Quando nel 1981 apparve al Florence Film Festival, il prezioso festival fiorentino dedicato al cinema indipendente americano, Eraserhead fece lo stesso effetto che nel film il neonato provocava alla famiglia Spencer: fascino sinistro e straniamento. Quella pellicola sbarcava credo per la prima volta in Italia (dopo un passaggio al festival Avoriaz nel 1980). Ci aveva messo più di tre anni per arrivare in Europa. In effetti, bianco e nero a parte, come molte opere d’arte, era roba difficile da maneggiare (e vedere), con quella mostruosa e ansiogena creatura capace eccome di portare alla disperazione il padre, un impiegato trentenne coi capelli gonfi e dritti che visto una volta te lo ricordi tutta la vita.
Nato in un contesto underground losangelino, trattato in maniera sprezzante da gran parte della stampa mainstream dell’epoca e tenuto in vita solo con ostinate proiezioni notturne, il primo lungometraggio di David Lynch era poi diventato un oggetto di culto a New York, prima negli ambienti artistici e quindi nei cinema del Greenwich Village. Non era fantascienza, non era un horror, e di sicuro, con le sue ballerine che escono dal termosifone e teste che diventano gomme da cancellare, era roba per pochi, anzi pochissimi: ancora nel 1982, il suo distributore (Ben Barenholtz) ne aveva appena trentadue copie in circolazione.
Poi la benedizione entusiasta di Stanley Kubrick, il frenetico passa parola, forse lo stesso choc per il “mai visto” che cominciava a farsi vedere, per l’invisibile che si mostrava in tutto il suo mistero, seppero far miracoli, rendendo quel film a basso budget (diventato in Italia La mente che cancella) un “caso” a tutti gli effetti e il suo regista una nuova realtà sui generis del firmamento cinematografico. O meglio, artistico. Lynch aveva trent’anni. Veniva da lontano, dal Montana, aveva vissuto in Virginia e Idaho e soprattutto studiato, immaginato e dipinto a Filadelfia, alla famosa Accademia dagli inconfondibili “lineamenti” creati da Frank Furness, l’architetto ottocentesco più western della costa orientale degli Stati Uniti.
Come il minuscolo protagonista del suo primo spiazzante lungometraggio, Lynch era l’indefinibile creatura che appena nata gettava scompiglio in chi lo ascoltasse, prima ancora che in chi lo vedesse. Ma era anche allo stesso tempo il suo genitore, Henry Spencer, che solo nella fuga dalla realtà, in mondi altri può trovare (forse) salvezza.
“Quando vai a vedere un giallo e alla fine si risolve tutto – diceva lui – per me è una delusione bella e buona. In un giallo, a metà del film è tutto ancora in sospeso, e da lì puoi esplorare un’infinità di conclusioni. Ti si offrono tante possibilità. E per me è proprio una bella sensazione… In Eraserhead ci sono un sacco di scenari aperti, ed è tutto… è come se ci fossero delle regole che rispetti per mantenere quel senso di apertura che, secondo me, è davvero importante per il film. È più come una poesia, qualcosa di più astratto, anche se c’è una trama. È come un’esperienza”.
Il saggio dei saggi Montaigne sosteneva che per vivere bisogna far finta che le cose abbiano un senso. Il visionario dei visionari, Lynch, ci ha fatto capire che per “vedere” (cioè per sentire) bisogna guardare le cose oltre ciò che si vede. Il che significa essere trasportati dentro gli abissi della mente. La sua conterranea Emily Dickinson in cuor suo lo aveva già scoperto: “Se potessimo vedere tutto quello che speriamo di vedere, se potessimo stare ad ascoltare senza paura tutto quello di cui abbiamo paura, come se fosse una fiaba qualunque, la pazzia ci sarebbe vicina”.
Nessuno come David Lynch, diventato presto un regista di mostri di diversa misura, ci ha fatto sentire quanto la pazzia possa esserci vicina, nessuno come lui è riuscito a dimostrare come arte e cinema possano diventare una cosa sola, a costo di produrre film letteralmente incomprensibili. Il che è solo la più naturale, la più banale delle conseguenze. Perché contraddittoria è la vita stessa, ed essendo l’arte l’attività umana più intimamente vitale, anch’essa deve esserlo. L’immaginazione precede e fonda la ragione, e la capacità d’immaginazione costituisce la base del carattere umano.
