Questo testo-saggio va letto come un’insieme di favole. Al posto dell’Abete e del Rovo troveremo uno spazio nel quale si racconta della Realtà e della Rappresentazione che litigano tra loro. La Realtà si vanta di essere più tangibile e concreta. La Rappresentazione però dice che alla Realtà piacerebbe essere rappresentazione per non essere abbattuta dall’Immagine. […]

Questo testo-saggio va letto come un’insieme di favole. Al posto dell’Abete e del Rovo troveremo uno spazio nel quale si racconta della Realtà e della Rappresentazione che litigano tra loro. La Realtà si vanta di essere più tangibile e concreta. La Rappresentazione però dice che alla Realtà piacerebbe essere rappresentazione per non essere abbattuta dall’Immagine. Al posto de Il leone e l’asino che andavano a caccia insieme leggeremo di Tecnologia e Magia e la loro comunione d’intenti. Ci chiederemo “chi ha violato il godimento?” e parleremo di papà Capitalismo che mangia i suoi stessi figli.

Il perno di queste favole sono gli Iperdispositivi. Quando il filosofo Foucault cercava di dare un nome a un insieme di discorsi, istituzioni, regole, atti, gesti e alla rete che si stabilisce tra questi elementi trovò come calzante il termine Dispositivo: “Il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere. […] Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati”.

Il dispositivo, in maniera paradossale e a dispetto della sua stessa natura filosofica, è stato negli anni controllato e contenuto all’interno di alcuni oggetti. Questi oggetti, gli Iperdispositivi, sono la magia, il godimento, l’immagine e la burocrazia. A intrattenere una relazione con essi è la tecnologia che accompagna l’Occidente da quando Adamo ed Eva aprirono gli occhi e entrambi si accorsero che erano nudi e cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture. Ovvero una metafora di quando l’individuo si accorse della sua immagine e della possibilità di lavorare un oggetto e farne una tecnologica cintura.

Gli iperdispositivi sono, riassumendo, oggetti capaci di trattenere quell’insieme eterogeneo di strutture e reti e di potenziarlo, controllarlo, orientarlo.

Questa è una prefazione alle generalizzazioni dei quattro testi che verranno (uno per ogni iperdispositivo). A differenza delle favole non provate a trarne una morale, semplicemente non esiste.

L’apparecchio fotografico si rivelerà l’avo di tutti quegli apparecchi che si apprestano a robotizzare tutti gli aspetti della nostra vita, dal gesto più esteriore fino all’aspetto più intimo del pensare, del sentire e del volere.

Per una filosofia della fotografia, Vilem Flusser

Il corpo è un invenzione della vostra generazione, Lison. Almeno per l’uso che se ne fa e per lo spettacolo che ne viene dato. Ma, sui rapporti che la mente stabilisce con esso in quanto scatola delle sorprese e distributore di deiezioni, oggi il silenzio è altrettanto fitto che ai miei tempi. A ben guardare, non c’è nessuno di più pudico degli attori porno più smutandati o degli artisti di body art più scarificati. Quanto ai medici è molto semplice: oggi il corpo non lo toccano più. A loro importa soltanto il puzzle cellulare, il corpo radiografato, ecografato, tomografato, analizzato, il corpo biologico, genetico, molecolare, la fabbrica di anticorpi. Vuoi che ti dica una cosa? Più lo si analizza, questo corpo moderno, più lo si esibisce, meno esso esiste. Annullato, in misura inversamente proporzionale alla sua esposizione.

Storia di un corpo, Daniel Pennac

Il nostro rapporto con l’immagine è la base portante di tutti i cambiamenti psicosociali e strutturali che abbiamo analizzato negli articoli precedenti. La tecnologia ci permette di plasmare a nostro piacimento la nostra immagine. Non a caso l’epoca contemporanea è caratterizzata da un costante processo di sparizione-manipolazione del corpo. Il nostro involucro di carne viene repulso e celato, mostrato senza inibizioni, ripudiato e amato, plasmato e distrutto. Il nostro rapporto con il corpo è esacerbato dalle possibilità offerte dalla tecnologia, che offre come principale attrazione proprio la possibilità di rappresentarsi. La tecnologia ci seduce perché ci permette di mettere in scena l’immagine che abbiamo di noi stessi. Di esperire un ruolo nuovo dentro lo specchio e di portarlo avanti all’infinito fino a non separare più l’uomo e la donna dalla nemesi della loro immagine spesso all’interno dei loro social network. Non a caso quelli che definiamo “creator” non fanno altro che trovare un insieme di segni, comportamenti e ruoli da interpretare dai quali non riescono più a separarsi. I loro gesti sono programmati dall’apparecchio fotografico, essi giocano con i simboli creando cose prive di valore. E ciònonostante ritengono che la loro attività sia tutt’altro che assurda. Queste pratiche non sono certo esclusivo appannaggio della contemporaneità, ma sono esasperate dalle recenti possibilità tecniche.

