Se raccontassi uno sguardo e fosse comune a tutti?
Lucy sulla cultura pubblica un articolo sul perché l’estate non ci piace più; VDnews pubblica un video che racconta di un app che aiuta a sprecare e consumare meno in casa; Collater.al ci parla di arredo pubblico, in questo caso a Seul; Rivistastudio comunica che in Francia c’è una polvere che si sniffa come cocaina, ma non lo è, qualche giorno prima comunicava che anche al mare è impossibile staccare la spina e dieci libri insoliti per l’estate; IlNemico parla del tradimento per i poliamorosi decretando come anacronistiche le relazioni monogame; Will pubblica un post sul giornalismo, non è morto, dice, ma è cambiato; Kabul Magazine tira fuori il termine “Escapismi” per il loro prossimo numero, ovvero metodi di evasione dalla realtà; Deerwaves ci fa una bella carrellata di dischi belli usciti oggi e di concerti “fighi” di agosto; DLSO ci consiglia qualche brano da aggiungere alle nostre playlist; Zero.eu ci dice dove fare un bagno vicino Milano e ci consiglia gli ultimi eventi rigorosamente ed esclusivamente nelle principali città italiane; CronacheRibelli racconta l’ennesima storia di resistenza e valore; Inactual Magazine si chiede se siamo mai stati postumani; TheWom conferma che le persone che soffrono di disturbi alimentari non ricercano attenzioni.
L’editoria vetusta porta dei fatti: LaRepubblica ci dice che stanno morendo molti pesci per il troppo caldo, il Corriere condivide con noi l’ultima bislacca idea di Paolo Crepet e di cosa è morta la Regina Elisabetta; Internazionale ragiona su come sconfiggere Donald Trump; IlPost cita una frase ambigua di Trump; Il NYT pubblica una dubbia lista dei cento romanzi più importati del ventunesimo secolo; TheVision ci dice che il 21 Luglio 2024 è stato il giorno più caldo mai registrato sulla terra dal 1940, è solo l’inizio, dice; Leggiscomodo comunica che l’autonomia differenziata si può ancora fermare. Artuu Magazine ci racconta che l’artista Abraham Poincheval si è chiuso da dieci giorni in una bottiglia che galeggia su un canale parigino per riflettere sul concetto di privacy nella società contemporanea. Pericoloso pensare che in un’epoca ipermediata, immersa negli abissi, si rifletta sul concetto di privacy dentro una bottiglia e non dentro le fitte reti del digitale.
Le istituzioni continuano incessamente la loro attività: Phmuseum pubblica una recensione del libro fotografico di Julian Slagman; Sali e Tabacchi journal ci invita a scoprire presso i loro canali la storia nascosta del Mitreo di santa Maria Capua Vetere a Caserta, uno dei templi mitraici più importanti al mondo; Careof pubblica un’open call in collaborazione con filmmaker, mufoco, skyarte, zero.eu, sembra imperdibile per chi vuole produrre immagini in movimento; Nero Edition posta una open call su stregoneria e barbarie, sul futurismo gotico e sul nuovo medioevo; Istituzioneredditouniversale pubblica la solita frase sul perché è necessaria l’istituzione di un reddito universale; Realismo Capitalista ricondivide quel post; Nssmagazine si chiede e ci racconta dove sono finiti i set delle campagna di moda; La pagina instagram della Treccani spiega il termine intònaco citando la canzone 2minuti di Calcutta, seguendo un target di riferimento ben preciso; Bombadischi commenta il post con l’emoticon di una bomba.
La mail pullula di newsletter: Tempolinea ci parla del cesarismo trumpiano; Medusa di Matteo De Giuli ci parla di gotico metafisico; Spazio Labò parla di fotografia; Preferirei di No di Gog sogna una sinistra senza intellettuali.
L’ultimo numero di Domino, la notte dell’occidente dice che siamo fragili, anziani e vicini al collasso.
