È un’impressione condivisa quella di sentirsi – aggirandosi, ventenni o poco più, per le strade di Bologna, eletta a dimora per il tempo di una triennale o un 3+2 – come in un grosso villaggio vacanze, un Valtur esistenziale: studi, amori, amicizie, il pacchetto completo. Non è solo che la città è “a misura d’uomo”, “la puoi girare tutta in bici”, “se piove non ti bagni grazie ai portici”, “il 50% della popolazione sono giovani fuori sede”. C’è qualcos’altro, qualcosa di meno evidente, meno adatto a uno slogan promozionale.
A Bolo, almeno questa è la percezione, è come se il tempo non scorresse, o scorresse al di là, al di fuori della storia. Non che i grandi avvenimenti storici non la impattino, che Bologna non sia soggetta al progresso coatto della gentrificazione, della turisticizzazione, della perdita d’identità inversamente proporzionale al successo di Tripadvisor, Airbnb, e compagnia bella. Non che non venga divorata, poi, dai piccoli imprenditori di Dispensa Emilia, degli Svapo Shop, degli Amsterdam Cannabis Shop, degli Habanero e tutte quelle altre lavatrici fiscali della ‘ndrangheta che aprono e chiudono in zona universitaria nell’arco di un ciclo di studi (tendenzialmente però rivenditori di brodaglie asiatiche).
Insomma anche Bologna, come tutto, cambia. In particolare da una decina d’anni o poco più è stata eletta a sede della pausa pranzo dei cinesi in transumanza da Firenze a Venezia. Il suo aspetto in superfice, di conseguenza, è profondamente mutato. Che sia in meglio o in peggio è un giudizio di solito correlato all’ISEE. Ma questa sua qualità eterea, questa sua a-cronicità, il suo essere fuori dal tempo, non sembrano riuscire a scalfirla nemmeno la dislocazione dei campus all’americana in periferia, o l’avvento dei monopattini elettrici. Sarà “questo cielo sempre così grigio”, questa cappa umida che insieme nasconde, protegge e soffoca la “Parigi minore”. O forse è il peso ingombrante del suo passato, la memoria mai sopita della gloria settantasettina – mitizzata dal catalogo di Derive&Approdi – delle barricate e della morte di Lorusso, esposta in vetrina a via Mascarella.
Fatto sta che a Bologna, tutto quel che accade non sembra avere la stessa rilevanza che avrebbe altrove. Il tempo è sospeso e più leggero, le prese di posizione e le professioni di fede valgono meno, i gesti, le usanze, gli abbigliamenti rispondono a un canone diverso, del quale non si deve rendere conto a nessuno. Risulta facile, negli anni bolognesi, diventare vegani, sognare il nomadismo (o al massimo un furgone camperizzato), sedersi in piazza a gambe incrociate e intonarsi all’ennesimo coro che canta Bella Ciao. Pure se tutto ciò non si accorda in alcun modo a quel che fino ad allora si credeva di essere. Ci si lascia convincere che in fin dei conti i peli sulle donne non sono poi così male, che l’eterosessualità è motivo di vergogna e va celata o dissimulata, che la poligamia polisessuale è l’unica forma sana di relazione amorosa, che si può viver di furti e cibo recuperato dai cassonetti della Lidl, che un maglione in più e una tisana zenzero e curcuma possono sostituire i termosifoni, che il fascismo è ancora un pericolo in agguato, o almeno più pressante della tecnocrazia liberale.
Non che queste affermazioni siano di per sé sbagliate, è curioso però che basti spendere del tempo a Bologna – chiaramente fuori dalle biblioteche o dalla propria cameretta sovrapprezzata – per riscoprirsi non tanto d’accordo con ognuna di essa, ma indifferente ad assumere la posa che ciascuna di esse comporta. Chiaramente ci sono coloro che arrivano a Bologna già convinti dei diktat etici imposti dal MinCulPop trans-anarco-tekno-ecologista bolognese; sono quelli che finiscono per girare scalzi, si fanno chiamare Ranza o Gea e ogni anno mettono su un carro a una street parade che celebra l’amico dj morto per overdose.
A Bologna, di fatto, è facile mascherarsi, l’atmosfera è sempre di gioco, è sempre poco seria, si corre (o si pedala) da un lato all’altro, dalla facoltà, a un mercatino, a un’assemblea, a un centrosociale, a una cena, a un concertino, a una serata, e ci si rimbalza vicendevolmente il peso della contraddizione: nessuno terrà il conto, nessuno farà pesare l’incongruenza delle varie pose/posizioni, basta che, a propria volta, si faccia lo stesso. Se Milano può rendere più superficiali e Roma più cinici, Bologna, come città, rende più anarchici, ma è un’anarchia vissuta come passione giovanile. È l’anarchia dell’incongruenza, della libertà confusa con l’assenza di responsabilità. Non vi è chi non se ne stufi ben presto. È il motivo per il quale la fascia demografica meno rappresentata a Bolo va dai 25 ai 30, ovvero i giovani adulti. Si aggirano per la città come appestati, aggrappati alle rovine della propria decostruzione; di loro non rimane che una scorza vuota, dalle opinioni e abitudini più che prevedibili (e riassumibili nei punti di cui sopra), che trascinano dal bar di periferia dove lavorano a quello al quale devolvono il proprio stipendio.
I più assennati invece fuggono subito dopo la magistrale. I teknusi puntano al nord-Europa, si accodano a una tribe e vendono tramezzini ai rave; gli anarchici che vogliono fare qualche avanzamento di carriera sono costretti a traferirsi a Torino, gravitano intorno alla val di Susa, ma alla fine scappano via o per il freddo o per l’analfabetismo emotivo dei NOTAV; i queer squattrinati se restano in Italia puntano tendenzialmente a Roma, quelli coi soldi vanno a Milano; gli ecologisti invece, dissipata la propria carica eversiva nelle fila di XR o FFF, finiscono per lavorare alla FAO o da TooGoodToGo e simili. Gli altri, i restanti, meno classificabili, fondano diverse comuni agricole sui colli che dureranno il tempo sufficiente affinché tutti i componenti abbiano scopato tra di loro e possano tornare in paese a lavorare al ristorante dei genitori.
Tutti coloro che invece a Bologna ci erano finiti quasi per caso – per i dischi in macchina di Guccini e Dalla, per i CCCP in cameretta, per Paz! visto e rivisto, perché ci andava la ragazza, perché ci andava l’amico, per il DAMS – torneranno alla vita come si torna da una lunga vacanza, con una laurea o due in tasca, un ospitaggio garantito in ogni capoluogo di regione, qualche parola d’ordine assimilata e pronta all’uso da usare come scudo nei contesti “politicizzati”, e delle amicizie sincere, senza secondi fini, che il tempo non saprà scalfire perché nate al di fuori di esso.