La modernità è essenzialmente culturale. Ma la cultura in cui si muove è una "cultura assoluta", ovvero una macchina che ri-produce avvenimenti o immagini autoreferenziali, che a loro volta formano quell’unico ambiente in cui gli individui sono in grado di conoscersi e riconoscersi. Questo processo sostituisce un mondo di immagini e avvenimenti a una realtà potenzialmente conflittuale.
L'articolo

«È più bello, come fa Platone, attenersi alle negazioni. »
— Proclo, Commento al Parmenide, 1108, 19

Nella società contemporanea dilaga uno stato di paranoia diffusa e a bassa intensità. Dietro il kitsch di un edonismo ostentato giorno e notte, senza tregua, su tutti i media esistenti, si cela un’angoscia esistenziale a malapena soffocata da un soggetto che, già instabile per natura, si trova ora di fronte a un’alternativa poco allettante: frammentarsi o sacrificare il proprio principio di individuazione. Il soggetto moderno, infatti, non è che la conseguenza secondaria di un flusso immaginario. Originariamente sostenuto dalla promessa, ormai mondana, di un mondo finalmente pacificato, questo flusso ininterrotto di immagini è diventato un lungo concatenamento di nulla. Alimentato da un ciclo ricorsivo di promesse e delusioni, che ho chiamato cultura assoluta, questo flusso di immagini è stato, insieme alla tecnica, la principale forza organizzatrice della società moderna. Destinata alla più radicale contingenza, la modernità ha avuto bisogno della flessibilità delle immagini per garantirsi una sorta di precaria stabilità nel dinamismo della sua continua evoluzione.


L’entertainment
, in quanto stadio più avanzato della cultura assoluta ma anche suo superamento, designa la situazione storica attuale, in cui il godimento del nulla è diventato l’unica realtà per un soggetto che, sottoposto alla precarietà cronica della rappresentazione di sé, sta precipitando in una condizione di incertezza esistenziale e di paranoia. Questo godimento del nulla a cui l’individuo è costretto sotto il regime dell’entertainment non ha nulla a che vedere con il piacere o il dispiacere personale; è conseguenza di una necessità ontologica, non la causa di una contingenza esistenziale. Nessuno si diverte davvero nell’entertainment; l’unico divertimento permesso è quello che obbliga il soggetto a divertire costantemente da sé stesso (qui la parola ritrova il suo significato originario) e a subire i cambiamenti compulsivi delle proprie rappresentazioni nello spazio pubblico.

L’entertainment non è un momento parziale nell’organizzazione delle relazioni sociali; è l’affermazione piena di una verità che non si fonda più sull’essere, ma sulla presenza totalizzante del nulla. In questo è simile al «principio delle cose che sono» di Anassimandro, l’apeiron (ἄπειρον), l’Illimitato, un principio di produzione ma soprattutto di annientamento delle cose e degli eventi: «ciò da cui proviene la generazione per le cose che sono è anche ciò verso cui ritornano per effetto della corruzione, questo secondo necessità» (framm. D.K. 12 B.1). L’entertainment è l’origine e la fine di tutte le finzioni che organizzano la società moderna; la negazione del mondo è il suo momento centrale, poiché può sussistere solo nel vuoto creato da una temporalità in cui ciò che deve accadere prevale sul presente e sul passato.

Per comprendere la natura di questo paradosso – un mondo saturato di immagini dove non si vede più nulla o, meglio, dove non si vede altro che il nulla – è tuttavia necessario sottrarsi alla critica, perché «dalla critica scaturisce ipocrisia» (Reinhart Koselleck). Non bisogna quindi confondere l’entertainment né con lo spettacolo (Guy Debord), né con l’industria culturale (Adorno/Horkheimer). L’entertainment non è una relazione sociale mediata dalle immagini, né è il risultato di una produzione in serie e standardizzata di merci che, partecipando alla reificazione della cultura, precipita l’alienazione capitalistica del soggetto autonomo e la sua trasformazione in consumatore passivo.

