Negli Usa, paese che anticipa – se non direttamente produce – tutte le contraddizioni che viviamo qui alle nostre latitudini, sta prendendo slancio un trend impensabile fino a qualche decennio fa. La gente sembra voler tornare in ufficio. Sempre più lavoratori in America si dicono disposti ad accettare di buon grado una vita d’ufficio, a preferire le sicurezze che essa offre rispetto agli svantaggi e le incertezze della Gig Economy. Pare che di conseguenza si stia sviluppando una nostalgia del 9-to-5 (le famose “8 ore”), degli orari prestabiliti, del tragitto pendolare, delle pause con i colleghi; persino, e ciò stupisce davvero, del cubical, del piccolo compartimento di cartongesso simbolo dell’alienazione del lavoro d’ufficio nelle grandi aziende. Il prodotto più interessante di questa moda esistenziale è questo tipo qui:
Tutto ciò ha che fare con le dinamiche che hanno stravolto il contesto lavorativo negli ultimi 10 anni, il grande esproprio padronale del tempo e dello spazio, a cui ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, vuoi come lavoratori vuoi come consumatori, ha dato il proprio contributo. Dopo due secoli di lotte sindacali, nel giro di una sola generazione, la precarietà è diventata, da condizione pietosa di indigenza che era, ciò che invece è oggi, un lusso, un vantaggio, un benefit aziendale. Il grado di sofisticazione raggiunto dalla macchina lavorativa capitalista ci ha spinto al punto che oggi vantiamo come un privilegio la condizione di essere del tutto estraniati dal nostro ambiente lavorativo, dalla nostra comunità di riferimento, dall’abitudine dei luoghi e dalla familiarità degli ambienti. Scegliamo di firmare un contratto lavorativo, anzi, sulla base di quanto favorisca o meno la possibilità di coltivare la nostra solitudine e il nostro isolamento, di andare incontro a quelle che percepiamo come le nostre esigenze individuali, e che spesso possono essere inquadrate soltanto come sfoghi edonistici ed effimeri per compensare una frustrazione perennemente irrisolta. L’orizzonte limitato delle nostre possibilità immaginative sembra non riesca a concepire nulla di più desiderabile dell’attitudine post-storica di una vita in vacanza.
L’esproprio di cui siamo stati sia vittime che carnefici si è consumato nel passaggio dalla società industriale a quella tecnologica. La prima era alimentata dal capitale industriale, il quale, nella sua grezza materialità, doveva necessariamente fare i conti con ciò che di materiale c’è anche nell’umanità, e quindi con l’esistenza dei corpi, con tutte le conseguenze che può generare la pretesa di gestirli a profitto. Il lavoro industriale non poteva fare a meno, perciò, di generare degli imprevedibili effetti collaterali. Ogniqualvolta si è inteso riunire un insieme di esseri umani per produrre una merce che non appartenesse loro, per quanto questo insieme fosse meccanicizzato e atomizzato per aumentare la produttività, non c’è mai stato modo di evitare che quest’unione generasse, come prodotti di scarto, delle risacche di improduttività. A partire dalla giustapposizione dei corpi in una fabbrica, inevitabile presupposto del lavoro industriale, i lavoratori hanno sempre finito, quasi involontariamente, per trasformare la loro semplice vicinanza spaziale in solidarietà, la convergenza dei loro interessi in amicizia. Tutto ciò ha sempre ostacolato la produttività, da un lato rallentandone il processo, dall’altro generando un potenziale fronte unico e comune che poteva avvalersi della forza di ciascuno per tutelare i diritti del singolo. Il semplice fatto di dover vivere insieme, di lavorare fianco a fianco, di abitare in unico quartiere, di fare lo stesso tragitto casa-lavoro, di mandare i figli alla medesima scuola e frequentare gli stessi dopolavori, ha costituito, fin dalle origini della civiltà industriale, il più pericoloso e ingestibile prodotto di scarto della proletarizzazione e del classismo sociale.
Il passaggio alla società tecnologica, alimentata quindi dal capitale tecnologico, delocalizzandosi universalmente, traslocandosi nell’etere, ha smantellato i presupposti stessi di qualsiasi solidarietà sindacale, trasformando il lavoro, da attività multiforme e necessariamente integrata nella vita, allo svolgimento impersonale di un compito, di una task. Non stupisce affatto il tentativo da parte del capitale di disarticolare l’intreccio di vita e lavoro, essendo esso un’inestinguibile sorgente di improduttività. Ciò che colpisce veramente è la disposizione dei lavoratori ad accogliere l’esproprio nei loro confronti nei termini di un premio di lavoro.
Lo smart-working – ovvero la mediazione di uno strumento tecnologico che permette di lavorare ovunque si preferisce, impedendo di abitare realmente il luogo in cui si finisce per vivere – è riuscito a compiere ciò che la parcellizzazione fordista non avrebbe mai potuto neanche sognare, la totale efficienza lavorativa che esclude per principio gli effetti collaterali dell’unione dei corpi e della convivenza, che impedisce la naturale tendenza umana a socializzare improduttivamente, riducendo l’interazione tra colleghi al semplice compiersi di una funzione. Nel modo più efficiente possibile. Una video-conferenza s’interrompe una volta che si è esaurito l’argomento del giorno. Un rider va per la sua strada non appena ha consegnato il pacco di cui non conosce nemmeno il contenuto. Colleghi che popolano nomadicamente gli angoli più disparati del pianeta, ma lavorano connessi alla medesima piattaforma, non hanno alcun incentivo a condividere un’intimità che prescinda dai loro obiettivi settimanali di lavoro.
E se questo pare in qualche modo un vantaggio della civiltà digitale, basterebbe porre l’attenzione sulla precarietà lavorativa ed esistenziale che una tale condizione prescrive. Chi mai, tra di noi, sentirebbe l’esigenza di sviluppare ulteriormente un rapporto che si consuma bidimensionalmente, sempre intorno a un compito da svolgere, supervisionati e disposti da un algoritmo intorno a un tavolo di lavoro virtuale? Chi mai sciopererebbe per tutelare uno o più colleghi, ingiustamente licenziati, se li ha conosciuti solo su Zoom? L’amicizia, la solidarietà, la comunità non possono nascere da una convenienza di interessi o dalla collaborazione nel compimento di un’opera; esse sorgono negli interstizi dell’efficienza, nei momenti morti, nel prender fiato, nella pausa, nel gioco, nelle ricreazioni, quando non si è uniti da alcuna finalità, ma precisamente dall’assenza di qualsiasi scopo.
Vale la pena surfarsi i propri 30 anni – sventrando con un immeritato turismo piccoli paeselli di pescatori che hanno avuto la sfortuna di essere stati “scoperti” da qualche australiano in cerca delle onde giuste – e rinunciare a tutto ciò che ha reso quantomeno tollerabile la vita negli ultimi due secoli? Dobbiamo davvero ridurci a nostalgizzare la vita d’ufficio, l’alienazione anni ’90 alla Matrix o alla Fight Club, incapaci di pensare un’alternativa agli agi illusori che offre il nomadismo digitale, alla performatività sportiva o alla bulimia turistica, l’una più fine a sé stessa dell’altra? Non dovremmo invece trovare il modo di politicizzare la nostra improduttività, rivendicarla come indicatore della qualità della vita, farle prendere spazio all’interno delle città, come l’erbaccia, soave e inutile, che guadagna le mura agli edifici abbandonati?