“L’ironia è al suo posto solo come mezzo pedagogico, da parte di un insegnante nei rapporti con allievi di qualsiasi specie: il suo scopo è di umiliare e di far provare vergogna, ma a quel modo salutare che fa risvegliare buoni propositi e che ci comanda di portare venerazione e gratitudine, come a un medico, a colui che ci ha così trattati. L’ironico si finge ignorante, e lo fa così bene, che gli allievi che con lui conferiscono si illudono, e credendo in buona fede di saperla più lunga, diventano sfacciati e si scoprono da tutte le parti; perdono ogni cautela e si mostrano come sono; finché a un certo momento il lume, che essi tenevano in faccia all’insegnante, non fa ricadere i suoi raggi in modo molto umiliante su loro stessi. Dove non ha luogo un rapporto come quello tra insegnante e allievo, essa è un malvezzo, una passione volgare. Tutti gli scrittori ironici contano sullo stolto genere di uomini, i quali amano sentirsi superiori a tutti gli altri insieme all’autore, che essi considerano come il portavoce della loro presunzione. L’abitudine all’ironia, come anche quella al sarcasmo, rovina del resto il carattere, essa conferisce a poco a poco una qualità di malevola superiorità.”
(F. NIETZSCHE, Umano troppo umano, 1878)
Ironia: diabolicamente nasconde l’arte che la anima, aspirando al vero. Incantesimo di sprezzatura, trucchetto difficile che dal tempo degli Auctores «educa» a vivere senza pedagogia, Bildung fulminea libera dal puntello didattico; dice tutto, senza trattati. Vigilanza stoica e gioia epicurea, divagazione veritiera e sapiente sulla realtà, frutto di individualismo (non irretito dall’autolatria) ed estetismo, tramite scelta di parole che si compongono divertite sullo sfondo di un pensiero notevole. Ovvero, quando la levità del dettato traveste con eleganza gravità di contenuto e desta il riso sulle idiote brutture mostrando di non esserne complice. L’ironista è un pedagogo involontario, ha la vocazione, come direbbe Nietzsche, a giudicare moralmente «in senso extramorale».
Ma che cosa sarà invece il nemico, il contrario dell’ironia? Un sonnolento sberleffo meccanico permanente che seppellisce l’esistente. Muniti di un pensiero brodaglia, inseguire, fra Ego e Narciso, pretesti e retorica d’acido per assemblare battute secondo i marchi della sottocultura televisiva: è il terzomondismo umoristico di massa (caro Marziale, altro che il tuo fulmen in clausula!). Siamo al ridere di tutto, che è ridere di niente, perché il bersaglio reale viene mancato.
L’ironista è un parresiasta, odia tutte le pose, è maniaco dell’autentico, ha sdegno del piombo vestito d’oro. Opera migliaia di distinzioni, è elitario, non è qualunquista e non fa solamente «ridere», ha un mirino drammatico inequivocabile, ci abbandona davanti alla realtà in mutande per provocare, stressandola, l’intelligenza: è un tecnico di laboratorio votato al test altrui mentre testa se medesimo. A quel punto, costringe a riconsiderare tutto secondo un proprio modo inimitabile: «for happy few», in pochi ce la fanno.
Purtroppo i confini fra burla di paese e umorismo «alto» (cui l’umano medio aspira partecipare) possono essere deboli in questa epoca dove sempre ridiamo e sia il tutto che il nulla vengono appiattiti. Ciascuno è ferocemente intenzionato a distinguersi da una poltiglia in cui, invece, sguazza. Chiunque può essere arguto, persino maestre d’asilo, agenti di borsa e scippatori sanno esserlo. Non è allora attributo del vero ironista. Quindi può esserci fraintendimento pensando di produrre ironia brillante o scaltra, quando invece si è solo furbi, volgarmente stupidi o mediamente habilis. Potrebbe essere pericoloso, per salvare il proprio senso dell’humor, frequentare ogni mattina umorismo di seconda mano, bassissimo (ma, flaubertianamente parlando, «che alternative ha un cretino»?).
L’ironia non è tutta uguale: ne esiste una alta e una bassa, cioè una buona e una scaduta. Quella scadente è la sbobba umorista tagliata coi peti che troviamo in giro adesso: pacca sulla spalla, scarto fra gli scarti del postmoderno diluito, aggravato dall’intoppo digitale e dalle sue inerzie. Il tipo ‘scadente’ serve per conformarsi, invece che per innalzarsi rispetto a qualcosa di nauseante (effetto dell’ironia alta, v. Oscar Wilde, Chesterton, Rabelais).