L’entertainment non è l’altra faccia del lavoro che, in una società desacralizzata e complessa, si oppone ormai alla disoccupazione. Non è nemmeno, in una prospettiva più astratta, il tempo libero, quel rilassamento provvisorio e intermittente del tempo faticoso e lineare della produzione a cui sembrano incatenati gli individui moderni. Esso è un’entità unica e autonoma, che precede sia il lavoro sia il riposo, i tempi morti dell’inattività e i tempi pieni della produzione. Principio sovrano da cui derivano tutti gli eventi della società ma nel quale questi sono destinati a dissolversi, l’entertainment segna il trionfo ma anche l’impasse di un movimento di negazione del reale che ha avuto inizio con Platone e che ha conosciuto, con la modernità, un vero e proprio processo di accelerazione.

Sin dal parricidio teorico compiuto da Platone contro Parmenide, operazione che ha introdotto il nulla nell’essere, tutta la storia occidentale è stata attraversata dalla stessa passione per la negazione. La realtà ha perso la propria ragion d’essere: non è altro che una brutta copia di un mondo ontologicamente superiore. È bastato, con il cristianesimo, che questa dicotomia tra un mondo perfetto e una realtà segnata dal falso si dispiegasse nella dimensione temporale, perché la negazione si trasformasse in una straordinaria forza di progresso. La storia è orientata dalla Salvezza come sviluppo provvidenziale e lineare dei disegni di Dio, una freccia che, dal nulla del mondo, continua a puntare – anche al di fuori del cristianesimo – verso un futuro migliorato che deve diventare destino. L’attesa di un mondo perfezionato, se non perfetto, che la negazione del presente presagisce e prepara, è propria dell’Occidente.

Il nulla innesca un movimento perpetuo del mondo e sospende la felicità degli uomini a un’attesa infinita e indeterminata. Religione, economia e tecnica, pur con percorsi e articolazioni differenti, condividono in Occidente una stessa ontologia fondata sul negativo. È in questo tempo immobile che, all’alba della modernità, ha cominciato a prendere forma la cultura assoluta come luogo interamente secolarizzato di una produzione costante di immagini e finzioni utopiche, cariche di un duplice compito. Se, da un lato, attraverso la negazione del mondo attuale considerato deficitario, queste immagini e finzioni anticipano una felicità sempre sul punto di manifestarsi (ma che in realtà non si manifesta mai), dall’altro devono servire da supporto alla ricostituzione dell’integrità di un individuo su cui la tecnica ha iniziato a sperimentare le sue varie operazioni di dissezione.

La modernità si dispiega come tentativo di risolvere un paradosso che essa stessa ha prodotto. Come garantire tutta la libertà promessa all’individuo da una società che, per il semplice fatto della propria espansione ed evoluzione tecnico-scientifica, non può che compromettere questa libertà fino a negarla completamente?

Nato verso la fine del XIV secolo dal crollo di una società strutturata secondo una differenziazione gerarchica e rigida, in cui le disuguaglianze oggettive derivavano dalle posizioni fisse occupate dai gruppi sociali, l’individuo si crede detentore di una libertà illimitata. La verità, però, è che viene progressivamente intrappolato nelle maglie di una società che, per la sua complessità esponenziale, diventa totalizzante. Tramite un inganno sul piano temporale e immaginario consistente nel dissolvere la conflittualità del reale nella promessa di un mondo finalmente riconciliato e sempre presentato come imminente, la modernità riesce a garantirsi un progresso fondato su una catena ininterrotta di delusioni. Ha privilegiato la fuga verso un futuro indeterminato rispetto alla presenza concreta di un conflitto politico; l’assenza di un luogo, l’utopia culturale di Thomas More, rispetto al reale della divisione politica teorizzata da Machiavelli o da Thomas Hobbes.


