Per un filosofo scrivere equivale a scoprire. È l’atto che disciplina la mente, che la costringe a scavare nel profondo, a stare attenta. La filosofia è una sequenza inscindibile di osservazione e scrittura. L’osservazione genera una parola senza la quale non si può procedere alla successiva.
Viene da pensare agli scultori: esiste una scultura che procede per rimozione e una che procede per aggiunta. Così che da un blocco di marmo venga fuori un David togliendo materia, mentre per costruire un esile omino allungato dobbiamo aggiungere pezzi di creta un po’ qui e un po’ lì. Sono processi diversi perché nel primo caso si spoglia una forma per definirla, dalla metafisica alla realtà; nel secondo caso è la realtà che genera una nuova forma di se stessa. Se c’è qualcosa di metafisico rimane inconscio.
Così i filosofi.
Alcuni di loro riducono la realtà alla sua forma essenziale – come faceva Picasso con i suoi tori – per capirla, mostrarla, esibirla. Filosofia come gnoseologia. Altri cercano di ricomporre pezzi di realtà, come cocci di una ceramica finemente ornata ma talmente frantumata da non mostrare più l’oggetto del disegno. Allora si cerca di ricomporlo, talvolta in nuove forme. È una filosofia che verte sul trittico ricostruzione-distruzione-ricomposizione.
Oggi, la ceramica del mondo è talmente in pezzi che la filosofia non spiega più nulla, tuttalpiù deve essere spiegata.
È in questo contesto che nasce una figura culturale di rilievo. Byung-chul Han. Il filosofo che, avendo compreso come nessun coccio ha più un suo corrispettivo, si aggira per il mondo alla ricerca di un singolo frammento da osservare e descrivere.
Non si tratta di criticare Byung-Chul Han come individuo, né di sminuire il suo percorso intellettuale. In fondo, questo testo è un’espressione d’amore, seppur in agonia, perché se mi piacesse del tutto non starei scrivendo queste parole e se lo odiassi ne farei una caricatura color pastello.
Pochi filosofi contemporanei hanno avuto la lucidità di intercettare l’affaticamento percettivo, l’ipervelocità, l’erosione dell’interiorità come ha fatto lui.
La sua opera – composta da brevi testi, dal lessico riconoscibile, costruiti su intuizioni efficaci – ha intercettato il collasso lento della soggettività.
Ma proprio per questo la questione va trattata in modo nuovo: non cosa dice Han, ma cosa i nostri campi culturali fanno di lui. E lui, come reagisce a questa seduzione? Scrivendo pamphlet.
La filosofia non è sempre stata questo.
Foucault – che pure lavorava su forme brevi e spesso frammentarie – aveva una strategia di mappatura, delineava una linea d’azione: nei testi scritti la storia e nelle conferenze il presente. Parlava delle prigioni per mostrare come si articola il potere e come esso cambia forma più che bersaglio.
Non si limitava a descrivere la società disciplinare. Ne tracciava genealogie. I suoi libri parlano di ospedali, prigioni, confessione, medicine, strumenti per rendere leggibile la struttura del presente attraverso un’unica lente: quella dei sistemi-segnale del potere.
Altri hanno scritto corpi concettuali al fine di agire sulla realtà, altri hanno organizzato linee e direzioni al fine di interrogare i sistemi tentando sintesi tra istanze diverse: psicanalisi, economia politica, filosofia.
Han invece non costruisce un sistema. Non lo pretende nemmeno. Scrive brevi libri che si possono leggere sul polveroso sedile di un Frecciarossa che da Milano arriva a Bologna. Alla fine della tratta si avrà un termine chiave per spiegare agli amici quanto è levigata l’estetica contemporanea mostrando il tuo Iphone oppure improvvisandosi navigati direttori della fotografia che spiegano ai loro alunni come Netflix abbia levigato l’estetica fotografica delle serie tv omologandola.
