La visione idealizzata e semplificata della maternità ne ignora la complessità e le difficoltà reali, ne ignora l'ombra.

Esiste una branca del femminismo che si occupa in maniera specifica della differenza. Questo significa che se il femminismo adesso molto popolare – quello più accessibile a cui tutti siamo educati a prestare attenzione – si concentra soprattutto sulla parità e sull’appiattimento delle esistenti diversità sessuali, il femminismo della differenza si propone di evidenziarle ulteriormente per favorire un ambiente in cui le cose non devono essere necessariamente uguali, e dunque in un modo o nell’altro adeguarsi a criteri altri, per meritare di esistere serenamente.

Nel pensiero della differenza sessuale, tra le tante cose, si presta particolare attenzione alla figura materna, identificata non solo come colei che dona la vita alla propria creatura, ma anche come punto d’inizio di un ordine simbolico molto più ampio, fondato sulla discendenza e sull’eredità della madre. In Le parole per scriverlo (Mimesis, 2020), la storica della filosofia Wanda Tommasi spiega che l’ordine simbolico della madre si oppone, per forza di cose, a quello patriarcale: in questo senso, la madre viene individuata come prima figura di autorità, dando modo al femminile di circolare più liberamente e ponendo fine alla svalutazione della donna e alla sua ”deportazione” in un ordine simbolico tutto maschile, in cui l’idealizzazione della figura materna la erge a icona immacolata monumentale.

A favore dello smantellamento di questo stereotipo c’è il testo della professoressa britannica Jacqueline Rose intitolato Mothers: An Essay on Love and Cruelty (Faber&Faber, 2018), che mette in discussione l’identificazione della figura materna nel capro espiatorio della società occidentale. Secondo Rose infatti la maternità è il posto in cui tendiamo a riporre e seppellire i nostri conflitti interiori e ciò che realmente significa essere umani. L’atteggiamento che assumiamo nei confronti delle madri è tanto nocivo quanto ingiusto: a loro si attribuisce un potere importante, troppo grande, da cui dipende la responsabilità di preservare l’innocenza, la positività e la percezione di sicurezza delle cose del mondo. Ma perché questo compito dovrebbe spettare proprio a loro? Quando la realtà delude le nostre aspettative – perché davanti a madri, che sono poi donne, nonché esseri umani fallibili come tutti gli altri non può accadere diversamente – rimaniamo di stucco, amareggiati e disgustati, in caduta libera dai castelli in aria di un falso senso di rassicurazione che può trasmettere solo una figura costruita.

Jacqueline Rose è stoica e realistica nell’affermare che, se riuscissimo a renderci conto di cosa concretamente facciamo quando ci aspettiamo che siano le madri a sostenere il peso di ogni cosa, potremmo ricalibrare la mole sproporzionata di responsabilità che viene loro attribuita, curando e conseguentemente prevenendo la loro lacerazione, e soprattutto quella del mondo. Anche Diana Sartori in La magica forza del negativo (Liguori, 2005), si esprime a riguardo, denunciando la responsabilità ”salvifica” attribuita alla politica delle donne, dunque la perpetrazione di una ”liturgia materna” che dovrebbe temperare e addolcire il mondo e le relazioni, cancellando così il negativo, i desideri, le passioni, le miserie, i fallimenti e tutto ciò che è lontano dalla maternità come simbolo, cioè una gioia infantile, tutta pura e innocente.

Se da una parte, in quello che lo psicanalista Massimo Recalcati definisce il tempo dell’evaporizzazione del padre e dello smembramento della famiglia tradizionale, l’evoluzione della figura paterna e la conseguente progressiva scomparsa del padre-padrone hanno creato per il padre un ambiente favorevole al suo mutamento, per la madre non è stato proprio così, almeno in termini di percezione collettiva. L’ideologia patriarcale – forse al tramonto – ha provato a ridurre l’essere donna all’essere madre. In questo senso, solo la donna che diventava madre poteva garantire una femminilità benefica, positiva e innocente.

Al contrario, una donna non madre incarnava tutti gli aspetti presumibilmente maligni della femminilità, quali cattiveria, lussuria e peccaminosità, portando con sé lo ”stigma di un’anarchia pericolosa e antisociale”. Nonostante gli sviluppi dei tempi ipermoderni, in cui la donna che decide di avere figli non è più relegata allo status del ruolo materno tradizionale, addosso alla donna sono rimasti i fantasmi delle aspettative di un passato limitante, che la vorrebbero libera ma comunque condizionata nel ruolo assolutamente salvifico e benefico della maternità.

Sartori sostiene che la madre vada ”esorcizzata” dal bene, e che ”la bontà del riferimento alla madre non dipende per l’essenziale dalla bontà materna”. Questo significa che anche se il riferimento alla madre è fonte di positività, aspettarsi che dalla maternità possa venir fuori solo luce non è realistico, è anzi crudele nei confronti della donna che assume il ruolo. Così va messo in atto uno sradicamento, che separa il riferimento alla madre dalla bontà materna data per scontata, e che consente di tenere in considerazione – senza giudizi – anche il negativo che pullula in quel mezzo, e ciò che di una madre si tende ad ignorare o disprezzare, nonché la sua ombra.

