Nel 2016, quando si sgretolarono Norcia, Amatrice, e tante altre città del centro Italia, su Facebook (piattaforma che ancora dominava il mercato delle emozioni) iniziarono a girare vari video o resoconti di bravi ragazzi con le teste rasate che di domenica, sveglia alle 5, invece di inabissarsi appanzati nella Serie A, andavano sull’Appenino a scavare con le mani tra le macerie, nella speranza di salvare vite innocenti travolte dal destino. Già ai tempi, uno sguardo attento – ma neanche poi così tanto – avrebbe notato che la popolazione degli altruisti domenicali sembrava essere compattata, oltre che dal cuore pio, anche da una medesima nostalgia politica, professata dai vari slogan sulle magliette, dalle capigliature prive di fantasia e, soprattutto, dai commenti che circolavano liberi, per le valli ormai sgombrate dal cemento e dal pudore metropolitano.
Recentemente, invece, è toccato all’Emilia di franare, non per una sequenza sismica, tuttavia, ma travolta dal fango dei torrenti, per le piogge inarrestabili. Era successo già un anno e mezzo fa come ricordiamo tutti, in primavera; e perciò stavolta, tutti dotti circa le cause grazie alle diagnosi degli esperti (riscaldamento globale, tropicalizzazione, siccità, eccessiva cementificazione, aperture dei fossi, manutenzione delle tubature), la si è affrontata con più cinismo, chiusi in casa, a contare le ore e i millimetri e ad aggiornarsi sui reel, scongiurando le ondate di fango.
Anche stavolta però sono saltati fuori gli spalatori domenicali che, con superbia italica simile ai loro compatrioti ad Amatrice, spolverati stivali e attrezzi, si sono gettati con coraggio nella melma colata a valle dell’Emilia Romagna – seguendo l’esempio di un noto e apprezzato statista loro corregionale. Il loro coinvolgimento era tutto sommato atteso e previsto, poiché la cura e l’empatia con cui proteggono e tutelano tutto ciò che ha a che fare con il patrimonio italiano – che sia culturale, alimentare, umano o geografico – è proporzionale all’impermeabilità emotiva che dimostrano rispetto a tutto ciò che non ha a che fare con il parmigiano e la pasta asciutta. Oltre a ciò è di fondamentale importanza per loro promuoversi quale gruppo civico intraprendente e attivo, ispirandosi a un movimento storico che aveva fatto della puntualità e l’efficienza delle infrastrutture il suo cavallo ideologico di battaglia.
La novità degna di nota riguarda le scelte comunicative di un altro gruppo di altruisti, impegnatosi senza aspirazioni politiche nella solidale impresa civica di spalatura, e che ha deciso di propagandare il proprio gesto sui social, con tute sporche di fango e pale alla mano, a riprova della propria abnegazione. Gesto senza dubbio encomiabile. Viva l’altruismo, viva l’Emilia che resiste e la sua brava gente, soprattutto se sono giovani, e invece di drogarsi, spalano. Ma questi due gruppi di spalatori sono poi tanto diversi? Da un lato gli italianissimi audaci e fieri che sfidano le avversità metereologiche per difendere la patria dai numi ostili, rimarcando ad ogni spalata il fatto che di immigrati sulle colline, ad aiutare la brava-gente-che-lavora, se ne vedono pochi. Dall’altro i bravi ragazzi sorrisi alla telecamera che, con la scusa di sensibilizzare, riscuotono la loro quota di visibilità dall’economia del disastro. Se i secondi spalano, in fondo, per sé, i primi lo fanno perché lo vorrebbe Lui. La brava gente che lavora affogata nel fango è del tutto accessoria per entrambi i gruppi sociali e vale quanto la visibilità mediatica delle loro sofferenze.
Fin qui nulla di nuovo. Il circuito economico su cui si fonda il mercato della solidarietà da vetrina è un fenomeno noto e studiato. Verrebbe da chiedersi però, quali siano le conseguenze dell’altruismo degli spalatori?
In Italia profonda Giovanni Lindo Ferretti proponeva, dalla sua Cerretto Alpi, piccolo borgo invallato e protetto dal turismo, e perciò destinato all’estinzione, il seguente suggestivo punto di vista riguardo ai disastri idrogeologici dell’Appennino.
È antieconomico, diventa antisociale, persino un peccato di arroganza, che qualcuno voglia continuare a vivere in montagna. Lo Stato agevola, quando non promuove in tempi lunghi e diluiti, la stessa progettualità di Ceausescu, giustiziato mentre metteva in atto un brutale svuotamento delle montagne di Romania, radeva al suolo o sigillava in funzione turistica i paesi e deportava i montanari nelle periferie delle città: il socialismo realizzato. Lo farebbero, lo stanno facendo, anche i nostri politici ma con garbo democratico.
Il problema del vivere in montagna è oggi, da un lato, immaginario/mitologico e può essere risolto, dall’altro economico/burocratico e risulta insolvibile. Ci vorrebbe una terapia d’urto ci offrono l’eutanasia assistita. Non ci si può mantenere e pagare le tasse, difficile se non impossibile essere a norma di legge. Le vecchie botteghe, i bar, le trattorie, le aziende agricole, gli allevamenti, sono chiusi o stanno chiudendo, le nuove normative, gli studi di settore, sono stati il colpo di grazia. Le attività economiche sui monti, tolte le ben evidenti e localizzate speculazioni, dovrebbero essere considerate presidio geologico ed umanistico, una funzione sociale. Farebbe la giusta differenza.
