Nato su Youtube e oggi alla soglia del mainstream, l'analog horror ci terrorizza perché invade, sovverte e sventra ciò che custodiamo di più puro: i ricordi.

Un’inspiegabile curiosità ti spinge a scendere nello scantinato dei tuoi genitori. Non hai idea di cosa troverai. Conservi però la speranza che molti degli oggetti che emergeranno dalla scatola con il tuo nome scritto sopra ti porteranno a qualche ricordo sepolto. Ecco un vecchio giocattolo, una tua foto in grembiule di quando ancora andavi alla materna, un paio di piccole scarpe da tennis. Poi alcune videocassette; dei VHS, per usare un termine tecnico. Hai appena riportato alla luce una miniera di possibilità per accedere a memorie dimenticate. Chissà se ancora funziona quel vecchio videoregistratore; ma certo che sì: certi apparecchi non muoiono mai. Inserisci la cassetta e già dal primo momento noti che qualcosa non va. Forse sei troppo abituato al 4k; ad una risoluzione confortevole, chiara e nitida. Il nastro magnetico appare sullo schermo irrimediabilmente compromesso. Il tempo ha corroso la videocassetta di quel cartone animato che tanto amavi da piccolo. Improvvisamente l’immagine si blocca. Il soggetto dell’inquadratura appare distorto. Anche la banda sonora è compromessa. Ecco che una serie di inspiegabili suggestioni ti coglie impreparato. Ti senti turbato, confuso, disorientato. Minacciato. È quasi come se quel nastro ce l’avesse proprio con te. Come se si stesse vendicando di tutto il tempo in cui l’hai abbandonato in cantina. Infierisce brutalmente sulla tua innocenza perduta. Attacca il bambino che sei stato con urla assordanti e figure mostruose. Sta deliberatamente colpendo la parte più incontaminata del tuo essere. Tutto questo per un semplice motivo, perché l’avevi dimenticata, o almeno così credevi.

 Il VHS (o meglio l’estetica analogica) riesce con efficacia a rappresentare l’orrore di ciò che può essere dimenticato. In una facoltà sconfinata e ignota come la memoria, questa modalità audiovisiva offre la possibilità di aprire alcune porte. Fattori cruciali come nostalgia e voyeurismo giocano un ruolo fondamentale per tentare di comprendere cosa realmente turbi lo spettatore davanti a opere simili. Decontestualizzare un elemento ai nostri sensi “familiare” e “comune”, per esplorarne le prospettive più ignote. La soggettiva diventa protagonista in questo senso, in quanto il genere tende ad appellarsi direttamente a chi fruisce del contenuto e di punto in bianco, oltre ad un brusco cambio di tono, il filmato diventa senziente. Alcuni espedienti utilizzati in questo senso possono essere lo spot pubblicitario, una guida pratica, o molto più semplicemente uno spiacevolissimo POV. Tradotto: tu davanti ad uno schermo (ad un pc, per la precisione).

Ed è proprio grazie ad internet che la corrente dell’horror analogico ha trovato terreno florido per esprimersi. Prendete un “found footage” à la The Blair Witch Project, unitelo a una “creepypasta” ad alto impatto psicologico e avete due ingredienti fondamentali per ottenere un prodotto che farà passare una nottataccia a chi, come molti, diffida dell’horror cinematografico odierno. È proprio sul web che TBWP ha trovato la sua fortuna tramite una brillante campagna di marketing. Sempre sul web, millennials e gen z hanno passato notti insonni, cercando di scoprire se davvero Bart Simpson fosse morto in un episodio scomparso. Il trucco era proprio questo: nessuno nella metà del 2000 poteva davvero essere certo che ciò che leggeva, vedeva, sentiva, fosse frutto di pura finzione. Non era come stare davanti ad un film. Non c’erano evidenti tratti registici e nemmeno una direzione artistica identificabile. Erano gli albori di YouTube, chiunque poteva condividere video. Eri tu, da solo, la tua cameretta e il tuo pc. Con questa accoppiata si susseguivano, una dopo l’altra le notti insonni.