L’immagine funziona da perno che ci tiene ancorati al circolo vizioso dell’alienazione tecnocratica. Moniti come quelli di McLuhan e Debord sono stati confermati, le immagini circolano nella rete a velocità vertiginosa; hanno dismesso il ruolo passivo di illustrazioni e sono diventate attive, furiose, pericolose.
Uccidiamo e veniamo uccisi a causa di alcune immagini.
Il mondo si estetizza ed è pronto ad edulcorare visivamente la sua stessa distruzione.

Appare evidente che siamo soggetti a un’inflazione d’immagini. Questa inflazione non è solo l’appendice di una società ipertecnologica, ma anche il sintomo di una patologia culturale e politica, in seno alla quale irrompe il fenomeno post-fotografico. La post-fotografia fa riferimento alla fotografia che fluisce nello spazio ibrido della socialità digitale e che è conseguenza della sovrabbondanza visuale. Quel villaggio globale1 profetizzato da Marshall McLuhan s’inscrive nell’iconosfera, che oggi non è piú una mera astrazione allegorica: abitiamo l’immagine e l’immagine ci abita. Debord l’ha espresso con parole chiare: «là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini divengono degli esseri reali». Siamo immersi nel capitalismo delle immagini e i suoi eccessi, ciò ci pone di conseguenza di fronte alla sfida della loro gestione politica.

Questo risulta particolarmente evidente con la proliferazione dello sfruttamento dei bambini, dei malati, dei disabili, dei contesti familiari, lavorativi, relazionali, all’interno dei social network. Le persone e la loro attività, pubblica o privata che sia, si fanno immagine e diventano una sorta di Infero: non vivo, non morto, animato e prodotto dalla sua stessa rappresentazione.

L’onnipresenza di fotocamere, schermi e immagini cresce al ritmo di questa smania martellante del sempre di piú, finché l’abbondanza arriva a un tale eccesso da provocare un’esplosione. Questo capitalismo delle apparenze non nasce soltanto dalle possibilità offerte dai mezzi di comunicazione e del mercato; è esacerbato da una spinta politica, istituzionale, sociale, persino aziendale, di controllo, attraverso l’ubiquità delle telecamere di sorveglianza e dei sistemi di riconoscimento facciale, dei dispositivi satellitari e di altri strumenti automatizzati di cattura fotografica. Siamo diventati un ibrido, un’amalgama di carne, ossa e immagine.

In questa rappresentazione del sé, la volontà ludica e di esplorazione è preponderante rispetto alla memoria. Le immagini non sono ricordi da conservare ma messaggi da inviare e scambiare, puri gesti comunicativi la cui dimensione endemica è dovuta a un ampio spettro di motivazioni. Il messaggio, però, il più delle volte è vuoto. Le immagini non comunicano alcunché. L’obiettivo non è tanto veicolare un messaggio, quanto il desiderio fine a se stesso di aggiungere altra acqua nel mare, nella speranza che ciò confermi il fatto di esistere.

Uno spot televisivo che pubblicizzava il modello di una fotocamera digitale ha riassunto in sessanta secondi questo morboso rapporto con la rappresentazione fotografica. Ci troviamo su una spiaggia solitaria e una ragazza si avvicina passeggiando vicino alla riva. Improvvisamente scopre un cadavere trascinato dalle onde e incomincia a urlare spaventata. Tuttavia, prende la sua macchina fotografica e scatta una serie di fotografie usando il lampo del suo flash. Dopo qualche foto, prende delle alghe e le butta attorno al corpo, in modo che entrino nell’inquadratura. Senza smettere di fotografare, parla con qualcuno al suo telefono cellulare. Alla fine, si gira e si fa un selfie con l’annegato sullo sfondo. La pubblicità finisce con lo slogan: «Ci sono tante scene interessanti nella vita!».2

Non importa quanto tutto ciò sia macabro, irrispettoso, allestito: l’immagine ha adombrato il lato oscuro delle cose, edulcorando il nostro sguardo. Questo rapporto perverso tra immagine e morte è radicato nella cultura occidentale. Abbiamo sempre uno smartphone pronto a documentare la nascita, la vita e la morte. Un caso di cronaca recente dimostra questa tesi: un ragazzo attaccato da uno squalo, si filma mentre l’animale è in procinto di staccargli una gamba: «Pensavo di morire, volevo dirvi addio»3. Il video è stato ulteriormente spettacolarizzato poi dai media.