Non abbiamo le energie per tutto questo, andiamo nel nostro feed dove uno psicologo racconta che se sei stitico dal punto di vista psicologico ci sono tre cause, una di queste è la paura dell’abbandono che causa un complesso anale trattenuto. Troviamo la storia del cardinale Mezzofanti. Osserviamo alcune persone che filmano un operatore di un pub che mette tanta nutella su una torta e sbriciola una merendina industriale da riporre sopra la nutella adagiata sopra la torta; anche l’operatore si riprende per poi postare il video e qualcuno lo riprende da dietro come se stesse realizzando un gesto di divina capacità. Una influencer d’arte commenta un’opera kitsch portando avanti argomentazione dubbie e lacunose.
Gli artisti promuovono le loro nuove opere, gli scrittori la loro prossima uscita, gli impiegati i loro quattro giorni di vacanza al mare. A noi spettatori nulla ci tocca o ci colpisce.
Finalmente il feed ci ha mandato in uggia, non possiamo sprecare le nostre giornate così. Per un attimo pensiamo di riprendere quel libro che abbiamo lasciato a metà, lo apriamo, lo sfogliamo e lo riponiamo. Non vediamo l’ora che su Disney+ esca Inside Out II, ora c’è un nuovo personaggio: l’ansia; “Sicuramente parla di noi”.
Se raccontassi delle opere d’arte e le conoscessero tutti?
Byung-Chul Han, il filosofo contemporaneo che è riuscito nell’impresa di spalmare una sola idea in quindici libri diversi parla di “infocrazia”; gli esperti di comunicazione dicono che siamo iperstimolati. Nick Bilton nel 2009 scriveva sul NYT: La dieta americana: 34 gigabyte al giorno, un rapporto pubblicato all’Università della California, San Diego, calcola che le famiglie americane hanno consumato collettivamente 3,6 zettabyte di informazioni nel 2008. Il documento, intitolato Quante informazioni?, esplora tutte le forme di comunicazione e consumo americane. L’americano medio consuma 34 gigabyte di contenuti e 100.000 parole di informazioni in un solo giorno. (Guerra e pace di Tolstoj è lungo solo 460.000 parole). Questo ragionamento è riportato sul testo di Kenneth Goldsmith CTRL+C, CTRL+V – Scrittura non creativa e riassumendo arbitrariamente e parzialmente le sue tesi possiamo dire che di fronte all’enorme quantità di stimoli, lo scrittore e l’artista non sono creatori o ideatori, ma mediatori. In arte lo aveva già intuito Duchamp.
Una delle più belle opere d’arte contemporanea è di Erik Kessels. 24 ORE IN FOTO, scriveva a tal riguardo ormai molti anni fa:
«Al giorno d’oggi siamo esposti a un sovraccarico di immagini. Questa sovrabbondanza è in gran parte il risultato di siti di condivisione di immagini come Flickr, siti di networking come Facebook e Instagram e motori di ricerca basati sulle immagini. Il loro contatto mescola il pubblico e il privato, con il molto personale che viene mostrato apertamente. Stampando 350.000 immagini, caricate in un periodo di ventiquattro ore, la sensazione di annegare nelle rappresentazioni delle esperienze di altre persone viene visualizzata all’interno di uno spazio fisico.»
Le immagini che visualizziamo sono tantissime, le parole forse ancora di più. I temi sono infiniti e contradditori. Noi leggiamo solo i titoli e gli slogan.
I surrealisti sognavano un’arte nata da un’automatismo psichico. Un’arte nata dalle nostre viscere in uno stato d’incoscienza. Tutto ciò che viene pubblicato sui social e su internet pare proprio avvicinarsi a quella forma di arte (e di rivolta, di pensiero, di cambiamento) auspicata dai Surrealisti e che il mondo corporeo della realtà è incapace di produrre. La realtà appare noiosa perché stata sconfitta dalla sua rappresentazione. Le rappresentazioni non ci scalfiscono, ci annoiano, per il loro sovraccarico. Eppure, nella potenza icastica della rappresentazione, in questo automatismo psichico di massa che ogni giorno tira fuori dalle proprie viscere milioni di immagini e di video potrebbe risiedere il seme di un cambiamento.