Sembra convincente Graf quando dice che per farla buona, si richiedono alcune cose «che in mezzo alla civiltà nostra più non si trovano, ossia ideali ben definiti, convincimenti sicuri, vivo risentimento, soprattutto morale (non moralistico), nitore d’animo, disprezzo della comune opinione, affrancamento dagli interessi volgari, coraggio (che, attenzione, non è frutto «dell’impegno», ma dell’ingegno).
L’ironia contemporanea, biglietto da visita onnipresente, opera per la vulgata, è ormai un sostituto delle buone maniere; è al capolinea, in quanto pienamente atto dovuto, per cui una battuta «non si nega a nessuno». Nella sua forma rappresentata digitalmente, l’ironia muta in claim da vù cumprà, avversario del buonumore, del ragionamento. Nessun sollevamento dal suolo e nessuna leggerezza per evasioni dalla gravitas possono salvare in questa fattoria a cielo aperto di umorismo ufficiale così come l’algoritmo impone e richiede.
Competitiva, martellante, ambiziosa, pulsante e ripetitiva, focalizzata sui soliti tralicci camp-trash-kitsch, l’ironia a macchia d’olio ha degradato la sua identità fino a renderla ambiguamente vicina a una paranoica malinconia. Eccoci a un triste rito, approvato e consolatorio. L’ironia sfregiata dagli «smanettoni», deragliata sui binari morti dei tic attuali, è l’ennesima trappola postmoderna.
Non si cerca e non si fa altro che ridere, e al tempo stesso rifugiandosi in piccolissimi, anestetici, mini-cosmi privati. Abbiamo osservato il mondo collassare e non lo abbiamo preso sul serio (a differenza dei Grandi Ironici), passando dall’immedesimazione, anche teatrale, al cinismo; dal riconoscimento per contatto, all’annientamento per distacco. Foster Wallace in E unibus pluram. Gli scrittori americani e la televisione, dice che usando l’ironia come paradigma di un presente strangolato dalla logica dei media (e quindi ironia-suggello dello spettacolo pervasivo), in cui si perdono le ‘differenze’, muore lo spirito critico.
Quando l’ironia tiranneggia e opprime, non si traveste più, e abolisce la realtà, diviene tecnoscientista, distruttiva in modo elementare e non può più essere utilizzata per generare qualcosa che prenda il posto delle ipocrisie che ha demolito. Le pose «buone e giuste» sembravano essere diventate mainstream e l’intero mondo culturale è stato convinto di essere davanti a un efficace cambio di paradigma grazie all’uncorrectness. Da qui, il grave equivoco che ha reso ecumenica la scorrettezza e sovrastimato il cinismo farisaico, pensandolo unica risorsa di «rivelazione», al riparo dalle simulazioni che tradizionalmente affliggono progressismi e buone intenzioni.
E nella grande spiaggia mondiale si parla di malesseri invernali, angurie da affettare, supposizioni proctologiche, digestione, medicina popolare e cosmesi pettegola, e si fanno battute su battute su battute con i panzoni sempre a vista e sotto mano e i culoni sotto sale. Questo meccanico e ossessivo microcosmo assolato delle piccole vacanze molto poco arbasiniane, però, non ha dighe, si è trasferito tutto l’anno altrove, fra gli intervalli «online» di bacheche e baldacchini digitali.
L’Italia in particolare, a quanto sembra, è interminabile penisola virtuale al culmine di una secolarizzata sindrome Litizzetto, modalità derisoria per disincanto d’ufficio, ubiqua e «insolente», praticata all’uscio e in società secondo una formula costretta e digestiva, accessibile e riproducibile dai qualsiasi, dove l’obiettivo è la «dissacrante ironia» appiccicosa che fa da sottofondo in cucina.
Tante risonanze retoriche da agrituristica tosco-emiliana, in questo menu pedante della risata amara, dove ci sono tutti i piatti rancidi dell’argomento del giorno, oltre a quelli da sempre «più gettonati» (incomprensioni littorie, boutique dell’insolito, insofferenze coniugali, bastonate al lavoro, solitudini, aneddotica&surrealtà, stronzi, sgarri civici, conflitti, relitti familiari, rivendicazioni morali e sindacali, autoironia ipocrita, sesso fatto o mancato, fastidi politici) presenti nella billboard dell’individuo medio affaticato dalla sua realtà, ma chiamato a esibire senza sbavature la piena efficienza sociale e familiare, anche nel ribrezzo.
Litizzetto, che poi non è che Bisio o Bonolis, ha redatto questo esercito di starnazzanti dalla lingua lunga, senza pistola e col bavaglino sporco di latte, molto più di quanto ci si illuda abbiano invece fatto Woody Allen o Monty Python. Ma qualcuno osi dirglielo che non sono dritti e non sono «puntuti», sottili, né arguti né ‘taglienti’, perché la teledipendenza li ha mutilati e precocemente infartuati e omogeneizzati, anche nello sbuffo e nel risentimento.
