L'arte nelle sue manifestazioni concrete è solo una dichiarazione di pubblico, di quale fetta di mercato desidera abitare o a quale ideologia vuole aderire

Il denaro aveva comprato anche la cortesia, oltre che le cartoline e la piantina? Che cortesia avrebbe mostrato il negoziante se egli fosse entrato come entravano gli anarresiani in un distributorio di merci: per prendere ciò che volevano, fare un cenno del capo al contabile e poi uscire? Inutile, inutile fare questi ragionamenti. Quando sei nel Paese dei Proprietaristi, pensa da proprietarista. Vestiti come lui, mangia come lui, agisci come lui, sii come lui.

Non c’erano parchi nel centro della città di Nio: il terreno era troppo prezioso per sprecarlo in frivolezze. Egli continuò a immergersi sempre più nelle stesse strade larghe e sfavillanti che gli avevano fatto percorrere varie volte. Giunse alla Saemtenevia e la attraversò in fretta, per evitare una ripetizione dell’incubo ad occhi aperti. Giunse così nel distretto commerciale. Banche, uffici, edifici governativi. Era tutta così, Nio Esseia? Grandi scatole lustre di pietra e di vetro, immensi, decorati, enormi pacchetti vuoti, vuoti. Passando davanti a una vetrina con la scritta «Galleria d’Arte», entrò, pensando di poter sfuggire alla claustrofobia morale delle strade e di trovare nuovamente in un museo la bellezza di Urras. Ma tutti i quadri del museo avevano dei cartellini col prezzo incollati alla cornice. Rimase a fissare un nudo dipinto con abilità. Il cartellino diceva 4000 UMI.

– Si tratta di un Fei Feite – disse un uomo scuro, comparso al suo fianco senza fare rumore – la settimana scorsa ne avevamo cinque. La cosa più grossa del mercato artistico, tra poco tempo. Un Feite è un investimento sicuro, signore.

– Quattromila unità è il denaro che occorre per mantenere in vita due famiglie per un anno in questa città – disse Shevek.

L’uomo lo esaminò e disse, strascicando le parole: – Sì, certo, signore, ma quella, lei vede, è un’opera d’arte.

– Arte? Un uomo fa dell’arte perché deve farla. Per quale motivo è stato fatto quel quadro?

– Lei è un artista, vedo – disse l’uomo, ora con evidente insolenza.

– No, sono un uomo che riconosce la merda quando la vede!        

I reietti dell’altro pianeta – Ursula K. Le Guin

         
         
Fino alla prima metà del Novecento l’arte era validata dalla rete che univa artisti, teorici, movimenti, spettatori, commercianti e mercato. Era costituita tanto da ognuna di queste figure, quanto dalla rete che le teneva insieme. Nella seconda metà del Novecento un cambio di paradigma ha redistribuito il potere di quei singoli agenti, dando rilievo quasi esclusivamente al mercato. L’arte è diventata una disciplina validata dal mercato e più nello specifico da un mercato di riferimento parcellizzato. Designata una fetta di pubblico-consumatore ideale, si stabiliscono prezzi conformi al loro potere d’acquisto. Si hanno così sistemi dell’arte tenuti in piedi dalla loro rispettiva porzione di mercato.

In questo modo gli artisti più noti come Damien Hirst, Maurizio Cattelan, Jeff Koons, Ai Wei Wei hanno il loro gruppo di collezionisti ad hoc: acquirenti, consorzi o gruppi di investitori che non hanno remore nel pagare banane o squali svariati milioni di dollari. Il venditore dello squalo (The Physical lmpossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991), era Charles Saatchi, magnate della pubblicità e noto collezionista d’arte, che aveva commissionato l’opera per 50.000 sterline. Il «Sun» aveva titolato così un articolo sull’operazione: “50.000 for Fish without Chips”. Hirst aveva chiesto quella cifra anzitutto per investirla in pubblicità.

Non è importante decretare se queste operazioni siano o non siano arte, e nemmeno insistere sulla presunta immoralità del prezzo sul cartellino dell’opera: occorre semplicemente rilevare che questi artisti sono prima di tutto imprenditori, abili nel generare un cortocircuito. Gli acquirenti delle loro opere sono miliardari, mentre il loro pubblico è la massa. Il connubio tra l’enorme fama (data talvolta dal prezzo stesso di vendita delle opere che genera un’ondata di articoli, pareri e recensioni) e la minuscola percentuale di possibili acquirenti è quel cortocircuito che genera il sistema dell’arte.

