Distribuisco sessanta chili su 181 centimetri, eppure ci sono cose che mi fanno tanta paura. Il botulino (batterico e cosmetico), il film L’uomo senza ombra, Marilyn Manson, quelli che un tempo abbracciavano le casse del Jaiss e oggi gridano “fare un figno mi ha cambiato la vita”, i vulcani, Dodò dell’Albero Azzurro[1]. Soprattutto Dodò dell’Albero Azzurro, direi, considerato che non ho neppure il coraggio di cercarlo su Google per verificare se si scriva con l’accento o meno. E siccome al Salone del Libro di Torino, nella hall, hanno piazzato una riproduzione in scala 1:1 di Dodò e dell’Albero Azzurro (per i più piccini, drappelli di Zeni e Tancredi contentissimi, m’immagino, di tirare un’occhiata veloce a un pupazzo loffio e poi passare una giornata a frustrarsi in mezzo a oggetti cognitivamente inaccessibili), col mio attuale psicoterapeuta convenivamo che fosse questo il motivo della mia reticenza a visitarlo, nonostante il grande desiderio di andarci perché i libri mi piacciono molto, anche crudi.
Un giorno però il dottore, che è uno sveglio, al punto che sul telefono l’ho salvato “coach” perché lo idealizzo come un misto tra Coach Carter e Coach Gordon Bombay, si è connesso a internet e ha visto che oltre a quella di Torino esistono altre fiere del libro. Così durante la nostra seduta settimanale all’improvviso mi propone: “Perché non provi ad andare a Più libri più liberi, a Roma?”. Salto giù dall’altalena e prendo tempo, facendo finta di non sapere di cosa si parli. “La fiera dell’editoria di Roma”, ha continuato: “secondo me ti piacerebbe, e Dodò non c’è”. Pensa di avere trovato la soluzione, incrocia le braccia e mi guarda soddisfatto. Io invece scoloro e mi irrigidisco, resto zitto. Mi sa che non è Dodò, almeno non soltanto. E il coach, che appunto è vispo, dopo un quarto d’ora di silenzio se ne accorge e dice “dev’esserci altro, oltre a Dodò”.
Mi fa sedere e iniziamo a parlarne. All’inizio non sono molto loquace e scanso le sue incursioni psico-dinamiche – mica ovvietà alla Matte Blanco tipo “Pensi c’entri il fatto che assistendo da remoto alla cattura di Bin Laden hai provato un senso di partecipazione che non sei sicuro fosse filo-americano e da allora non accendi più i fornelli?”, è più sofisticato il coach –, ma poi piano piano riesce a scalfirmi, e alla fine, lappando lo Stecco Ducale che mi ha offerto e tirando su col naso, confesso. “Penso”, gli dico, “penso c’entri mia madre, dottore“.
“Perché tua madre?“, mi chiede preoccupato togliendosi i Ray-Ban.
Lo guardo.
