Uno spettro si aggira per l'Europa: è il pregiudizio che la cultura e la moralità siano equipollenti. Pregiudizio coltivato e difesa dalla classe che guarda caso detiene il monopolio della cultura: la classe degli intellettuali. Non serve sviluppare un'etica, essere attivi politicamente, difendere, anche con il proprio corpo, un'idea di mondo. Si estrae un medesimo plusvalore intellettuale andando al Salone del Libro, al cineforum in piazza, o ascoltando il podcast giusto. Estratto dal #54 della newsletter "Preferirei di no".

Recentemente, in Francia, è scoppiata una polemica intorno ad alcune dichiarazioni politiche del calciatore Mbappé, che all’alba delle elezioni invitava a non votare il Rassemblement National al secondo turno, «per non mettere il Paese nelle mani di quella gente». Non si è fatta attendere la risposta di Marine Le Pen: «I francesi sono stufi di ricevere lezioni di morale e istruzioni di voto» da «attori, calciatori e cantanti». Ma perché Mbappé non potrebbe esprimere la sua opinione politica? Perché è uno sportivo? Perché è un privilegiato? Non ci sembra che la Le Pen e la destra in generale, che condannano quasi sempre gli endorsement pubblici dei membri dello star system, abbiano argomentazioni valide a sostegno della propria tesi. Insomma Mbappé vive in una società e ha tutto il diritto di esprimere la propria opinione politica. La democrazia funziona così, e se la destra si presenta alle elezioni non può che stare al gioco delle parti.

Perciò il nostro problema è stato di tutt’altra natura, quando siamo incappati in un video di Alessandro Borghi, ospite sul palco al Cinema in Piazza, la riuscitissima operazione del Piccolo America che sta animando l’estate romana con proiezioni cinematografiche in tre diverse località cittadine. Tutto bellissimo. Nel discorso dell’attore però c’è un passaggio che conferma un concetto forse fumoso ma che questa newsletter sta cercando di condensare fin dal suo primo numero. Borghi dice, rivolgendosi alla platea: «Mi piacete tantissimo voi… ma questo Paese un po’ meno. Cioè diciamo che se fossero tutti come voi forse avremmo risolto. Invece da qualche parte ci sarà una piazza dove ci sta la gente così capito… [fa il gesto del braccio teso] e quindi è un macello». 

A noi della scelta di campo di Borghi, legittima come quella di Mbappé, interessa pochissimo. Malgrado a nostro avviso sia una scelta più posizionale che politica: nel senso che quella solo posizionale è una scelta a rischio zero ma con una massimizzazione del profitto, quella politica è una scelta in cui la responsabilità precede qualsiasi guadagno simbolico. Borghi invece non può dire il contrario di ciò che dice di fronte a un mondo del cinema che è schierato a sinistra e a una platea come quella del Piccolo America, che non tollererebbe altra posizione: quindi è sollevato da qualsiasi responsabilità, perciò la sua dichiarazione è la meno politica che si possa fare. Se puoi schierarti da una parte sola, che bisogno c’è di ribadire il tuo schieramento? Chi devi convincere tra quelli già convinti? È molto angusta la nostra libertà, oggigiorno, se possiamo rivolgerci sempre e solo a chi già pensa ciò che pensiamo. 

Ma non è questo il punto, ci stiamo dilungando. Più interessante è il sottotesto, quello che questo discorso sottintende, e che rivela l’enorme problema in cui versano la cultura e i suoi esponenti. Borghi dice che l’Italia sarebbe un Paese migliore se fossero tutti come gli astanti, quindi, lavorando per deduzione: gente che va al cinema, che si interessa di cultura, che prende parte a delle manifestazioni, che si mette in gioco e che per questo non è di destra, come il resto del Paese, che invece si ritrova in altre piazze a fare i saluti romani e a urlare “Presente!”. Ora, premesso che nel pubblico delle Cervelletta, di cui Borghi non conosce i singoli componenti, potevano esserci pedofili, spacciatori, evasori fiscali, lettori di Teresa Ciabatti, criminali di tutti i tipi, perché si fa questa associazione tra cultura e moralità? Perché chi legge, chi si informa, chi partecipa a una proiezione cinematografica dovrebbe essere migliore di chi invece non fa tutte queste cose?

