L’odio è la cosa più snobbata nella nostra società, l’odio è visto come una forza tapina, segno e stigmate degli infelici, qualcosa che la collettività snobba, e che considera meschino, chi odia nei social è un troll, una persona in fondo disturbata, con problemi relazionali. Eppure, l’odio è una delle forze che più cambia il mondo, ma il grande sistema odia l’odio, lo stigmatizza, deve essere tutto condiviso, soffice, l’arte deve dare messaggi positivi, i graffiti devono essere colorati, e tecnicamente fatti bene. Deve essere qualcosa di grande, di sovradimensionato, di pacioccone, il ribelle è in fondo buono, e la scritta è un tentativo di influenzare l’opinione pubblica, non ha nulla a che fare con l’arte in senso stretto, con lo sperimentare nuovi linguaggi e visioni.
Ma a questo punto mi chiedo se sarà mai possibile fare dei graffiti odiosi o di satira, e se i gusti del pubblico stiano veramente cominciando ad adeguarsi a tutta la merda che gira da qualche anno nel mondo dell’arte, e che dai muri passa alle gallerie, insomma, parafrasando il noto rapper italiano Salmo, il graffito ha fatto la fine di quando sei invitato a vendere il fumo ma tu sei amico delle guardie. L’odio è svanito per lasciare il posto alla tolleranza e all’umorismo da zainetto Seven, graffito e potere è un rapporto perverso tra amore e odio, ma il fatto che una tecnica particolarmente figurativa o un lettering di moda sia considerato bello, è il grande limite di chi non riesce a esprimere più il vero sale dell’arte ribelle: l’odio!
Si deve essere offline. Craccare, disubbidire, violentare, insultare, piratare. Creare l’agguato. L’arte è la libertà, il caso, il caos. Cancellare la cancellazione, cancelliamo la cancel culture, il cancello verso l’abisso. Riformattiamo i formattatori, i mondi, i segni, le istanze, i linguaggi, bruciamo le loro pubblicità, le loro buone maniere, Dio è l’anagramma di odio, la cattività, l’anima, la sofferenza diventa odio e una volta era segno violento, fuggire tra le pieghe del tempo, e tra le stringhe dello spazio, essere percepiti e capiti, è l’orrore dei nostri tempi, l’essenza della street art è questo farsi capire per forza, questa illogica logicità.
L’odio è talmente considerato un problema dall’insieme della nostra società che la primavera scorsa le Camere hanno costituito una Commissione parlamentare sull’odio. È permesso solo l’odio su commissione, manipolato, ed evidentemente la fame, il desiderio di riscatto, la frustrazione che esso rappresenta sono una minaccia bella e buona allo stile di vita borghese e da automi che invece si vuole propagare. Proprio le scritte sui muri, anche pazze e senza senso, raccoglievano queste istanze liberatorie e subconsce, e proprio questa pratica ora viene messa in bella mostra per le vie del centro, come un talent show della figurazione retorica, e cerca la tanto agognata visibilità social, o anche che il gallerista, il manager della grande azienda figa ti faccia fare una facciata.

L’imperfezione, l’assenza di volontà, la casualità e la freschezza sono ormai bandite da questo stile di pittura, rimane una sterile comunicazione di quattro concetti stereotipati, destinati a qualcuno a cui in fondo non interessano, e promuove una partecipazione o adesione quasi totale a questo stucchevole tentativo di ingegneria sociale. Ecco a cosa sta partecipando la street art, il graffitismo, e il giovanilismo ultra-ambientalista alla Greta Thumberg. Una generazione di incappucciati in felpe della Volcom, come i Wandjina dell’Australia, gli aborigeni alieni che insegnarono la legge nuova all’uomo, anche loro graffitati nel nord ovest dell’Australia, allo stesso modo i graffitari finiscono, nei casi più mistici, a sfoggiare una filosofia New Age da salotto, applicata a stilemi da cartone animato.
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È la nuova speculazione edilizia del millennio? O l’ennesimo bluff per fare notizia? Come si fa a prendere sul serio tutto questo? Come si fa a non fare gonzo-giornalismo, su questo nulla, su queste cretinate, su questi discorsi da bar. L’arte globale e mondialista per eccellenza, i graffiti, l’integrazione come imbastardimento e imbalsamazione delle speranze umane, e tutto il bla bla bla anni Ottanta, sempre, da oltre venticinque anni le stesse cose, si sta creando un linguaggio globale e piatto per dire nulla, e dirlo male.
L’accettazione sociale del graffito lo fa diventare murales, e quindi non arte, ma deriva estetica: ho questa visione di Diego Rivera, col suo panzone da leccaculo socialista che sborra su un muro opere commissionate da una proloco messicana. Se davvero non esistono graffiti brutti, esistono graffiti, per così dire, inopportuni e laidi e non antisociali, ma sociali e accettatissimi ormai dall’uomo medio della strada, in una borghesizzazione definitiva di questo modo di intendere l’arte. No, non bastano più solo il segno e l’intenzione, e non è più una questione di modo, ma di modo a luogo. E i giudici siamo tutti noi, giudici di un movimento artistico che dovrebbe essere libero dalla nascita, senza vincoli e senza etichette, ma che si pone alla stregua dei gusti del signor sindaco e dell’associazionismo bigotto. Ma forse, tutto sommato, è il momento di mettere dei paletti, ora che il graffitaro si è tramutato da muralista in moralista; la street art era una storia di rivendicazioni sociali, anche dal basso, che non scende a compromessi col potere. Così ci piaceva sognarla, oggi non vende più questo sogno, vende se stessa – a delle grosse teste di cazzo. È diventata pubblicità regresso o progresso; ovvero ciò che la street art ha sempre voluto contrastare.