“Le ha presente, dottore, quelle donne in bilico sui 60, che non ridono mai, timide per posa, anaffettive e spietate coi figli che hanno ingannato con una finta auto-ironia illudendoli che condividere i loro tweet ‘madonna mia madre che prescia’ li smarcasse dal rigido programma ideato per levarseli di torno più presto possibile e non cacciare un euro – scuola bilingue>calcio roba da rozzi vai a perdere un occhio sul campo da rugby>liceo classico la cultura ah non mi chiedere aiuto a tradurre però io ho fatto l’I.T.I.>l’università prima di tutto>l’Erasmus le lingue cosa fai senza>sì, mio figlio il sabato fa l’aiuto-gommista, so che potrei dargli qualunque cosa ma finirei per deresponsabilizzarlo e indebolirlo ed è un caso giuro un caso che stia cambiando le gomme da neve alla mia Range Rover>un posto da stagista a Betlemme? Me l’avessero offerto a me da giovane, ci sarei andata di corsa, come dici hai quarant’anni? Eeeeh –, donne che prima o poi incappano non finendolo in un corso di ceramica/tango/fotografia al collodio/ceste di vimini/legatoria – intercambiabili ma tutti con la prerogativa che si lavori scalzi ‘per il contatto con la terra’, sul parquet –, donne che a cinquant’anni si iscrivono alla stessa università della figlia ‘perché mi annoio’, donne che ad allucinarne il comodino si vedrebbero, nell’ordine, fiori di Bach, Valeriana, un blister di melatonina da inaugurare, due flaconcini di Xanax auto-prescritti e mezzi aperti con cristalli di medicinale sui bordi, vaschetta con anelli massicci, occhiali da lettura con led incorporato, autoscatto con amiche buffo (che ridere), Crepet 1 (segnalibro a p. 12, biglietto Fiera dell’Artigianato), Concita 1 (segnalibro a p. 18, scontrino Fierucola equo-solidale), Lonely Planet Giappone 1, custodia CD di Amy Winehouse (il jazzzzz), Crepet 2 (segnalibro a p. 22, ticket metrò di Parigi), Galimberti 1 (intonso), foto di gita in barca a vela, ultima uscita della Lettura con appuntato numero di omeopata clamoroso, donne – è ovvio – di sinistra, un tempo magari ardita, ma oggi blanda e stanchissima, donne che a un tratto si presentano alle amiche coi capelli a spazzola e senza più tinta né deodorante perché il maestro di pilates ha detto ‘basta bugie’, donne che, per descriverle al negativo, trovano complementarietà esatta in professionisti avvilitissimi con abbonamento a Limes, riporto e forfora romboidale, donne che ‘è giunto il momento di pensare a me stessa, basta vivere nel passato’, ‘ma è la Volvo del tuo ex marito quella a cui hai attaccato un rilevatore GPS?’, ‘nono’, donne che urlano ‘attento ai parabeni l’ho sentito su Radio 3’ e infatti si lavano i capelli con quegli shampi che non fanno schiuma neanche a montarli a neve con la frusta, tanto che in sostanza si potrebbe dire donne che i capelli non se li lavano, ma soprattutto, coach, donne per cui le fiere del libro sono come un terrario termo-isolato per un ramarro, butta un depliant con un libro che diventa farfalla in un forno per le pizze acceso e stai tranquillo che loro ci si tirano dietro”.
Mi accascio, sfinito. Il dottore mi si avvicina e mi fa una carezza in testa. Ha le mani piene di crema dopo-sole, mi cambia la direzione della divisa. Forse per sempre.
“Ma cosa c’entra tua madre?”, chiede sottovoce.
Piango.
“C’entra, perché mia madre ha sempre voluto che diventassi una donna del genere, coach, una principessa democratica, e invece mi guardi, ciuffo sugli occhi e Fred Perry col colletto alzato, l’ho delusa, coach, come faccio ad andare alle fiere dell’editoria, COME FACCIO?”.
[1] Storiaccia di incubi. In sintesi, all’epoca dell’asilo ho cominciato a sognare una versione antropomorfa di Dodò, una specie di pupazzone senziente con braccia e gambe, alto uno e novanta. I sogni, ripetitivi per prassi, avevano sempre lo stesso canovaccio: il mostro s’insinuava in casa mia, diceva di essermi amico e io, grandissimo boccalone, gli credevo sempre. Entrati in confidenza, finiva per rapirmi, portandomi via su una barella di quelle con le ruote, e una volta anche con un toboga da neve (ero in settimana bianca). Il tutto, in genere, di fronte al padre di un mio compagno di classe, insigne epatologo, che assisteva impassibile restando sul divano a guardare il Maurizio Costanzo Show. Mi svegliavo terrorizzato, urlando – ingenuo – di aver sognato “l’uccellone”. Che fossi ingenuo l’ho capito menzionandolo al mio primo psicanalista. Un rogersiano, menomale, che si limitò a ridere. Peggio andò col secondo, freudiano ortodosso, che rispose al mio racconto portandosi la mano alla patta dei Richmond. Il terzo, sulla questione, ha scritto un paper a mia insaputa (Recalcati 2005). Le suore, invece, dicevano che l’Uccellone era Gesù.