La società moderna è dunque una società che non è ancora ciò che è, e che non lo sarà mai. Questo movimento di negazione perpetua è garantito dalle immagini prodotte dalla cultura assoluta
. L’individuo si muove in questo spazio temporalmente dislocato e, in quanto soggettività fittizia – costituita quindi dalle immagini –, può finalmente godere di una libertà che è tanto vasta quanto vana. In questo non ancora risiedono le origini dell’entertainment, anche se per origini non si deve intendere qui una causalità storica.

L’entertainment non è una forma degradata di cultura; è piuttosto la cultura che è già, sin dall’inizio, entertainment, anche se in essa le immagini erano ancora cariche di una promessa. L’entertainment è lo stadio freddo, privo di speranza, della cultura assoluta. Quest’ultima non è stata in alcun modo deviata dalle sue buone intenzioni o dal suo buon uso per essere sottomessa ai diktat del politico e dell’economia. Al contrario, è la cultura assoluta – e, dopo di essa, l’entertainment – che hanno sempre funzionato come macchine capaci di assorbire i resti di tutto ciò che, al di fuori della tecnica, cercava di sfuggire alla finzionalizzazione, come gli eventi del politico della morale.

È sulle rovine ancora fumanti della Rivoluzione francese – che era già il prodotto più conseguente della cultura critica – che si instaura questo sistema di organizzazione bipolare del mondo, con la tecnica da un lato, incaricata della gestione del vivente, e dall’altro la produzione immaginaria, che riassume il lavoro della politica e della morale nella ricostruzione di un individuo libero e di una società perfetta che si declinano però entrambi al futuro.

A Jena, nei circoli del preromanticismo tedesco, si rivendica un’«apostasia della società», e le immagini si separano dalla società, considerata completamente corrotta, per salvare il mondo. Fin dagli inizi, nel «messianismo romantico», la cultura moderna non ha cessato di rinnovare la propria promessa di inghiottire il tempo della storia, come annunciava Friedrich Schlegel. Questo atto radicale di apostasia, che dà origine alla cultura moderna, si è però fossilizzato in uno stato permanente di separazione dal reale, che ogni immagine viene a confermare, servendo soltanto a garantire un senso postumo a una società abbandonata alla pura contingenza.

La cultura è diventata assoluta; si separa (come suggerisce l’etimologia latina del termine absolutus) dalla società attribuendosi un potere taumaturgico para-religioso. Eppure è proprio nella sovrabbondanza di immagini cariche di speranze sistematicamente disattese che, come detto, la società, abbandonata a una contingenza radicale, trova il suo equilibrio dinamico. Il senso del mondo sorge paradossalmente da una negazione reiterata.

Il soggetto trascendentale kantiano non è soltanto un soggetto gnoseologico; diventa un soggetto morale e, soprattutto, estetico, poiché la sua identità è esattamente determinata dalle concrezioni effimere di questa successione di immagini.

È impossibile, in questa sede, tracciare le evoluzioni interne della cultura assoluta e del suo prodotto secondario, la soggettività fittizia. Ci basterà evocare la crisi maggiore che entrambe hanno attraversato ormai un secolo fa, crisi che si è conclusa con l’espansione ancora più completa del fittizio e con i primi tentativi di fusione della tecnica con la cultura assoluta. Esplodendo in un malcontento che, in modo sotterraneo, era cresciuto all’interno dello spazio chiuso del fittizio – il «Regno di Dio» proclamato da Novalis tardava sempre più a manifestarsi –, le avanguardie degli anni Venti lanciarono un ultimo e definitivo assalto al reale.

Un assalto poetico e, proprio per questo, credettero, politico: Marx + Rimbaud, come recitava lo slogan coniato da André Breton. Uno slogan puramente surrealista, che, per di più, sembra ignorare il gesto definitivo di Rimbaud, il quale non si era semplicemente ritirato dal campo della rappresentazione, ma lo aveva risolutamente rinnegato, nel silenzio degli anni di esilio volontario, sottraendosi in modo definitivo – hapax culturale – al circolo superstizioso della speranza e della delusione.

