Riflessioni sul mercato dell'arte dopo che la banana di Cattelan è stata venduta per 6,2 milioni all'asta da un crypto-bro

La “banana” di Maurizio Cattelan, quella celeberrima appiccicata al muro con il nastro adesivo, è l’apice di una società che si guarda allo specchio e ride, senza rendersi conto che ride di sé. Ride di noi. La banana, con i suoi 6,2 milioni di dollari di valore, non è solo un’opera: è un meme culturale, una sintesi del nostro tempo che, bla bla bla bla ha rotto il cazzo.

Ma cosa ci dice questa banana dei primati? Nel senso che siamo tutti scimmie, un un po’ cretine, davanti a uno spettacolo patetico? E che spettacolo: una società che ha scambiato il valore per il prezzo, la profondità per il marchio, il significato per la performance di mercato. Cattelan non ci offre un’opera d’arte; ci offre un test di intelligenza. E indovinate? Lo abbiamo fallito, avete fallito, abbiamo fallito tutti, il primato ottenuto è di essere il primo primate globale, quel primate collettivo che siamo diventati.

Nel descrivere l’opera e il dibattito che suscita, mi sovviene la “teoria delle pillole” che tanto spopola sui social: Blue, Red, Black, White, Purple, Clear. Questo prisma di percezioni, che pretende di spiegare le dinamiche delle relazioni interpersonali, si specchia perfettamente nel nostro rapporto con l’arte contemporanea. Ognuna di queste “pillole” ci racconta un modo di vedere la banana di Cattelan.

I Blue-pillati la contemplano con romanticismo: la banana rappresenta il miracolo del quotidiano, la poesia della semplicità. È l’arte che ci ricorda che la bellezza è ovunque, basta saperla vedere. Poveri ingenui. La banana non è altro che un ready-made, un gesto logoro, la versione pop del già-visto.

I Red-pillati vedono invece l’L.M.S. in azione: Look (la sua estetica banale e accessibile), Money (il prezzo stellare), Status (il nome di Cattelan). È il trionfo dell’iperbole mercantile, la conferma che chi sa giocare bene le sue carte può dominare il gioco. Cattelan è il red-pillato dell’arte: non cerca di conquistarti con l’anima, ma con l’impatto brutale delle sue cifre.

I Black-pillati, inevitabilmente, si rifugiano nel nichilismo: la banana non vale nulla. Il mercato dell’arte è un teatro dell’assurdo, un gioco in cui il contenuto non esiste e l’apparenza è tutto. Se sei brutto, se non hai un marchio, se non hai un nastro argentato da esibire, sei invisibile.

I Purple-pillati, invece, oscillano tra ammirazione e scetticismo. La banana li seduce per l’idea che ci sia qualcosa di profondo, ma poi li lascia frustrati: si rendono conto che è solo un nastro adesivo su un frutto.

I White-pillati, con il loro pragmatismo, accettano la banana per quello che è. Cercano un significato, ma non lo trovano, e allora si impegnano a migliorare il contesto: forse non è l’opera a essere inutile, ma la nostra lettura a essere superficiale.

I Clear-pillati, infine, ci ridono sopra: la banana è una stronzata e basta. E chi se ne frega? Forse il vero atto d’arte è smettere di cercare significati profondi in un gesto tanto semplice quanto insignificante.

Eppure, mentre ci affanniamo a cercare un senso, non posso che immaginare una provocazione più profonda che buttare minestra sulla Gioconda, sibilare malignità su Dante e Leopardi, è facile: sono bersagli classici, icone che non amiamo e non capiamo, e che hanno ormai ammiratori innocui (vecchi professori maniaci sessuali, turisti tedeschi o vecchi Milanesi con le polo da outlet). Se volessimo davvero esprimere un disagio autentico, un dolore reale, dovremmo ammazzare Banksy, come il signor Enzo, dare alle fiamme i libri di Roberto Saviano e Zerocalcare, dare poco conto a l’impresa artistica di Cattelan, ancor ameno al giovane Cattelan 45enne che presenta in tv. Dovremmo colpire ciò che il sistema che diciamo di combattere ama e sostiene. Ma non possiamo farlo, perché abbiamo gli stessi gusti del sistema. Nel suo sorriso beffardo c’è la stessa ironia della banana di Cattelan: un gesto semplice, carico di sarcasmo, che ci prende in giro proprio mentre cerchiamo di decifrarlo.

Il paradosso è totale, e la scena si trasforma in un quadro esistenzialista dove arte e vita collidono, un altro bla bla bla mi scappa, una altra situazione cringe, un’altra boomerata. La banana al muro è una riflessione sul vuoto.

Cattelan, nel suo cinismo assoluto, ha capito tutto questo. La banana è un test che, come società, falliamo due volte: una, perché la compriamo per il prezzo e non per il significato; due, perché la speculazione culturale ed economica, è un classico del sistema ormai che è tutto finto, non riusciamo nemmeno a odiarla davvero, anche perché viene molto più facile odiare anzitutto chi continua a ripostarla.