Stacco satiricio sull'eccesso di satira, e il suo scadere postmoderno.

Di fronte al plotone di esecuzione, un nervoso terribile a pensare che anch’io, come in quel porcaio di romanzo che è Cent’anni di solitudine, sono finito a ricordarmi il pomeriggio in cui mio padre mi condusse a conoscere il ghiaccio dopo che avevo battuto il ginocchio in uno spigolo provando sul letto la coreografia di Salirò di Daniele Silvestri. Poi, subito dopo, l’urgenza del momento mi riconquista la mente e allora mi abbandono a un classico del mio repertorio: l’implorazione.

Porto la mano al primo bottone della salopette, installo un’espressione languida e chiedo: “C’è qualcosa, teniente, qualcosa che possa fare per evitare l’esecuzione?”.

Silenzio. Dita ai grilletti.

“Qualsiasi cosa, sono serio. Qualsiasi”.

Il caporale fa due passi. Si china a raccogliere il cerotto nasale che mi si è staccato per il sudore (il caldo, penso, più che la tensione), si avvicina, me lo riapplica con inattesa delicatezza, poi – siamo a pochi centimetri, posso sentire i suoi enzimi aggredire la Fiesta che ha appena mangiato – mi sussurra all’orecchio: “E va bene, mister. Ti va di lusso: ieri sera ho grattato a vuoto tre Turista per sempre e stamani ho addosso un’uggia che mi piega in due. Ti vuoi salvare? Davvero ti vuoi salvare? Hai una chance: fammi ridere”. Lo guardo. Aspetto, ma non aggiunge altro. “Ridere?”, chiedo. “Ridere”.

Si volta, e torna verso i suoi compagni. Madonna, speravo mi chiedesse un massaggio. Conosco un paio di mosse decontratturanti strepitose, un gioco gomito-polso scioltissimo. Ma farlo ridere, che è questa storia. Per il solletico ormai è lontano. Peccato: quel paio di calli da banjo che ho sulle falangi sarebbero stati letali. Com’è questa faccenda del ridere. Complicato. Che invento ora. Vorrà una barzelletta? Retroguardia pura. Però, a proposito di barzellette, potrei cavare fuori una battutina su Berlusconi. Certo, mica criticandolo. Velatamente, magari. Per dire, fingere che sia un mio idolo, peccato oggi non ci sia più Silvio, che tempi quando c’era Silvio, il mondo è più povero da quando non c’è più Silvio, ehi guarda una donna, chissà cosa farebbe Silvio, con le donne, eh, con le donne voglio dire, grande Silvio, iconico Silvio, madonna quante ne ha inanellate, che classe politica, che rimpianto la Seconda Repubblica, il nonno che tutti avremmo voluto, e quindi lo votavi? GIAMMAI. Tanto è morto, e già da qualche anno era diventato innocuo:‌ ospite dalla Gruber, voglio dire, mi chiamerebbero lo stesso. Anzi. Ma non posso, metti che questo nel ’96 abbia sostenuto l’Ulivo: s’offenderebbe sicuro. Lo guardo:‌ mi fissa, zitto e immobile.

Magari è persona da vocine. Vocine mica alla Brignano, chiaro: vocine piazzate nei punti giusti. Raccontare tipo un aneddoto irrilevante, storie banalissime alzate al rango di moniti per la vita, metti un abbozzo di crisi para-psicotica da moderato stupefacente, uno screzio stradale con innocuo passante tipizzato come zotico, l’erasmus (ancora?), squassanti conati di vomito in luoghi incongrui, posti di blocco, compiere trent’anni, la palestra, e però sottolineare l’asprezza del momento con una mitragliata di falsetti, gridolini scemi, allunghi isterici, fonosintassi dialettale, meglio se romanesca. Infantilismo: scartare. Ma una versione evoluta delle vocine, qualcosa di più professionale, un’imitazione? Impossibile:‌ unica mai riuscita Roberta Capua, alle medie, prima che mi cambiasse la voce. Da allora solo mugolii baritonali, inascoltati dai più.

Valutazione della psicologia del pubblico. Da dove partire, però. Guardo il caporale: ha un mitra, vero, ma bastasse un mitra a definire una persona il mondo sarebbe un posto facile. I vestiti, allora: maglioncino melangiato – bruttissimo –, piumino fucsia anni Novanta, cappello da pescatore sdrucito, barba con briciole di Fiesta, orecchino, marsupio, Salomon ai piedi. Bivio: o è persona di semplice cattivo gusto, o è individuo post-postmoderno che riattribuisce significazione ironica a oggetti e schemi di pensiero indegni di esistere e che si riconfigurano invece, se recuperati, come una dichiarazione di disincantato e saggio distacco dal crollo della società occidentale, il rifiuto del serio e insieme anche del frivolo, un uomo fisso nel mezzo, spregiudicato ma con cautela, che ha attraversato l’abisso ed è riemerso con un sistema di valori inappuntabile, fondato sul primato della scienza (“Ho letto sul Post che le scimmie…”), letture sapide (“Sul Post consigliavano questo audiolibro…”), sport antiborghesi (“Ho trovato sul Post un coupon per dei guanti da arrampicata che…”), e – per riandare al punto – l’idea che l’umorismo non sia tanto un modo per alleggerire l’esperienza del reale quanto anzi una chiave per interpretarla e decrittarne il senso ultimo, e i comici sensibilissimi ermeneuti che mica ci devono fare solo ridere, MA CHE SEI SCEMO RIDERE?, semmai capire capire capire, sparando missili contro bersagli intoccabili (per dirne uno la Chiesa Cattolica, in effetti impero degli imperi nel 2025, ora che mi ci fanno pensare).

Torno al caporale: sta ascoltando l’ultimo album dei Fontaines D.C., “senti questo passaggio senti”, dice al collega, “lirismo dissacrato subito, capolavoro”: vado per il post-postmoderno.

La scelta è fatta: sintesi, temperato cinismo, apparente spudoratezza. Lo guardo. Post-postmoderno ma munifico: mi ha dato cinque minuti. 4 e 25, in verità, durata esatta di Starbuster. Richiamo la sua attenzione con un cipiglio tra il buffo e il concentrato, respiro, fingo di impugnare un microfono e urlo: “Ma fammi ridere te, pagliaccio”.

Nessuna reazione. Serietà totale. Poi le mani alle sicure dei mitra, che scattano.

“Scherzo”, aggiungo, e me la rido da solo.

Puntano. Il caporale si riavvicina, mi poggia la mano sulla spalla, scuote la testa. “E dire”, mi fa, “che sarebbe bastata una vocina”.

“Ma come una vocina? Tipo Enrico Brignano?”.

“MA CHE SEI SCEMO? Tipo il grande Luca Ravenna”.