Tutto si sta sgretolando. Una montagna intensamente coltivata per mille anni e abbandonata da quaranta sta velocemente mutando la propria connotazione fisica, geologica. Coltivare, allevare, abitare in montagna ha significato innanzitutto rispettare le acque sorgive, incanalare le acque piovane. È l’erosione il primo problema di un terreno scosceso in un territorio fragile. Arginarla è un lavoro immane, costante e perpetuo, plausibile solo se eseguito da uomini liberi, proprietari custodi della terra generazione dopo generazione. Persone che vegliano la notte per necessità, fanno degli straordinari l’ordinario quando è il caso, non dipendono da ordinanze, non aspettano finanziamenti.
Lo fanno perché è la loro vita e da questa ricavano sostentamento e soddisfazione. Da quando la montagna è stata abbandonata questi lavori non li fa più nessuno. Assegnati con aste al ribasso e subappalti a seguito di calamità di cui ci si affanna a proclamare – mai più – vengono svolti con metodologie industriali, massicce e invasive, tamponano e per lo più peggiorano i problemi. La vita sui monti si muove ora tra frane e viadotti e la maggior quota dell’intervento pubblico si concentra su una viabilità volta ad agevolare il traffico. Massima aspirazione è la funzione turistica e il traguardo più ambito è il conseguimento di una targa “sito UNESCO”.
A un anno e mezzo dall’ultima alluvione anche una regione virtuosa e ricca come l’Emilia-Romagna non è riuscita a mettere in atto alcun sistema che, altro che risolvere le cause ormai insanabili del problema, figuriamoci, ma riesca quantomeno a fronteggiare il momento dell’emergenza. Si risolve perciò nell’alzare le mani, invitare i cittadini a stare in casa, e pregare che si fermino il prima possibile le piogge e che il buon senso civico degli spalatori li convinca a rinunciare alla proprio riposo domenicale. L’amministrazione comunale non si occupa di altro, ormai, che della contabilità dei danni, rimettendo all’impresa individuale, e all’altruismo da social o da propaganda l’impegno del risanamento. Anzi, inizia forse a contarci direttamente. Mentre continua a promuovere uno sfruttamento del territorio che è la principale causa della fragilità dei terreni, mentre promuove un ripopolamento turistico e privo di responsabilità locale dell’Appennino da vetrina, dei “Borghi più belli” con la fibra e i pannelli solari, mentre avviene tutto ciò affondano invece le creste ormai invivibili e dimenticate dell’Emilia montanara. E ai disastri idrogeologici, inevitabili e sempre più frequenti, l’amministrazione mette una pezza dichiarando lo stato di emergenza, promuovendo risanamenti invasivi, e chiamando alla responsabilità civica.
A questo punto intervengono i volontari, battezzati dalla stampa “angeli del fango” (espressione coniata durante l’alluvione di Firenze del ’66), per glorificare un momento di collettività volto ad aiutare chi soffre. Ma quando mai abbiamo visto gli abitanti di questo paese unirsi, se non durante eccezionali (non più di tanto al giorno d’oggi) situazioni di emergenza in cui altro non occorre se non un’azione pratica? Un’azione che superficialmente, appunto, è di per sé meritevole, ma che sotto altri aspetti può trasformarsi in un gesto politico. Una buona azione rimane pur sempre una buona azione anche attraverso una lente critica e che ha come fine l’oscuro scrutare di una società ipocrita? No. Si stravolge allora il concetto di beneficenza. Il benefattore diventa il crumiro. Colui che spalleggia la macchina anche quando gli operai sospendono in sciopero la produzione.
I crumiri del fango sono un elemento imprescindibile del sistema marcio e paludoso che soffoca le montagne emiliane, poiché tappano il buco invece di condannare l’esproprio di quelle terre ad opera dell’amministrazione comunale, incapace di risanare il disastro, e soprattutto di invertire la rotta, di prevedere un popolamento dei territori che non si basi sul loro sfruttamento. Finché questi territori saranno gestiti con i soldi degli uffici giù in pianura, l’inurbamento e la conseguente mummificazione turistica dell’Apennino improduttivo sarà l’unica prospettiva possibile. Lo sfruttamento, perciò, continuerà, e le fangate saranno sempre più intense e ravvicinate, proprio perché i gloriosi spalatori, di anno in anno, ogni volta che la terra rigurgiterà la sua insofferenza, si prodigheranno fieri ad alzare ulteriormente la diga sempre più instabile che protegge la valle sviluppata dal collasso totale.
Da questo circolo vizioso non si uscirà finché si insisterà nell’interpretare come un’emergenza imprevedibile l’abbraccio della natura che viene a reclamare un equilibrio soffocato dal cemento. E così si spala, ci si mette in posa per le foto, poi si torna alle proprie vite, lontane dal fango, attendendo le prossime piogge che franeranno un terreno sempre più secco, impermeabile e abbandonato a sé, riportando ancora una volta, pale alla mano, i crumiri del fango in Appenino, per rammendare e rappezzare alla bene e meglio una montagna al collasso.