Nei social vengono costantemente riprodotte delle perfomance che animarono l’arte contemporanea nella seconda metà del Novecento; in maniera, però, appunto, inconscia. La produzione di immagini non è più un compito riservato agli addetti ai lavori, ma a tutti. È la moltitudine a plasmare la realtà attraverso la rappresentazione.
Questa tesi venne già portata avanti in Italia da Valentina Tanni nel suo libro Memestetica:
«se nel mondo post-readymade – che è quello che abitiamo da oltre un secolo – chiunque si trova nella posizione di poter produrre oggetti e situazioni inscrivibili in un contesto artistico, nel mondo post-internet lo scenario si fa ancora più radicale: sia perché i mezzi di produzione sono sempre più diffusi, sia perché i contenuti, oggetto di riuso e reinterpretazione, si sono fatti sempre più abbondanti. L’accesso ai sistemi di distribuzione offre inoltre la possibilità di aggirare gli intermediari istituzionali e di muoversi in proprio anche durante le fasi di pubblicazione, esposizione e promozione.»
In questo testo l’autrice, tra altre argomentazione, cita una serie di artisti che sfruttando questi meccanismi producono la loro arte. Vorremmo proporre, invece, una tesi più radicale: non abbiamo bisogno di questi artisti, ciò che il mondo al di là della realtà riesce a produrre da sé è già sufficiente. Ciò che viene creato sui social dalle masse incoscienti è più potente di qualsiasi produzione di qualsivoglia artista. Riprendendo l’idea di Benjamin secondo la quale ogni nuovo medium realizza i sogni delle generazioni precedenti, assegnando all’arte il compito di «generare esigenze che non è in grado di soddisfare attualmente», delineiamo l’attuale panorama artistico: «[..] se prendi alcuni degli strumenti concettuali inventati da Marcel Duchamp o da Joseph Beuys o dai primi concettualisti, scopri che oggi sono diventati banale routine quotidiana a ogni email che mandi […]. Ottant’anni fa una simile azione sarebbe stata il più innovativo gesto artistico mai immaginato, comprensibile tuttalpiù da Duchamp e dai suoi migliori amici».
Semiotics of the Kitchen è un’opera video-perfomativa dell’artista Martha Rosler pubblicata nel 1975. Il video, della durata di sei minuti, è una critica alla mercificazione del ruolo delle donne nella società moderna. Rosler nei panni di una conduttrice di un programma di cucina generico presenta una serie di utensili da cucina, molti dei quali obsoleti o strani. Dopo averli identificati, dimostra gli usi improduttivi e talvolta violenti di ciascuno. Se oggi vedessimo questo video sui social, senza conoscerlo, penseremmo all’ennesimo influencer folle che cerca la sua porzione di mercato. Tutti noi abbiamo visto video simili: persone che cucinano nude, cuochi che cucinano pasti microscopici. Il no-sense di Martha Rosler viene inconsciamente riprodotto ogni giorno.
Sempre durante gli anni Settanta l’artista McCarthy iniziò a integrare il cibo nel suo lavoro. Per l’opera Hot Dog, del 1974, utilizzò ketchup, senape, hot dog e il suo stesso corpo. McCarthy iniziò la performance spogliandosi e radendosi il corpo. Dopodiché, infilò il suo pene in un panino per hot dog, che fissò con del nastro adesivo. Poi si mise della senape sul sedere, bevve del ketchup e si infilò dei veri hot dog in bocca. Si nastrò la bocca imbottita, il che lo portò quasi a vomitare. Ogni tanto su instagram o TikTok compaiono dei video di persone che bevono litri e litri di Coca-Cola o altre sostanze utilizzando un capello del loro corpo, cercando di non vomitare. Oppure fanno delle gare su chi riesce a ingozzarsi con più foga cercando di rimanere impassibili. Sembra paradossale ma tra queste due perfomance possiamo trovare svariate similitudini e un’unica differenza: una è stata definita dal suo autore un “Opera d’arte”, le altre no.