Ma il mercato e i suoi agenti sanno che è necessario diversificare, frammentare, suddividere; sanno che tutti devono essere inglobati, ma entro minuscoli spazi; per questo motivo generano altri sistemi dell’arte. Ad esempio quello degli artisti mid-career, formato da un pubblico di addetti ai lavori, studenti delle accademie e collezionisti benestanti. Sono opere che potrebbe acquistare un notaio, un imprenditore o un senior art director. La loro fama, di cui sono consapevoli solo pochi eletti, unita a un prezzo relativamente contenuto, crea perciò un altro sistema dell’arte. Al centro c’è sempre il mercato, una sorta di mecenate contemporaneo che stabilisce le regole, il prezzo e gli operatori. Nessuna rete, nessun movimento artistico coeso; solo nemici, pronti ad accaparrarsi questa o quella fetta di mercato. I galleristi non hanno più nessun ruolo all’interno del processo: si limitano a stabilire quale fetta di mercato occupare: “artisti da museo” o “emergenti”, “provocatori” o “reazionari”, “scultori” o “AI-artist”. Non fa differenza, non c’è nessuna divergenza nelle loro rappresentazioni.

L’arte nelle sue manifestazioni concrete è solo una dichiarazione di pubblico, di quale fetta di mercato desidera abitare o a quale ideologia vuole aderire. Nell’epoca in cui essa è considerata un inutile spreco di tempo e risorse, e nella quale i futuri addetti ai lavori, ovvero gli studenti delle accademie, sono considerati soggetti poco utili per il mercato del lavoro, avviene nel frattempo che alcuni super-ricchi spendano milioni per opere dal dubbio gusto estetico e morale.

Ogni analisi del contemporaneo non può prescindere dall’indagine dei mutamenti dello spazio. Il digitale apre infinite distese di nuovi ambienti e le piattaforme moltiplicano i sistemi e i paradigmi facendo emergere nuove figure. È così che sono nati schiere di critici-influencer e artisti-creator. Individui rigettati da un mercato saturo che pensano di fare carriera per vie traverse, spesso riuscendoci.

Questo non vale solo per l’arte: proliferano i divulgatori delle umane lettere come Edoardo Prati che non parla d’altro che di Dante e Boccaccio. Durante la sua intervista da Cattelan realizza sculture infime, metafora dello smarrimento delle nuove generazioni, sancendo che la società può realizzarsi soltanto attraverso la comunione d’intenti e delle volontà. Per fare ciò scomoda Dante e tutti i santi. I commenti sono entusiasti, tutti innamorati di lui; alcuni vorrebbero che avesse un suo programma di divulgazione, altri si addormentano con la sua voce profonda che bacchetta chiunque non legga Dante due volte al dì. Curate ut valeatis!

Nei social media basta poco: sei seguito sia se bestemmi per quindici secondi ogni giorno vestito da gnomo, sia se racconti Dante per quindici secondi ogni giorno vestito da intellettuale. I Cultus Classicus ne sono un esempio: passano le loro giornate a sciorinare complimenti su tutto ciò che ha più di cinquecento anni, sono critici sull’arte contemporanea, ma non la comprendono e forse ancor peggio non la conoscono. Il loro ultimo format è una sorta di Spotify Wrapped. Il risultato dei loro cinque artisti più ascoltati durante l’anno è formato da Puccini, Verdi e Donizetti. Ricorda quella massima di Woody Allen: “gli intellettuali sono la prova che puoi essere coltissimo e non afferrare la realtà oggettiva”.

Come fanno, difatti, tutti questi individui a comprendere il contemporaneo se non lo riescono a carpire e nemmeno ad apprezzare. Roland Barthes sosteneva che “Il contemporaneo è l’intempestivo” e Nietzsche, un giovane filologo che aveva lavorato fin allora su testi greci e aveva due anni prima raggiunto un’improvvisa celebrità con La nascita della tragedia, pubblica le Unzeitgemasse Betrachtungen, le “Considerazioni intempestive”, con le quali vuole fare i conti col suo tempo, prendere posizione rispetto al presente. Si rende conto che per quanto i classici hanno sempre qualcosa da dire sul presente, non sono sufficienti.

Anche Giorgio Agamben spiega lucidamente cos’è il contemporaneo: la contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura. “Un buon esempio di questa speciale esperienza del tempo che chiamiamo la contemporaneità è la moda. Ciò che definisce la moda è che essa introduce nel tempo una peculiare discontinuità, che lo divide secondo la sua attualità o inattualità, il suo essere o il suo non-esser-più-alla-moda (alla moda e non semplicemente di moda, che si riferisce solo alle cose)”.

Questa cesura, per quanto sottile, è perspicua, nel senso che coloro che debbono percepirla la percepiscono immancabilmente e proprio in questo modo attestano il loro essere alla moda; ma se cerchiamo di oggettivarla e di fissarla nel tempo cronologico, essa si rivela inafferrabile. È contemporaneo chi è futuro nel presente, non chi si rifugia nel passato timoroso di un presente che non capisce.

Ritorniamo all’arte che, oggi, ha meccanismi simili alla moda. Le piattaforme formano artisti che realizzano opere mediocri ma sono osannate dai loro follower: pittori che fanno schizzare colore sulla tela da un’altalena; cover artist dei vedutisti settecenteschi che mandano il pubblico in brodo di giuggiole sprigionando commenti quali: “questa è arte, non quelle pagliacciate da museo contemporaneo”; fotoreporter di guerra che estetizzano la violenza e il male senza porsi nessuna domanda su cosa succede quando siamo davanti al dolore degli altri; su quali siano i limiti dell’immagine: sanguisughe che bramano storie violente per un pubblico in cerca del tragico.

