Arthur? Questo film solleva domande che potremmo apprezzare in futuro, quando il genere dei supereroi avrà ulteriormente evoluto il suo linguaggio narrativo.”
Il vero atto sovversivo non è rifiutare di giocare il gioco, ma giocare in modo da esporre l’assurdità delle regole stesse. Il musical diventa così non solo una negazione dell’interpretazione machista e nichilista, ma una parodia della parodia, un eccesso che rivela l’eccesso intrinseco dell’originale.
Le cose che abbiamo alla fine
Questa volontà di rompere con l’intentio auctoris distorta ed egemone è riscontrabile anche in altri franchise celebri, colonizzati alternativamente dall’alt-right americana o dalla far-right. Chuck Palahniuk, autore del romanzo Fight Club, ha collaborato alla realizzazione del sequel a fumetti, Fight Club 2. L’albo è stato unanimemente percepito come un esperimento fallito e incoerente. Una precisa e dichiarata scelta con cui l’autore cerca di “uccidere” l’opera originale e sottrarla al pubblico misantropo che aveva trasformato Fight Club in un inno alla ribellione antisociale.
La storia di Fight Club 2 è volutamente complessa, disorientante e talvolta contraddittoria, lasciando emergere il messaggio di quanto Tyler fosse inconsistente e delirante. Se prima le linee di dialogo erano sagaci e al vetriolo, nel sequel ogni uscita di Tyler è ridicola, insensata e fuori luogo. Il personaggio di Edward Norton ottiene addirittura un nome, Sebastian, spostando il focus su di lui e tornando ad essere la vittima del capitalismo yuppie il protagonista e non il suo patetico delirio autodistruttivo di redenzione. Nel finale di Fight Club 2, in un piano metanarrativo, dopo che Palahniuk stenta a trovare un finale, una legione di fan arrabbiati arriva alla sua porta: hanno visto il film ma non letto il libro, e si identificano con Tyler a un livello superficiale. I fan scrivono il loro finale, facendo vincere Tyler. Dopo qualche scena surreale, Palahniuk stesso e Tyler camminano su una spiaggia, e Palahniuk lamenta l’integrità delle storie e dell’arte. Tyler chiede cosa succederà dopo, e Palahniuk descrive che in Fight Club 3, Marla è di nuovo incinta di Tyler e avrà un aborto. Tyler spara a Palahniuk in testa, proclamando felicemente che sta per diventare padre.
Palahniuk non si limita a negare le interpretazioni populiste della sua opera, ma cerca di creare un “corpo senza organi” – un testo che resiste attivamente alla sistematizzazione e all’appropriazione ideologica e che permettere libertà illimitata e gerarchica.
Il deserto del reale
Matrix: Resurrections segue una traiettoria simile, anche se molto più commerciale. Le sorelle Wachowski, autrici dell’iconica trilogia, hanno ripreso in mano la saga con l’intenzione dichiarata di rivisitare il mito di Neo e, soprattutto, di riaffermare la propria visione personale in un sequel che è anche remake. Nel corso delle interviste, le Wachowski hanno descritto la serie come una metafora della transizione di genere, un messaggio lontano dalle letture cospirazioniste e radicali di alcuni fan, che vedevano in Matrix un simbolo di ribellione contro il sistema. Con il nuovo capitolo, le registe demoliscono l’immagine di Neo come figura eroica e invincibile, in una sorta di reboot alienante. Le Wachowski non stanno semplicemente reinterpretando la loro opera, stanno decostruendo l’intero apparato ideologico che si è costruito intorno ad essa. Il film diventa quello che Baudrillard chiamerebbe un “simulacro di terzo ordine” – una copia che precede l’originale, rivelando che non c’è mai stato un “vero” originale da preservare e che è tutto sbagliato. Rendere un testo inappropriabile vuol dire caricarlo di significati opposti a quelli che il pubblico rivendica. Ma un autore ha davvero tutto questo potere? L’intentio tra auctoris e lectoris è un costante braccio di ferro, specie quando dall’opera in sé emerge spontaneamente una struttura narrativa che dà ragione ad entrambi.
