A Napoli, in piazza Municipio, è stato eretto un obelisco falliforme, turgido e omonimo testamento dell'artista Gaetano Pesce, richiamo priapico per i nuovi e stra-eccitati padroni della città: i turisti.

Un discorso impersonale su un fallo eretto non può prescindere dalla convenzione dell’effettiva impronunciabilità del nome che lo definisce. Solo a una ristretta élite di privilegiati è concesso dire pane al pane e cazzo al cazzo. Nella società del puritanesimo digitale, bisogna pur sempre ossequiare la regola gesuitica della buona creanza. Conta poco l’eredità dei grandi maestri del turpiloquio. Questo impedisce di sciogliere un inno all’oggetto della discussione nominato nella piena franchezza del suo significante. Sarebbe appunto un inno del c****, complice la peggiore idea che l’italiano scritto abbia mai avuto negli ultimi cinquant’anni: l’uso dell’asterisco come mezzo di autocensura.

Che l’erezione postuma del fallo di Gaetano Pesce a piazza Municipio, a Napoli, sia una grande scultura del nostro tempo, questo è un fatto certificato dai giubilanti osanna di pubblico e addetti ai lavori di fronte alla crescita esponenziale della rispettiva curva di engagement. Riavvolgendo, Gaetano Pesce, fine scultore applicato al disegno industriale, lascia a Napoli, pochi mesi prima di morire, il progetto dell’imponente installazione priapica che vediamo in questi giorni turgidamente innalzarsi alle spalle del Maschio Angioino. Nell’intenzioni di Pesce, l’opera rappresenta per vie concettuali l’abito di Pulcinella, sotto un titolo che cita il Modugno di «Tu si ‘na cosa grande», in un chiaro omaggio scappellato a una napoletanizzazione senile della lirica erotica.

Quando si chiama «costume di Pulcinella» un affare a tubo dodici metri d’altezza e tre di diametro, rosa carne a venature azzurrine, sormontato in cima da un glande bianco a colletto, è evidente che il problema resta semantico, e la semantica ha un peso enorme nelle cose. Ecco perché nell’anatomia dei bisogni sessuali, e dei bisogni e basta, si preferisce utilizzare la lingua morta della medicina. Non dovrebbero rimanere equivoci, con una lingua morta, anche se l’ingombro dell’equivoco si presenta importante.

Bisogna fare chiarezza.

Il costume di Pulcinella di piazza Municipio non è un pene in senso letterale. Lo si chiama solo per convenzione «fallo di Pesce», o al massimo «pene di Pesce», rinunciando dolorosamente alla meravigliosa allitterazione «pesce di Pesce» – l’organo maschile in dialetto napoletano è appunto «’o pesce» – per una questione di filologia più che di decoro. «’O pesce», a Napoli, deve necessariamente effondere la sua intima fragranza, dove qui siamo invece davanti a un intangibile oggetto del tutto inodore, come un preparato di animale appena uscito dal laboratorio del tassidermista.

Il fallo di Pesce va riconosciuto nella sua speculare ambivalenza di falloide incompiuto. Tutto dipende dalla “percezione”, perché la percezione è il vero totem della nostra disperata umanità. Non è importante il fallo che vedi fuori, ma quello che ti ritrovi dentro. Non capiamo, anzi ci ostiniamo a fingere di non capire, che la nostra fumettistica storia d’amore con la percezione – la seduzione della percezione – è il linguaggio della pubblicità. Quello che non può essere letteratura, dunque sapere narrativo, dunque l’unica forma di conoscenza ammessa dalla condizione postmoderna, il sistema politico culturale del potere lo trasforma in comunicazione merceologica.

Il fallo eretto di Pesce è una grande opera “d’arte” perché il sistema che lo esprime concede all’arte al massimo di essere una pubblicità; almeno fino a quando qualcuno non riuscirà a infilare i feticci di Warhol e Duchamp in un sacchetto di plastica ben sigillato. Il fallo di Pesce funziona da enorme attrattore a cominciare dalla disumana inadeguatezza delle sue dimensioni, fresco rinvigorirsi del mito machista che vende il sol dell’avvenire al pallido turista del Nord, dove la misura di una pornografia da gigante evoca sollazzi fatti a proporzione.

Le femministe preoccupate sono in dovere di apporre ai piedi del grande fallo un contraccettivo altrettanto grande – telone di plastica trasparente fissato all’anello di un hula-hoop – come una corona di fiori sulla tomba di un eroe caduto. Non si accorgono, le femministe, che il fallo di Pesce, sprovvisto di sacca scrotale, è in potenza sterile. Ammesso che possa per magia eiaculare, si tratterà pur sempre di un’eiaculazione sintetica, innocua per gli strateghi della nuova ecologia malthusiana: nessuna simbologia arcaica, solo un oggetto di mercato organicamente concepito e prodotto, ciclopico dildo venduto ai bisogni politutto del poliamore da asporto. Nei bassi di San Gregorio Armeno gli scalpellini pakistani e cingalesi stanno già lavorando a una riproduzione in scala modello souvenir di Natale.

Come tutti i raggiri ben congegnati, dunque come ogni buona pubblicità, il fallo di Pesce deve essere un’infallibile calamita non solo per i turisti, ma soprattutto per gli imbecilli. La pubblicità ha una sfacciata predilezione per i cretini. A volte se lo dice anche da sola. Dove qualche centinaio di esseri umani di genio se la vede con milioni di imbecilli, un’economia di scala sceglie sempre di stare dalla parte della maggioranza. E di maggioranza, intorno al pene di Pesce, ne germoglia parecchia, dalle alte sfere di generali e colonnelli alle brigate di beghine con la missione di arrossire davanti a questa volgarità “gratuita”.

Innanzi alla massa stupefatta dall’estasi della falloforia, si palesa a riscuotere il prezzo del biglietto il vero creatore dell’opera, che non è più l’artista, ma il complesso curatore-critico. Il curatore-critico decifra l’arcano. Reo confesso itinerante, rivela il segreto del chiasmo “Pulcinella di Pesce” contro “pesce di Pulcinella”, per cui si è tanto sbattuto e sdilinquito, sciogliendo il pubblico dall’imbarazzo del suo basso istinto.

Il curatore-critico concede potestà di credere, professando una sola religione: quella della serietà. Il suo interesse è legittimare se stesso, in un solenne esser serio che copre di vergogna chiunque si azzardi a fidarsi del proprio criterio di giudizio. Lo spettatore sano ha il dovere del consenso ai competenti, perché è ingannato o potrebbe ingannarsi, senza sapere che sono appunto i competenti ad aver predisposto il tranello in cui sente di esser caduto. Solo attraverso la mediazione del curatore-critico l’arte può dispiegare la sua funzione di utilità.

Essere utili vuol dire corrispondere a uno scopo che sia ben visto da molti – per esempio mandare in fregola il prossimo – riattaccandosi possibilmente a tutta la serie ormai celebre delle solite fregnacce: bene pubblico, progresso, emancipazione, uguaglianza, eccetera. Un serio utilitarismo implica il votarsi a qualcosa, o a qualcuno; servire una ricompensa, a patto di saper dire con esattezza a quale dio vada il frutto della propria fatica alla fine della settimana. Così il curatore-critico si consegna alla sola divinità che gli si para davanti, il suo ego sublimato in un colossale pene pubblico dodici per tre, eretto innanzi al palazzo del Municipio di Napoli. Per toglierselo di torno, non resta che l’acclamazione a sindaco, o l’accompagnamento all’esilio.