Ma niente è peggio degli aspiranti critici. Cometicriticolarte è una pagina che racconta alcuni artisti e dà un breve parere sul loro operato. Tra gli ultimi video si può apprezzare un’analisi di un albero di natale realizzato da Greg Goya: una rivoltante opera partecipativa nata per essere pubblicata sulle piattaforme che la critica trova adorabile. In questo albero i passanti possono scrivere il pezzo mancante del loro natale: manca solo il panettone per realizzare una pubblicità Bauli. In un altro video elogia opere realizzate interamente con penne Bic come se la catarsi artistica possa individuarsi nello strumento, in un altro video ancora elogia un pittore che dipinge paesaggi alla William Turner estasiandosi per “come tiene il pennello” e poi continua chiedendo: “avete idea di quanto possano costare quei pennelli?”. “Tantissimo”, risponde.

Questa pagina è una buona rappresentazione della critica d’arte sui social media. Sono forme di analisi semplicistiche, realizzate da persone che per ritagliarsi il loro spazio hanno bisogno di un pubblico poco preparato e che hanno come primo obiettivo la disinformazione. Non sono in cattiva fede, è una disinformazione strutturale perché l’informazione manca in primo luogo a loro stessi, non sanno di non sapere. Inoltre la colpa non ricade mai sul singolo individuo che all’interno dei media è sempre il soggetto debole. Sono le piattaforme a dettare le regole del gioco.

Lo stesso avvenne quando a maggio sui social proliferava l’immagine AI su Rafah e la divulgatrice Esmeralda Moretti fece un video entusiasta dove bacchettava i reazionari sostenendo che la portata di diffusione dell’immagine aveva riempito i social di un unico contenuto mandando un messaggio politico fortissimo. Dovremmo porle diverse domande: come mai non ha compreso che il messaggio deve essere qualitativo e non quantitativo, come mai, da esperta di filosofia, non ha ancora compreso i meccanismi delle piattaforme, ma soprattutto che competenza ha per parlare d’immagine? Il problema di quell’immagine è stato frainteso e non era il fatto che fosse stata generata con l’AI.

I social media sono strumenti particolari: da un lato aprono le porte all’intera galassia sociale riducendo l’individuo a un atomo con responsabilità universali che non riesce a reggere, dall’altro lato basta mostrarsi solidali condividendo un’immagine per credere di aver fatto il proprio dovere. Dovere che de facto non sussiste e che non ha altra funzione che alimentare la produzione e condivisione di dati e ideologie.

Shevek, il protagonista dei Reietti dell’altro pianeta, nell’estratto a inizio articolo, dice: “sono un uomo che riconosce la merda quando la vede”, e noi? Noi non sappiamo più riconoscerla. Siamo anzi untori. Abbiamo perso questa capacità quando abbiamo permesso che in ogni ambito dello scibile umano si creassero sistemi e paradigmi (di mercato) diversi e spazi sorvegliati. Ognuno di essi è una galassia con le proprie regole e come ogni buon sistema crea i suoi reietti, gli altri.

Ogni sistema ha un suo confine: la zona periferica in cui si sviluppano processi accelerati e che di lì si dirigono poi verso le strutture nucleari per sostituirle. Poiché il confine è un elemento necessario di ogni sistema, esso ha bisogno di un ambiente esterno «non organizzato» e, quando manca, se lo crea. La cultura non crea infatti soltanto la sua organizzazione interna, ma anche un proprio tipo di disorganizzazione esterna. I social media sono stati per breve tempo la disorganizzazione esterna del sistema egemone che attraverso i suoi intermediari (e alcuni limiti strutturali) esonerava alcuni soggetti. Con il tempo sono entrati all’interno del confine e da lì sono arrivati al nucleo sostituendone i processi.

Così i social media hanno smesso di avere soggetti marginali e processi periferici. La rete di cui sopra, che teneva in equilibrio il sistema dell’arte fino al primo Novecento aveva il compito di mantenere l’arte precipuamente “contemporanea” e obbligava il pubblico a sorbirsi ciò che quel sistema aveva convalidato. Questa forma di costrizione, questa limitata possibilità di scelta generava in realtà un sistema di valore che si è sfaldato e adesso parte del pubblico non riesce più a fruire un’arte che sia davvero contemporanea. Nel tempo sacro delle caverne i dipinti erano realizzati per gli Dei e venivano osservati da pochissimi eletti senza subire la pressione di altri sistemi (artistici ed economici) fagocitanti. Nel sistema degli artisti Mid-Career si trovano effettivamente opere contemporanee, nel senso di opere che riescono a stringere un rapporto peculiare con il loro tempo e a sprigionare una forma di catarsi, ma quel sistema è ormai un ambiente esterno disorganizzato pressato dalla forza degli imprenditori dell’arte da un lato e dagli artisti da piattaforma dall’altro. È tutto un “Feite”, un investimento sicuro che uccide qualsiasi forma di cultura contemporanea.