La Lotta per Riappropriarsi dei Simboli
Questi esempi riflettono un fenomeno culturale tipico della viralità. Creatori e autori di franchise iconici cercano di recuperare il controllo delle loro opere, distanziandosi dall’appropriazione da parte di un pubblico che ne ha distorto il significato. Il fenomeno della riappropriazione ideologica di personaggi e storie non è nuovo, ma l’era digitale lo ha intensificato. I meme, la viralità sui social media, le comunità online: tutto contribuisce a trasformare rapidamente personaggi fiction in simboli politici o sociali, spesso contro le intenzioni degli autori. Il caso di Pepe the Frog, diventato un simbolo dell’alt-right nonostante i tentativi dell’autore di “redimerlo”, è emblematico di questa dinamica. Gli autori si trovano così di fronte a un dilemma: accettare la perdita di controllo sulla propria opera o tentare una contro-appropriazione attraverso la decostruzione del simbolo stesso.
In questi casi, la “distruzione” del mito originario non è un mero gesto provocatorio, ma un tentativo consapevole di liberare i personaggi da interpretazioni che rischiano di pervertirne il significato. Il simbolo deve morire affinché il significante possa liberarsi dalla sua prigione ideologica.
Una distruzione mutua assicurata in un processo simultaneo di differimento e differenziazione del significato originale. Visto e considerato che spesso questi harakiri avvengono attraverso dei sequel, l’opera originale diventa, paradossalmente, il proprio pharmakon: veleno e cura allo stesso tempo.
I creatori, nel loro tentativo di “uccidere” le proprie creazioni, stanno effettivamente performando un atto di auto-immunità culturale. Questa negazione non è mai completa, perché la traccia dell’originale persiste proprio attraverso il suo rifiuto.
Il Futuro di un cinema che lotta contro la memetica
Ma qui emerge il paradosso centrale: l’atto stesso di “uccidere” questi simboli culturali li mantiene vivi in una nuova forma. Come direbbe Derrida, la “morte” del simbolo è sempre già inscritta nella sua nascita, e ogni tentativo di negazione produce inevitabilmente nuove tracce e significati.
Quello che questi creatori stanno realizzando non è tanto una “morte” quanto una rivoluzione del significante. Come sostiene Kristeva, il testo diventa un luogo di produttività semiotica, dove il significato originale viene continuamente trasformato. L’apparente “fallimento” commerciale di queste opere è, paradossalmente, il segno del loro successo teoretico. Il vero fallimento sarebbe stato creare un’opera che soddisfacesse le aspettative ideologiche del pubblico. In ultima analisi, questi atti di “matricidio culturale” rappresentano non tanto una morte quanto una liberazione. Eppure la vera domanda non è se questi tentativi di “uccidere” i propri simboli culturali siano riusciti, ma se sia mai possibile una vera morte del simbolo in un’epoca di infinita riproducibilità digitale. I meme antisociali con Joker continueranno comunque ad esistere e circolare perché il pubblico si è già dimenticato del film nelle sale, può tranquillamente decidere di non riconoscerlo. Fight club 2 (così come il 3) è passato completamente in sordina al punto che per molti non è mai esistito. E mentre l’autore si ritrova tra le mani un franchise ormai impresentabile e inutilizzabile, il pubblico ne diventa l’unico possessore. Il meme strappa “la proprietà” dall’autore originale così come ne strappa il senso univoco e lo rende realmente alla portata di tutti.
Nonostante questo gioco a somma negativa, il prodotto che ne esce è quanto di più sincero il mercato veda da tempo. È un cinema che accetta il rischio dell’incomprensione e del rifiuto per mantenere la propria integrità artistica.
La questione interessante e su cui dovrebbe concentrarsi la nostra attenzione non è se questi tentativi di decostruzione abbiano successo – i meme con il Joker continueranno a circolare, Fight Club resterà un simbolo di mascolinità tossica per certi gruppi – ma se stiano aprendo la strada a una nuova forma di autorialità. Un’autorialità che non teme di alienare il proprio pubblico, che usa il ‘tradimento’ come strumento creativo, che trasforma la decostruzione in un atto di resistenza culturale.
Anzi, in un’epoca in cui il cinema mainstream è sempre più guidato dal consenso algoritmico e dalla cautela commerciale, questi atti di ‘matricidio culturale’ possono avere la forma di un ritorno paradossale all’autenticità attraverso la negazione. Forse la morte stessa è solo un altro significante in un gioco infinito di differenze e rinvii.
link e fonti:
https://movieplayer.it/news/joker-2-ceo-warner-bros-risultati-deludenti_149001
https://hypercritic.org/collection/todd-phillips-joker-folie-a-deux-2024-review
https://www.badtaste.it/articoli/joker-2-demolito-da-uno-degli-attori-il-peggior-film-mai-fatto
https://movieplayer.it/news/hideo-kojima-difende-joker-folie-a-deux-capolavoro-incompreso_148805