Il piano di colonizzazione israeliana della Valle del Giordano e la storia di resistenza di una famiglia di pastori, circondata da Israele.

Il 5% della Valle del Giordano è ancora Palestina. Per il restante 95% parlare di Palestina è più un vezzo politico. La colonizzazione della VdG, ormai quasi completata, rientra in un piano militare preciso e rivendicato esplicitamente da Israele. Gli israeliani lamentano infatti di non avere un confine naturale che li separi dai loro vicini a est, gli “arabi jihadisti”. Abba Eban, ex ambasciatore di Israele presso gli USA, dichiarava che Israele senza la Valle del Giordano fosse come un campo di concentramento lungo e stretto, un carcere nel quale gli ebrei attendono con rassegnazione una morte inevitabile e violenta. Il confine che rivendicano è il fiume Giordano, un rivolo di acqua battesimale – attraversabile a piedi, o alla peggio asfaltabile in mezza giornata per il passaggio dei cingolati – che offre una protezione di gran lunga inferiore rispetto alle tre mandate di recinsione elettrizzata e filo spinato che ad oggi già separano la Palestina controllata da Israele e la Giordania.   

Shottino ogni volta che il vecionostro influencer dell’IOF dice Jordan Valley. Curioso come la zona abitata da più tempo nella storia del mondo venga presentata come vuota e a disposizione.

  

La conquista di questo confine naturale è servita fin da subito come pretesto per la strategia di colonizzazione israeliana, che si fonda sull’abuso di una clausola degli accordi di Oslo, ovvero che Israele, in casi di estrema necessità e pericolo, può fondare accampamenti militari temporanei nell’area C della Cisgiordania (quella sotto il controllo diretto militare e civile di Israele), della durata di massimo 5 anni. Ovviamente la quasi totalità dell’area C nella Valle del Giordano ospita accampamenti militari permanenti, immersi in vastissime zone militari ad accesso vietato, interrotti solo da colonie o avamposti illegali di israeliani.

         
Diverso è il discorso per l’area A, il territorio autonomo in mano all’Autorità Palestinese. Israele non può, in teoria, intervenire direttamente in quest’area, ma produce pretesti per farlo comunque. Come quelli prodotti per le frequenti incursioni e demolizioni nei campi profughi, come quello di Jenin recentemente sgomberato e distrutto – la situazione a Jenin è drammatica: al cimitero, come ci raccontano, hanno imparato a lavorare d’anticipo dopo il massacro del 2002: scavano fosse preventive per le vittime della caccia al “terrorismo”, per non essere impreparati. In tutta la Cisgiordania l’area A, infatti, si concentra intorno alle grandi città, verso le quali Israele sta provando a spingere i palestinesi sparsi sul territorio. Qualche piccola macchia d’autonomia, più o meno grande, la si trova anche qua e là, scollegata rispetto ai centri urbani. Il giornalista palestinese con il quale entriamo in contatto a Gerusalemme Est decide di portarci a visitare uno di questi piccoli territori. Si trova nella VdG, per l’appunto, ed è proprietà di un suo amico, un pastore che, per sua fortuna o sfortuna, ci abita insieme alla moglie e i nove figli.   

   
Percorriamo in macchina la strada che parte dalla palestinese Gericho – la città abitata da più tempo al mondo – e costeggia parallela il fiume Giordano. Si vedono sulla destra le montagne della Giordania, abitate a chiazze, sviluppate e urbanizzate. Danno l’aria di essere un posto come tanti altri nel Medio Oriente, come avrebbe potuto essere la Palestina. Intorno a noi il panorama è ben più inquietante. Ogni 100 metri, ai bordi della carreggiata, a destra e a sinistra sventolano parallele due grandi bandiere israeliane; ogni vallata che incrociamo ha al centro una bandiera israeliana, ogni collina l’ha in cima, se al suo posto non c’è invece direttamente una colonia illegale. A immense distese verdi di palme da datteri, recintate e avvolte nel filo spinato – coltivate da israeliani perciò -, si alterna qualche campo palestinese, sempre aperto, perlopiù di grano, sedani, zucchine. Per il resto deserto e strada. Per la strada – Route 90 si chiama – le targhe sono sia gialle che verdi, sia di palestinesi che di israeliani perciò, questi ultimi o coloni o turisti qualsiasi, in quella che considerano la regione israeliana della West Bank. Ogni tanto ci si ferma a un checkpoint militare, alle intersezioni più grandi; le macchine si arrestano, i bambini con le kippah nei sedili posteriori salutano i militari, su incitazione dei padri alla guida, i militari ricambiano sorridenti.   