Nessuno stupore dunque se Elephant Man (il secondo film, la storia di un uomo dal volto deformato da una proboscide, forse il suo film narrativamente più lineare) sia tutt’ora anche quello di maggiori incassi; nessuno stupore se nessun suo film ha mai vinto un Oscar (uno solo alla carriera, ma si sa che, come diceva Baudrillard, le celebrazioni sanno sempre di pentimento), nessuno stupore se il suo essere artista facesse uscire dai gangheri diversi critici, prigionieri non si sa se più del benpensantismo o dello “specifico filmico” (qualcuno ricorderà nel 1990 le reazioni a Cannes per Cuore selvaggio). E nessuno stupore, nemmeno, se sia diventato a cavallo di millennio tra i registi più amati dai più giovani appassionati di cinema e tra i più imitati da tanti registi.
Con Twin Peaks infatti Lynch è diventato anche un regista “di moda”, facendo dell’aggettivo “lynchano” un sinonimo di anomalo, di anormale, di eccentrico. Ma molto prima è stato un artista vero, un creatore di visioni estreme in senso letterale, legato cioè alle avanguardie storiche e in particolare newyorkesi, che di quelle francesi e tedesche degli anni Venti e Trenta avevano fatto tesoro, laddove l’immagine dava perfettamente forma al concetto. Andate a rivedervi le cose di Maya Deren, per esempio, e ditemi se non ci sono già in nuce tutte le inquietudini lynchane (con lei, scomparsa troppo giovane, nel 1943 lavorò anche Duchamp per l’incompiuto Witch’s Cradle).
Ma Lynch è stato, soprattutto, un insuperabile maestro di atmosfere. Perché la cosa più importante per lui non era quello che succedeva, il fatto in sé, l’azione, lo snodo narrativo, il classico “colpo di scena”. La trama, la storia, i comportamenti dei singoli personaggi, il racconto in sé e per sé, tutto ciò che insomma viene oggi inseguito in nome della comprensibilità, o forse meglio della digeribilità, contavano poco o nulla. Ciò che gli interessava sempre erano gli stati d’animo, le frizioni di senso, la musicalità delle immagini, gli stati di tensione, di paura che queste dovevano suscitare, squarciando l’ordine corrente delle cose e delle situazioni. In questo senso era un artista che faceva il film, è l’arte se è vera arte è ciò che è, non ciò che significa. Un quadro era come un film. Una bocca insanguinata, un orecchio mozzato su un prato, un’automobile lanciata a velocità impazzita diventavano tessere di un mosaico astratto, tracce in un labirinto senza uscita. Quello del nostro inconscio.
Come nei quadri di Edward Hopper, ciò che ha caratterizzato sempre i suoi film è l’attesa, l’atmosfera gonfia di mistero per quel qualcosa -magari di terribile- che stava per succeder ai suoi personaggi. Per questo se a qualcosa, a una qualche dimensione visiva il suo cinema è avvicinabile, è al noir, non a caso pseudo-genere in quanto regno per eccellenza dell’atmosfera, dell’espansione di senso. Per questo tanta maniacale attenzione al suono, alla musica (lui stesso componeva, ma decisiva la collaborazione con Angelo Badalamenti), per questo nei quadri che non ha mai smesso di dipingere (e di esporre in tante gallerie) spiccavano sempre alcuni punti oscuri, quasi fossero minuscole vie d’ingresso per l’indefinito.
Ma dentro l’attesa, dentro le atmosfere, dentro i piccoli orrori, i grandi enigmi e i tanti doppi da lui creati (al punto da chiamare due attori diversi per intrepretare lo stesso personaggio come in Strade perdute, insieme a Velluto blu e Mulholland Drive il suo miglior risultato, almeno per chi scrive) c’era sempre spazio per qualcosa di fiabesco, di lirico, come nello struggente Una storia vera, che un po’ come L’età dell’innocenza sta a Scorsese, solo ad occhi distratti può sembrare un detour, un diversivo in territori per dir così meno accidentati. In realtà la storia del contadino dell’Iowa che a 73 anni piglia e si fa più di 500 chilometri col suo trattorino rasaerba per andare a trovare il fratello colpito da infarto è, come dice il titolo stesso, storia vera. Storia di vita cioè. E come aveva scritto Nietzsche, proprio per questo l’arte è più potente della conoscenza, perché “vuole la vita”…