Il tema dell’ombra materna è molto ricorrente. Recalcati in Le mani della madre (Feltrinelli, 2015) ricorda l’episodio biblico di Salomone. Egli fu chiamato in causa perché due donne avevano partorito nello stesso frangente di tempo, e uno dei due neonati era morto soffocato durante la notte. Così, entrambe accecate da questa terribile tragedia, dichiaravano che il figlio ancora in vita fosse il ”proprio”. Nell’episodio emergono luce e ombra materna: da una parte la madre ossessionata dal proprio figlio come oggetto di proprietà, incapace di cedere nulla, e dall’altra la ”madre del dono”, quella che comprende l’importanza della propria assenza ed è disposta a creare distanza tra sé e la propria creatura per il suo bene. Per stabilire l’identità della vera madre, Salomone propone di dividere in due con una spada il figlio ancora in vita, così da stabilire una sentenza equa per entrambe. Di fronte alla possibilità di morte del neonato vivo, la madre reale, la portatrice di luce, si dimostra disposta a rinunciare al figlio pur di salvare la sua vita. Al contrario, la seconda donna, colei che rappresenta l’ombra della madre, rimane ferma sul suo punto, condizionata dal suo bisogno di possedere, e sarebbe disposta a sacrificare la vita del neonato pur di averne tra le mani anche solo una parte. Secondo Recalcati, ogni donna può spostarsi sullo spettro della maternità e raggiungere un picco di luce e un picco di ombra, come nel caso della storia delle madri e di Salomone.

Un altro esempio di oscuro materno ”inassimilabile e intrattabile”, anche se in maniera abbastanza imparziale, lo si trova nella scrittura di Irène Némirovsky, ripresa e analizzata da Wanda Tommasi. La madre di Irène, con cui l’autrice aveva un rapporto più che conflittuale, è rappresentata dalla figlia in chiave negativa: arida d’affetto, ossessionata dal denaro e dagli amanti, preoccupata solo del proprio aspetto, una vera madre mostruosa. Quando scrive Il ballo (Adelphi, 2005), con uno stile sempre virile e pungente, Némirovsky mette in scena il corpo a corpo tormentato tra lei e l’oscuro materno: Rosine Kampf, madre di una famiglia ebrea che mira a farsi accettare dalla società parigina, decide di dare un ballo a cui invita tutte le conoscenze più note della città. La figlia quattordicenne, Antoinette, vorrebbe partecipare ma non le è concesso perché troppo piccola. A lei, accecata da un odio viscerale per la madre, viene affidato il compito di spedire gli inviti, cosa che non farà, distruggendoli. Così nessuno arriva, e la figlia gode per aver messo in atto la vendetta nei confronti della madre. Se da una parte la madre ha ”voglia di vivere, di esibire la sua bellezza, di entrare nella buona società” e non ha intenzione di ”avere tra i piedi una figlia da marito”, dall’altra la figlia si lascia consumare dall’invidia e dall’odio per la madre, mettendo in atto un siparietto patetico, comprensibile ma non giustificabile, che riflette le cattive abitudini materne.

Quando parliamo di madre mostruosa è impossibile non citare il delirio della Medea di Euripide, di cui sia Recalcati che Rose parlano dettagliatamente. La tragedia narra la vicenda di una donna che non riesce a sopportare il dolore del tradimento del proprio uomo, tanto da decidere di uccidere i figli, la propria discendenza. Il delirio di Medea è scatenato dalla ferita per l’abbandono, e ci ricorda che ”quando [una donna] viene offesa nel suo letto, non c’è altra mente che sia più sanguinaria”. Medea incarna la donna sradicata dalla sua terra, straniera, una ”caratteristica oscura che investe la maternità in quanto tale”, poiché l’atto lucente di dare la vita può digredire nel suo opposto di ombra, quindi nella distruzione e, nei casi più estremi, nell’omicidio. Patologizzare Medea sarebbe semplice, afferma Jacqueline Rose. Tuttavia, secondo la professoressa britannica, la follia della barbara straniera non è che la conseguenza di un modo di pensare perduto nel nostro tempo in cui dalla maternità non ci si aspetta purezza e cecità davanti alla violenza del mondo.

Da ricordare anche gli esempi cinematografici di oscuro materno: The Piano Teacher (2001), Ma mère (2004), Black Swan (2009), Moonlight (2016), Ladybird (2017), Everything Everywhere All at Once (2022), sono solo alcuni dei capolavori che contengono rappresentazioni dell’ombra della madre, di donne complesse e acutamente stratificate, che pur essendo pericolose mine vaganti, restano esseri umani, a volte apparentemente difficili da umanizzare. Ma umanizzare non significa giustificare. E riconoscere l’oscurità dei loro caratteri non significa sempre sentenziare, trovare per loro la condanna più adatta, anzi: il più delle volte decostruire il ruolo materno spiana la strada verso un arco di redenzione che può rivelarsi assolutamente necessario per raggiungere un qualche grado di liberazione anche personale.

Diana Sartori scrisse che inchiodare una madre al suo bene o al suo male è una dannazione. Liberando la madre dalle catene delle aspettative salvifiche del suo ruolo si altera il ritmo e l’autenticità della discendenza. Accogliere questa alterazione significa avere a che fare con il corpo a corpo, con l’eterno tormento dell’ombra materna. Significa riconoscere nella madre lo status di essere umano anziché di icona mariana infallibile. Sulla scia dell’elaborazione di Sartori, è bene chiudere con un interrogativo, al quale la professoressa si risponde riprendendo le parole dello psicanalista Donald Winnicott: ”Ma senza una madre buona non saremmo perduti? Chissà, forse basta una madre solo sufficientemente buona”.