In una di queste ti imbatti in un video di circa un minuto e mezzo, intitolato “Obey the Walrus”. Ne rimani sconvolto. Prima di chiederti cos’hai appena visto, ti chiedi se riuscirai a dormire quella notte. Scorri verso il basso tra i video correlati e fai la conoscenza di altri filmati, come “I Feel Fantastic”, “Blank Room Soup.avi”, “Possibly in Michigan”; le serie “Marble Hornets”, “Candle Cove” e via dicendo. Congratulazioni: sei finito in quella che viene chiamata “la parte strana di YouTube”. Non puoi che proseguire. Scoprirai altri video come “Yelling Creature” o “Let me hear your war cry”, arrivando a capire che questo mondo nascosto è intriso di un umorismo fin troppo grottesco, all’unisono consapevole della sua natura di contenuto internettiano fine a sé stesso.

Obey the Walrus

Una caratteristica frequente di questo sottogenere è l’appropriazione di immagini e icone di altri prodotti mediatici. Prendiamo ad esempio “Suicide Mouse.avi”. Mickey Mouse cammina davanti ad una serie di palazzi che si ripetono, un pianoforte distorto fa da sottofondo. Seguono cinque interminabili minuti di buio. Ritorna la stessa sequenza, questa volta al posto del piano, però, dei lamenti accompagnano quella passeggiata che si è fatta frenetica. Il filmato culmina in un delirio terrificante, tra assordanti urla di donna ed un quadro completamente corrotto. Il tutto termina con un carillon, che suona una tetra ninna nanna su un primo piano sfocato della tua tanto amata icona Disney. Altro iconico modello è il video “Red Mist”, altro episodio “cancellato” di SpongeBob e il sopracitato “Dead Bart”. Questi rientrano in quella cerchia di episodi perduti. Qualcuno ha rapito i tuoi cartoni preferiti e li ha distorti, smembrati e rincollati per servirteli su un vassoio da incubo. Siamo solo nel primo decennio del 2000, il genere deve ancora affermarsi.

Sarà solamente nell’Ottobre del 2015 che il videomaker statunitense Kris Straub (già autore di “Candle Cove”), pubblicherà il primo dei nove episodi della serie “Local 58”, il cui slogan è “ANALOG HORROR AT 476 MHz”, da cui viene coniato il nome del sottogenere. I video vengono presentati come autentici filmati di una stazione tv, potremmo dire, interdimensionale. Vedrete quindi un servizio meteorologico, un messaggio per la nazione, uno show per bambini, ecc. Ciascun video, come da tradizione, presenterà un cambio di tono improvviso, che vi costringerà a mettere in pausa e riavvolgere il video più volte. La straordinaria peculiarità di Local 58, è la verosimiglianza dei filmati: se mai a qualcuno, ignaro, fosse sottoposta la visione di uno di essi, spacciato per reale, è probabile che questi lo prenda sul serio.

 Nel 2019 comparirà (sempre su YouTube) il primo episodio di “Gemini Home Entertainment”. Una serie, questa, che, attraverso filmati dal taglio documentaristico, descrivono un’invasione aliena, che sfocia gradualmente in un singolare “Cosmic Horror” lovecraftiano. Il video “BLUE_CHANNEL: THALASIN”, è la perfetta introduzione per questa tipologia di horror: breve ed efficace. Si passa a serie di successo come “The Mandela Catalogue”,“The Monument Mythos” e “The Walten Files”. Quest’ultima (attualmente in corso), riesce a fare sapiente uso di tutti gli espedienti del genere. Ispirata liberamente al videogioco “Five Nights at Freddy’s”, la serie si avvale di immagini, luoghi, personaggi e musiche preesistenti. Una volta decifrata la tragedia che gli Walten Files narrano, la paura dello spettatore si trasforma in un’inesplicabile rammarico. Lo storytelling di questa serie è assolutamente atipico e in alcun modo cronologico. La quantità di dettagli, di messaggi nascosti e la cura con cui vengono rappresentati sconvolgono lo spettatore (per la maggior parte del tempo distratto dall’assordante follia che certi momenti raggiungono). La particolare caratteristica che accomuna i nomi appena elencati è (come già citato) la soggettiva. Il Found Footage, come insito nel nome, pone lo spettatore in prima persona. Quindi, se un coniglio meccanico di due metri, o “un intruso”, volgono lo sguardo oltre lo schermo del pc, è a voi che si stanno rivolgendo. Una didascalia bucherà la quarta parte per porgervi una semplice ma destabilizzante domanda, oppure un consiglio: “if you see another person that looks identical to you, run away and hide”.