La sveglia del battutista fa “drrriiiin” prestissimo: schizza puntuale dal letto come un frammento vivente di Striscia La Notizia, e i malcapitati devono oscurare la sua ultima «novità» per non esserne orribilmente travolti (come un venditore ambulante di fritture, si sgola per venderci le sue panelle di ‘vetriolo’: chi le comprerà?).
La pesantezza che si finge brio, nel calendario di un quotidiano miserabile, magari odioso, non intervallato da stimoli complessi e incontri salienti, produce difficilmente memorie per kafkiane o flaubertiane o balzachiane «commedie umane». Non basta credere di ‘capire’, avere disgrazie o saltuari episodi grotteschi nel proprio arco, men che mai avere un vissuto condito da parlantina, per ottenere il lasciapassare letterario a sfondo satirico.
E perciò, ritrarre il mondo e i suoi talvolta paradossali frammenti secondo un ambito «modello ironico» può rivelarsi un’impresa fuori portata e non più che goffa presunzione quando l’emittente è a servizio della mediocrità e della morte delle idee.
Ridere non è mai stato tanto noioso, al punto che ora piangere è quasi un bisogno e una purificazione. I Grandi Ironici, i migliori tagliatori di gole, conoscevano la misura e il «controllo del mezzo» dosando il veleno, coltivato sempre di traverso in un nucleo di dolcezza per la vita priva di zuccheri semplici, su uno sfondo di grande serietà, incutendo timore reverenziale e giustamente odio nei mediocri. Si armavano di quel limite che sostanziava il riso, evitando di trasformare un motto di spirito in vaudeville, o in sarcasmo destinato ad alleggerire il turno di guardia dei votacessi (Prezzolini sarebbe d’accordo). Si osservino, fra gli altri, per esempio Wilde, Shakespeare, Voltaire, Swift, Sterne, Marziale e Petronio, Arbasino, Flaubert, Flaiano, paragonandoli a questi salami ridens: vedremo che non c’è traccia di un pavvo politicamente scorretto in loro, trovandosi in una prospettiva non contingente e non prevedibile.
Cauti alchimisti nell’espressione, erano consapevoli che un’acidità di buon livello non distilla meglio che da un animo disinteressato e ricco, appassionato, da uno sguardo privo di sforzo, divinato e saggio, praticato dall’alto. Erano tutti rigorosi comunicatori, dal gusto estetico netto, erano tutti severi.
Ha pretese su di sé e sugli altri molto precise, e gli spazi della conformità, per lui, sono angusti. È codice miniato di durezza colta, quella dei Grandi Ironici, che nasce da passionale disciplina intellettuale e granitico senso del bello. Erano inattuali, «nati domani», come piace dire a Nietzsche (venuti per farci male, e quindi bene, eccitando il cervello). Come tutta l’Arte del resto, che non è mai nel tempo o del tempo.
Al cospetto dell’Ironia, siamo nel pieno di un’ideale assoluto di lepos, di sapida arguzia, persino di fronte alla materia più refrattaria e nelle condizioni più estreme. «Cosa c’è di divertente in un sacco di persone che lavorano sodo. — Con un ulteriore sforzo, riescono a conquistare gli hobby e, giunti alla fine, non sanno altro che contare le ore che mancano al tempo». Lo dice Nietzsche, nelle sue Opinioni e frasi contrastanti; in Umano, troppo umano, parte II. Non sapeva che si potevano addirittura fabbricare imitazioni cinesi di ghigni dionisiaci e zoroastriani, grazie a un Internet dove ci si impiega a scrivere ogni giorno una battuta, resa cotechino DOP grazie al tastino “mi piace”.
Sui social, la produzione seriale di ironia cosiddetta uncorrect a chilate, ha ormai il pannolone: sempre più strapaesizzata, impiegatizia, di stato, impotente («nulla è più ignomignoso di un Priapo senza palle», rivela Marziale). Da tre post ironici in su a settimana, si è pronti per il più infimo ruolo lavorativo e psicologico del mondo: l’intrattenitore virtuale di colleghi alla macchinetta durante la pausa caffè. Ma non ci sono Kraus, solo casalinghe annoiate che timbrano il cartellino a Voghera.
Il boom di tutti i «bisognini», con la cultura edonistica, nel consumo che la accompagna, ha reso possibile l’espansione umoristica secondo forme declassate? Il «fenomeno umoristico» di questo momento è una terapia per rinverdire l’alienazione dell’homo videns, ammalato di scrolling scrotale? Per una volta, «l’ardua sentenza» non è responsabilità dei soliti posteri, è già possibile una pronuncia. Si dovrebbe irridere divinamente, uccidere col riso, ma va in scena il monolinguismo incruento e vischioso di ridanciane bestiole così minime, inette al male di cui avremmo bisogno.