Joseph Beuys in I like America and America likes me cerca di stringere un rapporto affettivo e di reciproca comprensione con un Coyote e passa le giornate con lui. In maniera simile, ogni giorno, sui social, migliaia di influencer stringono rapporti fraterni con gli animali più assurdi presenti in questo pianeta. Non ci sono le implicazioni storiche e culturali di Joseph Beuys, è chiaro, ma per un occhio attento i confini non sono così impermeabili.
L’arte ha perso il suo potenziale sovversivo perché esso viene quotidianamente riprodotto ed esacerbato dalle viscere di internet che riesce a generare immagini più ardimentose di qualsiasi nuovo artista presentato dall’ultima galleria alto-borghese. Il sistema dell’arte contemporanea lo ha capito, sa che l’inaugurazione di una mostra è un evento che ormai non sorprende più nessuno: quelle opere sono state già presentate in anteprima dall’artista sui suoi canali di comunicazione perdendo la loro “Aura”. L’arte reagisce adagiandosi sulla pubblicità, veicola messaggi di pace, ci chiede di sprecare meno.
Le istituzioni artistiche vengono sempre più spesso gestite da multinazionali come specchietto pubblicitario: presso l’Hangar Bicocca si è recentemente tenuta la personale di Nari Ward (St. Andrew, Giamaica, 1963), un artista di fama internazionale noto per le sue installazioni realizzate con materiali familiari e quotidiani. La mostra è un percorso moralistico sull’inquinamento dei mari prodotto dalle azioni degli esseri umani. Ha lo stesso valore di una pubblicità Rio Mare che ci assicura una pesca sostenibile. A fine mostra un’operatrice apre una lattina (uguale a quelle del tonno Rio Mare) con dentro uno specchio e ci chiede di sorridere così da poterla chiudere incastonando nell’eternità il sorriso. Se non sorridi la scatoletta non viene chiusa, così come i registi delle pubblicità Rio Mare non chiudono la scena finché gli attori non sorridono mentre mangiano del tonno sostenibile.
Lungi da una critica moralistica è bene limitarsi a sottolineare che Pirelli HangarBicocca è una fondazione no profit dedicata alla produzione e alla promozione dell’arte contemporanea, voluta e sostenuta da Pirelli, una multinazionale che produce, riassumendo, plastica.
L’arte, svuotata dalle sue implicazioni storiche e culturali, diviene sponsor per le aziende e per il capitale.
Proprio nel momento storico in cui l’arte viene maggiormente glorificata e diffusa e i grandi musei diventano mete turistiche a tutti gli effetti, proprio nell’epoca in cui gli artisti sono trattati come celebrity e la creatività viene elevata a valore universale, la capacità dell’arte contemporanea di incidere sull’immaginario collettivo si sta lentamente azzerando. E così, lo stesso sistema che continua a dichiararsi costantemente impegnato in una missione di educazione e coinvolgimento del pubblico (a sua volta invitato a interagire seguendo però protocolli preordinati), erige barriere ed escogita espedienti per «proteggere» – anche legalmente – le opere d’arte dalla contaminazione con il mondo esterno.
Agli albori di Internet i sociologi affermavano che questa tecnologia avrebbe democratizzato l’arte, l’istruzione e la cultura creando un mondo migliore dove emanciparsi sarebbe stato facile. In realtà non è accaduto, e possiamo affermare che l’obiettivo della democratizzazione della cultura è uno dei più grandi fallimenti del nostro tempo. Eppure negli abissi profondi di questo mare risiede lo stesso potere che animò l’arte contemporanea dagli anni 50’ fino agli 80’, il potere di lottare contro la vita che abbiamo accettato ormai impotenti e stremati, l’unico in grado di trasformare la sterile iper-stimolazione dei sensi in una forza sovversiva. È necessario, però, trovare degli agenti che sappiano controllare quella forza.
Partendo da queste premesse vorremmo provare a pensare un’alternativa. Fine parte 1/2.