Ci sono uomini e donne che vivono, ridono, si innamorano, soffrono, lavorano senza aver mai letto mezzo libro, e chissà quanti saperi non riconosciuti da certificati culturali essi conservano e custodiscono e tramandano, e chissà che non siano proprio questi saperi quelli che mandano avanti il Paese e permettono a chi legge Calvino di spostarsi da una parte all’altra della città in metro per andare a bere il suo spritz nella libreria sui Navigli. Questo automatismo, questo tic tutto progressista che risolve l’equazione per cui all’aumentare dei libri letti, dei film visti, o dei viaggi fatti aumenta la libertà e la moralità degli individui non ha alcun fondamento. Qual è la libertà di Borghi, che per ricevere un applauso su quel palco non può esimersi dal dire la frasetta di rito? La libertà di giornalisti che sono presi in ostaggio dai pregiudizi del proprio pubblico, di case editrici che rispondono solo alle esigenze del mercato, di case di produzione che devono rispettare i canoni imposti dall’ultimo bando del Ministero della Cultura per riceve i contributi pubblici? Di che libertà stiamo parlando, di che coscienza politica dobbiamo discutere? Perché non si entra mai nel merito? 

Il cinema poi è stato uno degli strumenti di propaganda più utilizzati dai totalitarismi novecenteschi, anzi uno dei mezzi che deve il suo enorme sviluppo e raffinamento nei metodi e nelle tecniche proprio ai regimi dittatoriali, che ne hanno fatto un uso massiccio e spropositato. Borghi domani potrebbe formulare lo stesso discorso di fronte a una platea nazista in attesa di guardare «La cittadella degli eroi», solo perché si tratta pur sempre di cinema? Ecco pensiamo che probabilmente Goebbels è diventato Ministro della Propaganda dicendo cose del genere: «di là ci sono quelli brutti, sporchi e cattivi che non vedono i film liberatori che vediamo noi e per questo il Paese fa schifo, epuriamoli». 

I libri, i film, i podcast non sono mezzi dal valore morale intrinseco. Non hanno niente a che vedere con la moralità. Anzi i più grandi massacri e stermini della storia sono stati avviati da società sviluppatissime, culturalmente molto qualificate. Ma perché la sinistra non si toglie dalla testa la pessima idea che gli intellettuali salveranno il mondo? Gli intellettuali sono la forza più conservatrice, più controrivoluzionaria della storia, più attaccata ai suoi privilegi. Ecco l’epurazione che andrebbe fatta, togliere la patina di moralità di cui si ammantano a vicenda scrittori, giornalisti, registi, direttori artistici. Cosa aspetta la sinistra a deintellettualizzarsi? Perché la difesa degli ultimi, degli emarginati, delle minoranze, è appannaggio posizionale di una classe di persone che si appropria culturalmente di problemi altrui, vissuti quotidianamente da persone in carne ed ossa, senza teorie, trasformando questi stessi problemi in ideologia, quindi carriera, professione, business? 

Non sarebbe meglio una sinistra senza il monopolio di questa categoria parassitaria, che vive a spese di sofferenze non sue, e che pur non essendo la proprietaria dei mezzi di produzione detiene i mezzi di produzione del discorso dominante (che è sempre di sinistra, perché la destra non produce alcun discorso, ha solo «idee senza parole» come diceva Furio Jesi)? Il filosofo anarchico Jan Wacław Machajski li chiamava i «capitalisti del sapere», un «ceto che anche dopo l’abolizione dei capitalisti continua a essere una società dominante, esattamente come quella dei dirigenti e dei governanti colti; resterebbe in possesso del profitto nazionale, ripartito nella forma di onorari dei lavoratori intellettuali, e successivamente, grazie alla proprietà e al sistema di vita familiare, questa struttura trova la sua conservazione e il suo modello di riproduzione di generazione in generazione».