Blue Channel: Thalasin

Nel Gennaio 2020 un ragazzo di soli 16 anni caricherà su YouTube il primo episodio della serie “Backrooms”, che al giorno d’oggi vanta quasi sessanta milioni di visualizzazioni. Kane Pixels (nome d’arte), utilizza programmi gratuiti come Blender e Adobe After Effects per confezionare in appena nove minuti un’esperienza fotorealistica e terrificante. Lo spettatore fuggirà attraverso corridoi insensati, inseguito da anomalie le cui urla sono vera e propria benzina per incubi. L’elemento che più spicca nell’esperienza della Backroom è proprio la desolazione che trasuda dalle sue ambientazioni. Pixels fa un sensazionale uso del contrasto tra natura e artefatto. Dietro un angolo apparirà l’inimmaginabile, ed ecco, oltre la vetrina di un centro commerciale abbandonato, un bosco. Ciò che viene creato dall’essere umano ha (o dovrebbe avere) una funzione ben precisa, ma soprattutto un’appartenenza. Che scopo avrebbero allora quei corridoi, quei battiscopa, quella finestra, se non c’è nessuno ad abitarli? La natura, per contro, è spontaneità: non appartiene che alla terra da dove emerge. Sono questi fattori di smarrimento e decontestualizzazione che rendono questi filmati così angoscianti. Il fenomeno delle Backrooms (già esistente e sempre derivante da una creepypasta) esplode, portando l’horror analogico all’attenzione dei media, al punto che la casa produttrice statunitense A24 avrebbe in cantiere un adattamento cinematografico della serie (la cui regia è affidata allo stesso Pixels). Non sarebbe questo il primo tentativo di portare il sottogenere in questione sul grande schermo. Nel 2022, Il regista Kyle Edward Ball dirige il controverso “Skinamarink”. La pellicola fa uso di inquadrature statiche e durature, in un ambiente familiare e allo stesso tempo stravolto da un’entità demoniaca che non viene mai realmente mostrata. C’è il fattore nostalgico, la soggettiva, l’estetica VHS e tutta una serie di messaggi criptici che sfidano l’osservatore a comprendere in prima persona ciò che sta visionando.

La popolarità che ha caratterizzato l’horror analogico negli ultimi anni è stata capace di coinvolgere qualsiasi generazione. Basti pensare ai milioni di visualizzazioni che certi video hanno raggiunto o al successo che il genere ha avuto su TikTok, per fare due esempi. Un fattore che lascia perplessi, in tutto questo, è la pertinenza e il coinvolgimento del filone alle generazioni a cui si rivolge. Le generazioni più recenti, ad esempio, che tanto apprezzano e contribuiscono allo sviluppo del genere, come possono essere esposti alla nostalgia digitale, se non hanno mai esperito un mondo analogico? È forse qualcosa che ha a che fare con la memoria collettiva? O forse, più semplicemente, l’amnesia è un disturbo che infesta le paure più recondite della condizione umana, da sempre e probabilmente, per sempre. Magari questi filmati ci appaiono così raccapriccianti perché arrivano a intaccare qualcosa che culturalmente identifichiamo come rassicurante: il passato. Un’affascinante pezzo d’antiquariato, il ritorno del vinile o la più recente moda del vintage, sono tendenze che idealizzano un tempo lontano. La nostalgia come un’isola sicura, distante dal futuro, che per sua natura è imprevedibile. Ma cosa accadrebbe se questi simulacri ci si ritorcessero contro? L’horror analogico invade, sovverte e sventra la gioia di ritornare indietro, avventandosi su ciò che di più puro custodiamo: i ricordi.