Questo assalto, il tentativo di compiere un salto al di là della rappresentazione e di fare finalmente irruzione nel reale, era ovviamente destinato al fallimento. Ma la sconfitta ideologica delle avanguardie è solo il prezzo del loro trionfo formale. Eliminando una volta per tutte la superstizione del contenuto, esse affermano la sovranità della negazione. Non c’è più bisogno di puntare a un significato esterno al segno, né di fingere di attaccare la realtà: questa sembra evaporare nell’orizzonte lontano, che la finzione non riuscirà mai più a oltrepassare.

Le avanguardie hanno portato la cultura assoluta al suo parossismo, completando l’autonomizzazione della produzione del nulla. È qui che nasce l’entertainment. Il nulla si diffonde ormai come un’infezione batterica: non è solo il soggetto a essere fittizio, ma tutto ciò che lo circonda, tutto ciò che tocca, persino la sua vita intima sembra destinata a dissolversi nell’insignificanza della rappresentazione.

Il soggetto dipende dalle immagini per affermare la propria identità nello spazio pubblico (e ormai anche in quello privato), ma più cerca prove della propria esistenza incerta – filmandosi, fotografandosi, registrando sui social ogni minimo evento della propria vita –, più scompare. È questa la legge paradossale dell’entertainment, che ha come corollario il fatto che, per non esplodere in frammenti, il soggetto deve nutrirsi di cliché universali e standardizzati. Certo, già prima si confrontava con l’alta instabilità della propria presenza esistenziale in un mondo che non aveva più alcun fondamento e sul quale non aveva alcun potere effettivo.

Le immagini, e più in generale le finzioni – con i loro correlati temporali, gli eventi – sono state strumenti straordinari per neutralizzare il «campo infinito di sorprese» di cui parla Arnold Gehlen, campo in cui l’uomo è immerso dalla nascita e che la modernità, con la ricchezza e la mutabilità quasi infinite delle sue connessioni, aveva reso ancora più temibile. Questa neutralizzazione è stata possibile solo grazie a una finzionalizzazione, sempre da ripetere, del soggetto, della sua libertà e delle sue relazioni con il mondo.

C’è stata tuttavia una rottura nella relazione non dialettica – che rappresenta la spina dorsale della modernità – tra l’ordine dinamico del mondo, preso nel processo di costruzione-distruzione condotto dalla tecnica, e le metamorfosi imposte alla soggettività fittizia. L’entertainment non sembra più in grado di garantire alcuna continuità esistenziale a un individuo che, nel vivo della sua vita psico-biologica, continua a subire molteplici operazioni di smembramento.


La sequenza di immagini che lo abita segue un ritmo forsennato che tende asintoticamente verso il punto zero
. Un’attesa composta da molteplici nulla prende il posto della realtà, e l’individuo, minacciato costantemente dall’implosione del proprio sé – la cui formazione dipende da queste immagini –, è intrappolato in una spirale di azioni deludenti. La paranoia si generalizza.

Il cervello funziona come una macchina inferenziale: formula – secondo un metodo di calcolo bayesiano – ipotesi probabilistiche sullo stato della realtà, ipotesi che le informazioni raccolte dagli organi sensoriali sono incaricate di confermare o confutare fino all’estinzione del messaggio di errore. Solo a quel punto, una volta annullate le previsioni di errore, il frammento di realtà con cui il soggetto è confrontato diventa un evento consapevole.

La paranoia è uno stato clinico scatenato da una cattiva correlazione tra le previsioni probabilistiche elaborate dal cervello (top-down) e i dati sensoriali (bottom-up). A causa di un certo malfunzionamento organico – ancora difficile da determinare con precisione –, il cervello diventa fonte di previsioni di errore eccessive e aberranti, portando il soggetto paranoico a fissarsi su eventi insignificanti del reale, a sovrastimare alcune esperienze e a sviluppare idee deliranti.