Arriviamo a destinazione, una piccola fattoria di un centinaio di pecore, qualche tenda da beduino, tre grosse cisterne per l’acqua. C’è un trattore, ma non c’è nessuna macchina parcheggiata. Una ne avevano e gli è stata rubata di notte, qualche settimana prima. Gli ovili sono un po’ fatiscenti, le pecore riescono a uscire e andare dove vogliono, scorrazzano come i cani-pastore della famiglia, ma per istinto di gregge stanno perlopiù vicine. Non si arrischiano mai ad andare nella grande strada asfaltata che costeggia la fattoria e che unisce due enormi accampamenti militari, a destra e a sinistra della casa. Saranno a 1km di distanza l’uno dall’altro, entrambi visibili dalla casa, che si trova perfettamente al centro. A qualsiasi ora del giorno e della notte, per questo, la strada è attraversata da veicoli militari, spesso vuoti, e da gruppi di giovani soldati che fanno jogging, con le casse sparate. Sulla collina che sovrasta l’accampamento di sinistra c’è una colonia. Dietro la casa palestinese, a 300 metri circa, c’è un enorme impianto elettrico, in cima a un’altra collina. Alimenta tutti gli edifici militari e civili israeliani nei dintorni, tranne la fattoria, che tira avanti invece con pannelli solari e batterie. L’impianto elettrico serve anche per illuminare a giorno la grande strada di fronte alla casa, con un numero quasi ironico di lampioni uno a fianco all’altro. Non c’è nessun motivo per cui questi lampioni debbano puntare verso un lato o l’altro della strada, verso la casa o verso la terra deserta all’altro lato della strada. Ovviamente puntano verso la casa, inondandola di luce durante la notte.      

Nella fattoria abita la famiglia di cui sopra, circondata da Israele. Come per tutte le case palestinesi, le cisterne d’acqua sono una necessità. La fattoria aveva le proprie condutture, connesse a una sorgente vicina. Sono state staccate dall’esercito, ed è stato intimato alla famiglia di non ricollegarle e di non scavare pozzi, pena lo sgombero. Quello dell’acqua è lo strumento più efficace nelle mani di Israele per rendere la vita impossibile ai palestinesi, in particolare quelli che non può cacciare con la forza. Perché questa fattoria non può essere ufficialmente toccata, i militari non possono raderla al suolo, sgomberarla. È un piccolo lembo di zona A, sotto il controllo civile e militare, perciò, dell’Autorità Palestinese. Tutto quello che possono fare, e fanno, è circondare, vessare e intimidire costantemente chi ci abita; o direttamente tramite la costruzione di queste infrastrutture militari, oppure finanziando e supportando i coloni più radicali che abitano nei paraggi, guidati dallo scopo messianico di liberare quella terra, e che fanno tutto ciò che Israele non potrebbe mai fare apertamente.

         
Ai palestinesi non rimangono tante alternative, se non resistere e sopportare, quanto più a lungo possibile. Existence is resistance. Non hanno alternative legali. Possono sì appellarsi a una manciata di diritti, ma di circostanza, e spesso senza alcun risultato, come lamentarsi della distruzione dei pannelli solari quando l’ordine di demolizione impugnato dall’esercito prevedeva di radere al suolo soltanto la casa o la fattoria. In Palestina, come ripetono spesso i palestinesi, la legge è come se non esistesse, o meglio esiste e funziona benissimo, ma solo se sei israeliano.   

Il giornalista di Gerusalemme Est e il pastore si conoscono molto bene. Sono amici di lunga data. A dire il vero in molti conoscono il pastore, è una figura ben nota nella VdG. Circola un video di lui che scaccia da casa propria, disarmato, dei coloni armati, venuti a intimidirlo. Il giornalista ci spiega che è un uomo ben posizionato e rispettato all’interno della comunità, probabilmente avrebbe una vita più semplice se decidesse di andarsene, di spostarsi da qualche cugino, o in qualche grande città. Avrebbe appoggi e assistenza assicurata. Non ha alcuna intenzione di farlo però. La sua resistenza non si basa su altro che continuare ad esistere, non muoversi, provare a fare la stessa vita di sempre, mentre l’esercito più potente del mondo prova in tutti i modi a farlo crollare, a rendergli la vita impossibile, a terrorizzarlo; mentre ogni giorno gli sfilano davanti le macchine da guerra degli invasori della sua terra, seguiti dai giovani soldati che si addestrano per andare in guerra contro la sua gente, mentre ogni mattina porta a spasso le pecore sul lembo di terra che ancora gli è concesso di pascolare – ogni anno più piccolo – e dove un tempo abitavano le 14 famiglie dei suoi fratelli e vicini di casa, sgomberati per fare spazio a qualche collina artificiale ricoperta di bossoli e granate esauste – campi d’addestramento per l’esercito di occupazione.