Testi accessibili, limpidi, perfetti per una società esausta, che non vuole più pensare con fatica, ma solo riconoscere la propria stanchezza. Una società talmente stanca da unire design d’arredamento e macchina del pensiero. È il filosofo dell’impotenza, non perché non veda, ma perché sa che non può agire, sa che al massimo le sue parole possono redimere se stesso. Analizzare la sua attività significa andare alla fonte dei problemi che egli stesso descrive.
Ogni libro è un sintomo osservato, descritto e poi lasciato lì. Lo leggiamo, siamo fieri di sapere e rimaniamo passivi, inermi.
Sapere – così – diventa un atto estetico, un bene posizionale all’interno del campo culturale.
Si passa dalla rottura alla congiunzione.
La sua filosofia è un’architettura minima, ogni suo libro è un monolocale. È perfetto, al suo interno trovi tutto quello che cerchi, ma non puoi andare da nessun’altra parte.
Ottime riflessioni dentro contenitori chiusi. La macchina del pensiero come luogo del consenso, filosofia priva di negatività, venduta all’interno di sistema editoriale a bassa intensità conflittuale. La cultura – in quanto sistema di selezione e legittimazione – ha bisogno di contenuti che non espongano chi li diffonde al rischio di esclusione.
L’editoria, difatti, ha capito subito come trattarlo e lui ha risposto adattandosi.
I suoi testi sono impaginati in belle palette monocromatiche, con formati piccoli e titoli-slogan.
Ogni nuovo libro non è che un modulo di aggiornamento del prodotto-Han, come se la sua funzione non fosse quella di creare mondi o cambiarli, ma soltanto commentarli.
Micro aforismi estrapolabili (La società della stanchezza, La società della trasparenza, L’espulsione dell’altro…).
In Italia a pubblicarli è stata soprattutto la casa editrice Nottetempo che ha pubblicato volumi pensati per stare sulle mensole, accanto alle piantine ornamentali e alle stampe di Roy Liechtenstein. Einaudi li ha resi meno affascinanti.
Han ha sposato questa filosofia del design spezzettando la stessa intuizione in diversi micro-testi, che sono varianti dello stesso concetto di fondo (o coccio di fondo). Un concetto forte che meriterebbe di entrare in un sistema di pensiero più ampio.
Non ha mai preteso un corpo teorico unitario. Se penso a Pierre Bourdieu intuisco che la sua ricerca verte tutta, anche quando parla di arte contemporanea, su come la gerarchia sociale si riproduca. Quando rileggo Han penso a glossario per semi-colti che può essere usato ovunque: nella curatela artistica, nei laboratori universitari, ai vernissage. L’artista di un’opera mediocre troverà sempre il modo di inserire una sua riflessione nel corpus testuale della presentazione della propria opera. L’arte, infatti, lo adora perché non impone domande, eppure conferisce densità dentro le soglie dell’accettabile.
Non viene citato per far esplodere l’opera d’arte, ma per spingerla verso tutti. Perché Han non ha direzioni, non ha obiettivi, parla di tutto. La sua è una filosofia-segnale senza direttrici e senza bisogno di risposte. Certo, è un autore incontestabile, solo un folle metterebbe alla berlina le sue tesi, perché in esse non vi è rottura.
Un disegnatore osserva la realtà e poi con la mano traccia una linea. A un certo punto traccia un segno che piega la realtà. Quel momento, è il momento di rottura tra la realtà e l’arte.
Dove gli artisti cercano questa rottura, Han cerca il ritratto perfetto e incontestabile. Realizza un segno privo di ambiguità che, per essere tale, ha completamente dimenticato se stesso. Il ritratto che piace all’assessore alla cultura di un comune di provincia in un paesino al centro della Puglia, ma anche a un docente di teoria dei media della Naba. Funziona perché non disturba, ma dà forma a un disagio diffuso. Un dizionario della frustrazione che non pretende conseguenze e fratture. È la cosmesi della filosofia: Han-estetico.