È il «centro di gravità» biologico della persona, il suo sé profondo – ciò che le permette di proiettarsi mentalmente verso il futuro –, a essere compromesso in questi disturbi comportamentali. Ma cosa accade se è la realtà, ovvero quella produzione immaginaria destinata a dare al soggetto un’identità (per quanto mutevole e sempre provvisoria), che, a causa della sovrabbondanza di eventi nulli di cui è ormai composta, perde definitivamente consistenza e non è più in grado di inviare un messaggio affidabile, capace di confermare o confutare le previsioni di errore del cervello?

Nell’epoca dell’entertainment, sono i dati provenienti dal mondo a provocare una perturbazione nella formazione del sé intimo, gettandolo in una ricerca perpetua e impossibile di stabilità. Sottoposto al bombardamento di una sequenza estremamente rapida di messaggi privi di contenuto, l’individuo moderno si trova nell’impossibilità di verificare le informazioni necessarie per una formazione del sé più o meno stabile. Gli resta solo una scelta: il frammentarsi schizofrenico della personalità o l’adesione a una normalità fittizia mediocre e totalmente disindividualizzante. La malattia psichiatrica o la scomparsa come individuo. Per evitare sia le credenze deliranti che la disintegrazione dell’immagine di sé – nate dal disaccordo tra le previsioni di errore del cervello e i messaggi dei sensi ormai illeggibili –, l’individuo è costretto a selezionare le rappresentazioni del sé da una gamma di immagini standardizzate, capaci di rassicurarlo ma che gli negano ogni possibilità di differenziazione.

Le fotografie pubblicate sui social network, formalmente identiche (qualunque sia il soggetto rappresentato), la moltiplicazione di serie televisive con trame elementari, personaggi sovrapponibili, tematiche effimere e esperienze ludiche e sentimentali perfettamente intercambiabili: è tutto ciò che l’entertainment offre al soggetto come rimedio a un male che esso stesso ha generato, negandogli l’accesso a ogni segno, anche fittizio, capace di rafforzare il principio di individuazione.

Il soggetto, reso allergico all’ambiguità, diventa il tramite di immagini anonime, stereotipi che forse riescono a garantirgli una sussistenza esistenziale standard ma che falliscono nella loro missione originaria: preservarlo nella continuità della sua individualità mutevole.

«Le gesta eroiche del nulla» (Bruno Bauer), che modellano la società contemporanea, sono rimaste impensate. La filosofia contemporanea si è dimostrata incapace di opporsi a questa ondata di insignificanza; non è una sorpresa. Non sa nemmeno teorizzarla. Dopo tutto, la filosofia è stata, fin da Platone, alleata della logica del rifiuto del mondo, che in Occidente ha permesso l’instaurazione del negativo come principale forza di pacificazione e di organizzazione sociale.

Non bisogna dimenticare che l’entertainment nasce dal capovolgimento su di sé del processo morale e ipocrita che la cultura aveva avviato contro la società. La leggerezza pop o il ritorno alla natura, il mito di Gaia usato come ultima superstizione para-sciamanica per evocare spiriti che da tempo hanno abbandonato il mondo, non possono salvare un pensiero ormai ridotto a commento postumo dell’entertainment.

La delusione normativa a cui la soggettività fittizia è stata confrontata nell’epoca eroica della cultura assoluta, era stata ripagata con una forma di continuità, anche se necessariamente fragile. La promessa di felicità sempre tradita ma che le immagini hanno continuato ad alimentare aveva aperto uno spazio in cui gli individui potevano, al prezzo di una finzionalizzazione dei loro rapporti reciproci e con il mondo, credersi padroni del proprio destino personale. Anche l’entertainment è alimentato da un flusso perpetuo immaginario, ma il presente della negazione ha preso definitivamente il posto del futuro della promessa. La delusione è passata da normativa a esistenziale e l’individuo, sempre sull’orlo dell’implosione, non ha più granché da aspettarsi dalle immagini se non la propria scomparsa definitiva.