Raccolta di aneddoti, interviste, ritagli di giornale, piccole note, riflessioni alte e basse, grazie a cui riusciamo a scoprire tutte le ossessioni di Labranca, tutto il suo percorso intellettuale, i suoi drammi esistenziali, i rancori covati ma anche i suoi grandi amori e le sue passioni

Isolarsi, ecco la parola d’ordine.

Detesto il buonismo, la voglia di giustificare, di capire. Non c’è niente da capire.

Io sono terrorizzato dalle telefonate della commercialista.

Prima di cremarmi, ricordatevi di ungermi con il Vicks Vaporub.

La mia ispirazione nasce da cose minori ed è giusto che sfoci in prodotti di valore minore.

Ora mi dedico a uno shopping sobrio. Modo elegante per dire che vado a fare una spesa misera.

La mia ispirazione nasce da cose minori ed è giusto che sfoci in prodotti di valore minore.

Se vuoi avere successo in campo editoriale devi piacere a Fahrenheit di Radio Tre, ad Alfabeta 2, agli editor di Minimum Fax, agli amici stregatti della domenica, a Repubblica. Un ambito ristretto e provinciale che non sa guardare oltre la ringhiera della propria terrazzina.

Arbasino

Il mondo ipersociale di Arbasino mi è precluso. È un mondo descritto nei dettagli, in cui tutti conoscevano tutti e tutti erano bravissimi e famosi, sempre impegnati in cene, incontri, tè, dibattiti, convegni, serate e soirées, prime teatrali, scambi di pettegolezzi tra/su intellettuali europei, viaggi nei luoghi più remoti del mondo. Anche in questo libro sul mondo letterario londinese degli anni Cinquanta tutto è così. Ci sono sempre richiami a contesse, marchese, ville e magioni, famiglie nobili o comunque ricche, altri autori, qualcuno famoso, la maggior parte a me ignoti. Amori, pettegolezzi e sesso facile, fortunati loro che sono stati gli ultimi a farlo. Mica come noi che abbiamo iniziato a smutandarci verso il 1983 e ci siamo subito tirati indietro terrorizzati da notizie su virus sconosciuti.

In Arbasino non c’è mai un richiamo alla quotidianità, alle necessità del lavoro. In Arbasino ci si nutre, non si mangia. A volte ci si mette a tavola solo per il gusto di sedersi con editori potenti e scrittori premiati, non certo per ordinare del cibo. Con Arbasino non si prende mai la metropolitana, ma si viaggia in treni dai sedili damascati, aerei, navi da crociera, risciò. Se è a Londra, solo taxi. Rispettoso di una vita che si srotola tra il diktat baudelairiano del lusso e della voluttà. Ci sarebbe anche la calma, ma la scrittura di Arbasino non è mai quieta, è un ribollire, spesso anarchico, ma sempre perbene, che mette ordine tra agende affollate. Senza mai uno sbadiglio, una giornata di pioggia, un sabato come questi che trascorro io, senza un solo squillo di telefono. Quando deve trattare argomenti popolari, come la nascente Swingin London che ancora non si chiamava così, Arbasino lo fa con le pinze, sempre pronto a far notare le ascendenze proletarie dei giovani che si vestivano come ai tempi edoardiani. E non manca mai l’osservazione del dettaglio: il colletto è sporco, la redingote di velluto è lisa, gli jabot ingialliti, i gilet di damasco chiazzati.

Faceback

 
Le televendite. Avevo appena visto il must del momento, quella del Perdipeso in cui un tizio, disteso sul divano, racconta di aver perso 75 chili e ora le donne gli dicono «che sembra un attore di Centrovetrine».
Ho riportato la frase dell’uomo come materiale per la riflessione quotidiana. Una delle donnine che gemono su Twitter ha risposto: «Almeno sapessi cos’è Centrovetrine».
Bell’esempio di ciò che in Andy Warhol definivo territorial pissing: nego l’esistenza di una cosa che intuisco essere bassa e disdicevole per marcare un mio territorio fatto di libri che divoro e di film iraniani.
Analizziamo quella risposta. Se invece di Centovetrine avessi citato uno scrittore cubano inventato di sana pianta, la signorina avrebbe risposto: «Lo adoro!».
Se avessi citato il saggio di un filosofo boemo veramente esistito, lei si sarebbe fatta un giro su Wikipedia e avrebbe detto: «È il mio Vangelo». Ovvero, avrebbe finto la Conoscenza.
Nel caso di Centovetrine, invece, ha finto la Non Conoscenza. Perché lei sa benissimo cos’è Centovetrine, lo segue di sicuro quando è in casa da sola a divorare vaschette di gelato del discount davanti alla televisione, piangendo, mentre su Twitter dice di essere a una conferenza sul femminicidio.
Se non avesse davvero conosciuto quella soap, la signorina non mi avrebbe nemmeno risposto, non avrebbe sottolineato la sua lontananza dal popolare per imporre il suo (presunto) spessore intellettuale. Oppure si sarebbe informata su Wikipedia e, visto che non è materia di suo interesse, avrebbe la- sciato stare.
Rispondendo, e per di più rispondendo in quel modo, la tizia ha dimostrato invece un insostenibile snobismo che nasconde una realtà ben più triste e che mi ha spinto a chiudere subito il mio account Twitter.
In fondo era tutto tempo perso che ora potrò impiegare meglio. Guardando Centrovetrine.