Lo accompagniamo al pascolo. Insieme a noi qualche attivista internazionale non-violento, che spesso accompagna il pastore e lo aiuta a sorvegliare la casa di notte. Ci raccontano un po’ di quello che sta succedendo nella VdG e del loro lavoro. Saliamo sulla montagna più alta. Ogni costruzione in mezzo al deserto che vediamo intorno a noi è Israele: distese di pannelli solari, accampamenti militari, colonie, impianti elettrici. Un deserto militarizzato e hi-tech. Sulla collina opposta vediamo un pastore colono con le pecore, ci dicono che quando capita di incrociarlo da vicino non finisce mai bene. Sulla collina opposta c’è una grande stella di David in ferro battuto, segnala una postazione di cecchini, all’ingresso di una colonia illegale. Vediamo qualche quad di coloni che ne esce, ci allarmiamo, ma siamo gli unici del gruppo, nessun altro se ne cura più di tanto. Hanno riconosciuto subito i loro abiti da turisti, vanno solo a farsi qualche salto sulle dune piene di bossoli dove un tempo abitavano le 14 famiglie.

Le dune, saranno 20mq. La loro costruzione ha richiesto lo sgombero forzato di 14 famiglie.

Scendendo il pastore ci chiede esplicitamente aiuto, vuole che l’Italia lo aiuti, dice che ha piovuto poco quest’anno e hanno poco terreno da pascolare, la maggior parte della terra intorno è militarizzata e inaccessibile. Molte pecore moriranno di fame quest’estate, e la sua famiglia campa solo di pecore e formaggio. Sono così preziose ormai che non le mangiano neanche più. Dice che senza aiuto potrà durare al massimo 1 anno o 2. Poi anche lui se ne dovrà andare. Non sappiamo bene cosa rispondergli.

Di nuovo giù a casa ci chiede un aiuto per scavare una buca per il cesso chimico, a noi e agli attivsti. Non ne avrebbe il diritto, dovrebbe chiedere un permesso che non gli concederebbero. Neanche per la merda. È un bel momento, forse tra i più belli di tutto il nostro soggiorno in Palestina. Il sole sta calando, ad aiutarci ci sono anche i suoi figli e le sue figlie, già autonomi e indipendenti alle loro varie età, alcune anche tenere. Ogni tanto si sente il suono di un veicolo che si avvicina e lo sguardo del padre si incupisce, ci fa sedere tutti per terra, restiamo in silenzio finché il rumore non si allontana. Poi di nuovo in piedi a scavare e scherzare senza una lingua comune.
 
Riaccompagniamo al crepuscolo gli attivisti internazionali verso la loro sede. In macchina il giornalista ci racconta dei piani di Israele. Ci dice che vogliono unire le varie colonie illegali fuori Gerusalemme l’una all’altra, fino al Mar Morto, per dividere la Cisgiordania in due, nord e sud. I Palestinesi potranno passare solo attraverso un tunnel sotterraneo. Gerusalemme sarà a 30 minuti di macchina dal Mar Morto invece. La strada che stiamo percorrendo invece, la 90, quella piena di bandiere israeliane – una delle ultime accessibili sia a palestinesi che israeliani – diventerà un’autostrada, accesso solo per le targhe gialle. Da essa si staccheranno varie strade come rami, a separare le comunità palestinesi tra di loro, e unire invece le colonie all’autostrada, a Gerusalemme, al resto di Israele.

Questa era la situazione, già disastrosa, nel 2020. E’ difficile trovare mappe aggiornate fatte bene. La velocità della colonizzazione è aumentata sensibilmente già all’indomani del 7/10, per via dell’eccezionale distrazione dell’attenzione internazionale.

Vediamo adesso il vero colore di quelle vallate, le chiazze di terra nera che vedevamo ai bordi delle strade sotto le bandiere. Sono le vecchie comunità palestinesi, i vecchi accampamenti di quelli che non ce l’hanno fatta, che a un certo punto se ne sono andati, lasciandosi tutto alle spalle. A destra e a sinistra, sono molte. Il colore della terra sotto le bandiere è nero di fuliggine, è l’ultima testimonianza delle famiglie ormai disperse. Su tutte sventolano, a conquista, le stelle di David bianche e blu. Il giornalista ci parla di ognuna di esse, dice quanti animali avevano, quante persone ci abitavano; dice poi: “now they are theirs” (adesso appartengono a loro).

Per strada spuntano anche le colonie, rigogliose, protette da alti fili spinati, coperte da pannelli solari, chiazzate di prati verdi. Vita tranquilla e spensierata di periferia, si sente l’acqua che scorre nel deserto, non ci sono cisterne. Ogni tanto un checkpoint. Come prima le macchine si fermano, i bambini israeliani salutano, i militari sorridono.