L’autore perfetto per una classe agiata e culturalmente frustrata, che vuole sentirsi intelligente senza dover ridefinire la propria posizione nel mondo. La sua filosofia è una griglia flessibile di concetti ossidati, immediatamente applicabili senza attrito. Non ti chiede di cambiare il modo in cui vedi il mondo, ma ti restituisce un’immagine elegante del tuo disagio. È filosofia che non ricerca ma conferma, che non svela ma designa ciò che già percepisci in forma ornamentale.
Allora penserete che sono stato un bugiardo, che questa non è una lettera d’amore. Penserete che il mio è un ritratto spietato di una figura diventata ormai istituzionale e che il testo possa concludersi soltanto con la sua defenestrazione. Invece, spero in una riconfigurazione: non servono più nuove variazioni di un’unica idea, serve riunire quelle idee, per costruire.
Serve smettere di estetizzare la malattia e di fare della cura design. Non è la stanchezza il problema, è l’adorazione del sentirsi stanco e capire il perché. La stanchezza non è un’identità e la filosofia non può essere solo uno specchio. Altrimenti sarebbe una filosofia che non trasforma nulla, ma arreda il pensiero e le nostre case. Le palette del blu all’interno dei nostri scaffali, i suoi termini-effetto all’interno delle nostre menti, i suoi slogan durante i dibattiti all’interno delle aule di filosofia. Di questo dobbiamo liberarci: della filosofia come stile affettivo che non produce rottura.
Le sue intuizioni hanno valore, ma non possono restare oggetti arredativi.
Se per lo spirito di Byung-Chul Han c’è redenzione, ad esempio ricomponendo la sua opera in una mappa più ampia, per i campi culturali credo non ci sia.
Il successo editoriale e curatoriale di Byung-Chul Han non si spiega solo con l’eleganza delle sue formule, né con la compatibilità cromatica delle sue copertine. Va invece collocato dentro una mutazione sistemica: la ritirata degli apparati culturali dalla ricerca della verità e dalla costruzione del senso, in favore di una gestione strategica della propria potenza posizionale nel campo della produzione simbolica.
Nei dispositivi culturali – mostre, cataloghi, riviste, festival, panel, talk – non si cerca più nulla. Non la verità, non la bellezza, non il disvelamento dell’ordine implicito del reale. Il compito non è più pensare, ma rafforzare la propria funzione all’interno del campo. Aumentare visibilità, riproducibilità, riconoscibilità. Non costruire una visione del mondo, ma essere ospitabili nel mondo così com’è.
La bellezza è stata messa a valore, estetizzata fino al consumo. Le istituzioni culturali sono state perforate dal modello aziendale, costrette a misurare l’efficacia dei propri enunciati secondo logiche parametriche performative. Il compito non è più produrre verità, ma gestire segnali riconoscibili. La potenza non si misura in rottura, ma in aderenza alle forme già validate.
Byung-Chul Han è il segno vivente di questa trasformazione.
L’editoria, vero fulcro di questo sproloquio, ha reso la filosofia uno strumento di posizionamento sociale e proselitismo ambientale. Dasein che diventa design.
Nessuno si aspetta che essa sia eloquente, ma almeno che tocchi qualcosa che sfugga alla nostra piena comprensione.
Certo, penserete: come facciamo a comprendere le cose profondamente? Come facciamo a rispondere alle domande fondamentali e inevitabili della vita? Come facciamo a reggere il peso della domanda: “chi sono?”. Impossibile. Invero, la filosofia, nel momento in cui delucida, si fa più misteriosa.
Una grande opera filosofica è, per me, un ospite inatteso in casa mia assorbito dal buio della notte. Mentre Byung-Chul Han, pur avendo i mezzi per intrufolarsi con tale violenza nelle tenebre, decide di essere il venditore porta a porta di oggettini carini da tenere sulle mensole ben illuminata di casa nostra.