La cosa che stimo di più di tutta questa storia dei graffiti, sono i graffiti brutti, sì, quelli che… insomma… riescono male. Gli autori li fanno in posti veramente ameni perché se ne vergognano, sono esercitazioni, ma sono anche poetici e pieni di tensione creativa adolescenziale. Spesso gli autori sono ragazzetti alle prime spruzzate di bomboletta, i curatori li escludono dalle ricognizioni classiche sulla street art, e spesso sono capolavori anonimi, tag sconosciute, orride, storte, fatte male, ma finalmente ribelli, segni di sensibilità ingenue, affascinate dal mondo della figaggine e dei colori, fatte da gente che non sa disegnare, e non sa gestire il colore di uno spray, che non ha mascherine e proiettori, che fa tutto a cazzo di cane. Il graffito brutto è il vero scorretto del sistema della street art attuale, graffiti con errori grammaticali, lettering deformi; “è uno che ci ha provato” mi dico sempre, quanto è patetico e poetico allo stesso modo, di certo è genuino, il solo averci provato a fare il figo, ecco, questo manca ai graffiti fatti bene e borghesi, ai graffiti di Stato, enormi, precisi, progettati. Com’è crudele l’incapacità, e com’è salvifica certe volte, quanti avranno fatto un graffito storto e avranno rinunciato? Molti, a considerare le tag che abbondano nelle nostre strade; e poi minchie, fighe, insulti, riferimenti politici e satanici, l’annosa lotta tra scritte fasciste e scritte comuniste, questi sono gli unici graffiti degni della mia considerazione, è una bellezza-bruttezza impossibile da replicare, perché nessuno può fare apposta un graffito brutto, questa freschezza me li rende simpatici, più di un’orrenda opera di Blu, e in più dà una cattiva reputazione che oserei definire gloriosa e meritata, ancora fresca, al mondo della street ormai fighetta come un triste progetto esecutivo da cameretta.
Questi segnacci sui muri della caverna-città spesso sono la vera pancia del paese, ormai per me i numeri dei pervertiti nel bagno dell’autogrill sono meglio di qualsiasi opera di Basquiat, quella sì che è tensione, una società che si manda a fanculo e ti invita a fotterla: è quello che farò se mai dovessi fare un graffito. Sindachelli, proloco, assessoricchi alla cultura, associazioni cultura e libertà, bandi, bandicini, muri di cinta delle parrocchie, vecchi personaggi dei giornalini: Tintin e Milù, Lucky Luke, Asterix, i Puffi e tanti altri, ma andatevene bellamente a fanculo, incubi sociali, questo librello è proprio un pretesto per insultarvi, come non si può insultare uno che fa uno squarcio finto su Palazzo Vecchio a Firenze e si fa chiamare JR, ti prudono le mani solo a pensarci, un esercizio di calligrafia e di stile fighetto, barocco, cretino, un tocco a-personale per ogni muro di sofferenza, di mani spaccate e di sottoproletariato schiavo beccato a piangere nelle pause pranzo. Restano gli occhi di chi non sa, ingenui, meravigliosamente tristi, e di chi pensa di parlare un linguaggio segreto, in una stronza decoratività di letterine ben studiate per piacere al giovanilismo più acuto. E ci vuole pazienza a essere così stronzi, ve lo assicuro, è lì che devi avere padronanza, controllo.
I graffiti nati come nuova arte e presto degenerati in street art sono figli del più grande genocidio culturale della storia, la globalizzazione e l’universalismo forzato. L’arte è un atto vandalico al vandalismo, è pirateria della grazia, è pietra filosofale, un misfatto, uno scippo, uno stupro d’amore, è un atto folle, sconclusionato, progetto senza progettualità. È proprio così che si esalta la bellezza che è solo verità eterna, e la verità non è mai comunicazione, la comunicazione è l’ultimo e più basso degrado dell’arte, e la street art invece è comunicazione, è la corruzione endemica, il degrado fatto dal primate post-umano, la decadenza sui muri, e nelle metropolitane, è l’atto finale della fine. La street art è alla stregua della burocrazia amministrativa al comando, è ormai il gendarme del politicamente corretto, allineato a mass media e tv, compone quell’enorme manganello del potere progressista che colpisce chiunque ed è letteralmente il contrario della verità come bellezza.
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L’arte non è mai sociale o consolatoria, per questo motivo né i graffiti, né la street art, né i murales sono arte ormai, e stanno quindi occupando abusivamente uno spazio e un territorio, l’arte è un affondare elegante tra le pieghe del nulla, invocando Dio o maledicendolo, che è come invocarlo, non finirà mai a decorare zainetti di adolescenti, ancor prima della tomba della Storia dell’arte. La comunicazione quando è spacciata per arte comporta l’abbattimento di ogni sogno di libertà, la rinuncia per sempre alla verità di un amore o di una lotta, o di una bella idea folle; niente nell’arte deve essere rassicurante, perché niente nella vita è certo, e chi comincia a fare street art è un tossicodipendente del progresso, uno zombie della postmodernità e dell’educazione coatta, l’arte propaganda del sé di un altro, l’arte che prende in prestito le idee malsane della società più degradante di sempre. Da quando tutto questo è moda, e il graffitaro è passato allo status di street artista, prezzolato e compiacente, figo, niente di interessante può più venire fuori da questa recita, ed essi stessi si denunciano nei social, nelle mappe comunali dei graffiti inerenti a manifestazioni artistiche: da potenziali anarchici a sbirri comunali il passo è breve.