 Neoproletari

Il viaggetto a New York è sempre più un must per i viaggi di nozze neoproletari. Davanti allo spaventoso video del Cremonini mi è tornato in mente un blogghettino aperto da una coppia di freschi sposini in occasione della loro luna di miele nella città più famosa del mondo.
Dopo le prime foto scattate senza mai togliersi gli occhialoni avvolgenti davanti ai grattacieli, ecco l’incontro che fece fare il salto di qualità all’esperienza newyorchese: l’incontro con altre due coppie di compaesani, anche loro in viaggio di nozze.
Da questo punto in poi le foto diventano affollate e i topoi visti mille volte nei telefilm perdono il loro fascino. Ecco le tre donne sempre insieme a parlare di diete. Oppure i tre maschi che stilano previsioni per il Fantacalcio. Inconsapevolmente seduti sulla panchina immortalata da Woody Allen in Manhattan.


 
In aeroporto

 
L’idea di aeroporto assorbita dai film brillanti e dai giornali di gossip di molti anni fa si sintetizzava nell’espressione jet-set. L’aereo era un mezzo così costoso che solo una ristretta élite poteva permettersi di viaggiare su un jet. Gli altri in cuccetta da seconda classe o su interregionali. E questo aveva come conseguenza un intero codice di comportamento; l’eleganza soffusa, e spesso solo presunta, delle classi più ricche dettava le regole di un galateo supernubilare. Silenzio, distacco, una certa noia e vesti di livello adeguato.
I ricchi volavano per rapidità, non perché avevano fretta. Non provavano l’ansia di arrivare subito per non perdere nemmeno un minuto di follia vacanziera che contraddistingue tutti quelli che adesso mi circondano. I ricchi volavano anche per non mescolarsi con il resto del mondo. Per questo si rinchiudevano in certe riserve protette dell’eleganza. I night, i concorsi di equitazione, i quartieri-zoo come Milano 2 e gli aeroporti. Il jet-set arrivava al gate silenziosamente, scivolando nella stessa afa che ci opprime anche questa mattina, senza mai sudare. Arrivavano in perfetto orario. Mai troppo tardi da dover subire l’umiliante chiamata dagli altoparlanti mentre il pilota impreca. Mai troppo presto, come fanno quelli che poi si spogliano e si sdraiano su tre sedili e iniziano a dormire e russare perché giunti con cinque ore di anticipo mentre gli amici li fotografano e postano subito il jpg su Facebook per mostrare a chi è rimasto a casa quale vita globetrotter stiano conducendo.
I ricchi del jet-set giungevano solo con quel breve anticipo sufficiente a volteggiare nel gate, fare da elemento scenografico di fronte alle vetrate oltre le quali scorrevano con altrettanta grazia e silenziosità le fusoliere argentate di poche linee aeree dai loghi evocativi.
Mi guardo intorno e non vedo nulla di tutto ciò. Io stesso sono qui da quaranta minuti, perché la colpa dei bivacchi nei gate non è solo dell’ineleganza naturale di un neoproletariato che ormai ha conquistato il mondo. Osama bin Laden ci ha messo del suo, imponendo un livello di sicurezza tra il ridicolo e il maniacale, anticipi assurdi per i check-in e obbligo di fare la fila davanti ai metal director esibendo al mondo quale marca di deodorante utilizziamo. Non tutte le colpe però sono imputabili al barbuto signore che ormai riposa tra i pesci. Non è colpa di Osama se dietro le vetrate si vedono passare code con loghi che non suscitano gli stessi brividi estetici di quello della Pan Am. Chissà se tra quarant’anni sarà possibile realizzare un serial televisivo altrettanto stylish sulle hostess di Ryanair. Già conosco la sconsolante risposta.

Fabio Fazio

 
Fabio soffre di horror vacui. Deve riempire ogni spazio disponibile, teme il silenzio. In studio ha sempre bisogno di un buon numero di “spalle” cui fare riferimento nei momenti di smarrimento.
A volte invitava persone cui poi non rivolgeva nemmeno una domanda. E qualcuno se l’è anche presa. Per timore di restare solo tappezzeria ci sono stati molti che hanno detto pubblicamente che mai sarebbero andati a fare le belle statuine nei programmi di Fazio. Gli stessi che oggi implorano un invito.
 
Fazio non è buono, anche se molti lo considerano un buonista. Una persona “buona” tende all’ecumenismo. Lui tende all’esclusione, arrivando alla barricata con l’ultimo programma. E non è moderno: teme il nuovo, le macchine informatiche. In quanto alla cultura, tende sempre a nascondere quella che possiede ponendosi diversi gradi sotto l’intervistato, a volte risultando anche poco credibile.
A essere cialtroni, ossia ad assumere un atteggiamento di persone colte, aperte e razionali, sono molti di coloro che si sono messi a seguire Vieni via con me perché si doveva farlo.
Gli stessi che nelle loro pagine su Facebook celebrano superficialmente i culti della sinistra dell’ovvio: dal logo di Emergency alla partecipazione al gruppo che inneggia a Massimo Tartaglia. Seguire Fazio diventa quindi un atto di cialtronismo, come comperare Gomorra e non leggerlo o pensare di aver risolto i problemi del mondo selezionando la casella “Mi piace” del social network. Io lo chiamo cialtronismo, in Inghilterra lo chiamano Click-Activism.
 
Fabio è un termometro. In quanto uomo poco moderno non riesce a recepire con molto anticipo quali saranno le tendenze del prossimo anno, ma in quanto uomo intelligente capisce cosa sta già serpeggiando nel Paese.
Per questo ha fatto centro quando con Anima Mia aveva capito che alla fine del secolo c’era un forte desiderio di guardarsi indietro e di godere delle tranquillità fornita da un passato infantile.
E per questo ha rifatto centro con Vieni via con me. Perché ha capito che oggi il desiderio diffuso è quello di darsi una patina di impegno sociale, di denigrare un certo stato delle cose, sognando una fuga, magari vigliacca, che nessuno poi mette in pratica. Ma Fazio non sarà mai un catalizzatore, un capopopolo, un Masaniello. Quello è un ruolo che ha lasciato volentieri a Saviano.

Interviste sparse

 
Se dovesse cambiare qualcosa nel suo fisico, che cosa cambierebbe?
Il fisico.
 

Come vorrebbe morire?
Presto.
 

Quale personaggio, esclusi i presenti (intendo me e te), a tuo parere, rappresenta meglio i nostri tempi?
Giuseppe Cruciani. Aggressivo e dal linguaggio poco elegante, ha reso accessibile anche agli ignoranti informatici quell’atteggiamento che segnava già da anni i commenti nei blog e le sparate di Grillo. Inoltre il suo modo di far pesare quanto guadagna e il ripetere “non me ne frega niente” è lo specchio di questo tempo di crisi, in cui chi ha ancora qualcosa non intende dividerlo con gli altri, ai quali non concede nemmeno compassione.
Così si dimostra quanto fossero false le filosofie del buonismo, dell’I care, delle gare di solidarietà con cui ci hanno massacrato per vent’anni.
 

Qual è il tuo alcolico preferito?
Martini, Apple Martini, Martini Gold, Martini Royal. I superalcolici mi disgustano, i pestati sono burini.

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Una parola abusata che ti dà fastidio (per me, ad esempio, è “sogno”).
Compagno/compagna. Non in senso politico, che nessuno usa più. Nel senso di persona con cui sto insieme. Mi irrita. Che significa? Compagno/a di vita. Ma dove? Di solito dopo tre mesi si mollano. Più che la vita condividono la camera da letto, quindi tanto vale usare il termine della fazione op- posta. «Le presento il mio camerata».


Qual è il sentimento prevalente che provi quando pensi all’universo editoriale italiano?
Dispiacere perché molti occupati nel settore stanno perdendo il lavoro per le scelte distratte di pochi. O ti aspettavi “pena e schifo” perché pubblicano thriller e libri di Benedetta Parodi? L’editoria è una industria che deve produrre risultati economici. Non è un ente benefico che deve diffondere la presunta cultura di saggi plagiati, romanzi autoreferenziali e poesie zoppicanti di periti elettronici e pettinatrici con l’hobby della scrittura. Inoltre i difetti dell’editoria sono globali, non solo italiani. Il discorso comunque è lungo per essere esaurito in poche righe.
 

Il tuo piatto preferito.
Tonno mangiato dalla scatola, in piedi, direttamente sul lavandino.
 

Romanzo più sopravvalutato al mondo.
Nessun dubbio: Il piccolo principe.


Parola preferita in qualsiasi lingua.
Bonifico.

– 
Quale lavoro ti sarebbe piaciuto intraprendere e non hai mai avuto il coraggio di farlo?
Nessuno. Ho fatto tutto quello che volevo fare con piena coscienza del ridicolo