Ma la modernità introduce un cambiamento più sostanziale, poiché trasforma l’antiquato noema Barthesiano della fotografia come un “questo-è-stato”4 in un “io-ero-lì”. Non vogliamo tanto percepire il mondo quanto ricordarci che esistiamo: se l’immagine “ci pizzica” allora esistiamo. Niente di più falso. Nel racconto Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie5, Lewis Carroll fa attraversare lo specchio ad Alice, introducendola in un universo magico, ma ella non vuole riconoscersi allo specchio, non desidera per nulla che lo specchio le rimandi indietro la verità, quello che pretende è di fuggire nelle sue fantasie. Ecco allora che lo specchio (oggi lo schermo dello smartphone, del pc o della macchina fotografica) non può “pizzicarci”, perché non è culturalmente progettato per restituirci il nostro stare al mondo, quanto per permetterci di sognarne uno tutto nostro, privo di oggettività e alterità.

L’approccio all’immagine non è di esplorazione o scoperta, non siamo architetti che scoprono le meraviglie dell’architettura, non siamo botanici che vogliono rivelare le sublimi forme delle piante; si fotografa il Duomo di Milano come fosse un animale esotico allo zoo, si fotografa Il bacio di Hayez per appropriarci di un immaginario romantico. Trasformando la realtà in immagine crediamo di riuscire ad appropriarcene emotivamente e culturalmente. Rituale esaminato dal teorico Flusser:

Gli apparecchi sono stati inventati per funzionare automaticamente, ovvero in modo autonomo rispetto a futuri interventi umani. Questa è l’intenzione che li ha creati: disinserire l’uomo da essi. E questo intento ha avuto indubbiamente successo. Mentre l’uomo è sempre più spesso disinserito, i programmi degli apparecchi, questi testardi giochi di combinazioni, si arricchiscono sempre più di elementi; sono sempre più veloci nelle loro combinazioni, e superano la capacità dell’uomo di comprenderne le intenzioni e di controllarli. Chiunque abbia a che fare con apparecchi, ha a che fare con black box che non può comprendere. Per questo non si può nemmeno parlare di un proprietario degli apparecchi. […] Ogni intenzione umana è presa sulla base di decisioni dell’apparecchio; essa si è ridotta a decisione puramente funzionale, ovvero: l’intenzione umana si è volatilizzata. [..] L’uomo crea utensili prendendo se stesso a modello di questo atto di creazione – fino a quando la situazione non si inverte e l’uomo prende il suo utensile a modello per se stesso, il mondo e la società.

“Per una filosofia della fotografia”, Vilém Flusser

L’uso degli smartphone favorisce la scomparsa di un altro aspetto fondamentale. L’esplorazione della realtà non si fa con l’occhio addossato al mirino della macchina, ma si fa tenendo l’occhio tecnico con il braccio, distante da se stessi. La distanza fisica e simbolica che si frappone fra il soggetto e la fotocamera, cioè la perdita del contatto fisico tra l’occhio e il mirino, priva la macchina della sua condizione di protesi oculare e la realtà appare così una proiezione fuori dal corpo, distaccata dalla percezione diretta, in un’immagine già elaborata che occupa un piccolo schermo digitale. A strabordare è il meccanismo ottico che a differenza di quanto sostenuto dai maggiori teorici dei media del Novecento, non ha nessun inconscio, ma è ben sveglio e vigile sotto il potere di controllo delle grandi corporazioni aziendali.

Dall’altra parte, l’inquadratura che viene realizzata solitamente ha le caratteristiche dei video POV. Se il nostro occhio si allontana dalla macchina che diventa autonoma, la nostra posa si fa sempre più solipsistica. Lo sciabordio di meme, emoji, backroom, troll, fake world, challenge, nude e avatar nei flussi del Web, così come la proliferazione di oggetti e immagini di culto, stili vestimentari esorbitanti, consumi eccessivi, pratiche lussuose e comportamenti a rischio attorno a vecchi e nuovi feticci nell’ambito della vita quotidiana, rivelano una verità insorgente nel nostro tempo gravida di conseguenze: la tecnologia cessa di essere l’arte (tekne) del logos, lo strumento di ciò che Martin Heidegger definisce il pensiero calcolatore, per diventare tecnomagia, totem attorno al quale ognuno, attraverso le proprie reti, maschere e fantasie, sperimenta una sorta di estasi mistica che allo stesso tempo è pura danza – celebrazione del noi qui e ora – e fuga verso qualcosa più grande di sé.6

Ma le conseguenze non finiscono qui: è in atto una semplificazione del linguaggio, quindi del pensiero, senza precedenti. Non riusciamo a esprimere un concetto senza fare uso di un’immagine a supporto. Ancora più grave, spesso usiamo meme ed emoji come unico strumento per comunicare le nostre emozioni, uniformandole, annientandole. Il nostro dolore non è diverso dal dolore degli altri e tentare di renderlo in maniera articolata diventa troppo complesso, abbiamo la GIF di un pulcino triste che può tradurla per noi.

Lo racconta chiaramente Mark Fisher in Realismo Capitalista7:

Provate a chiedere agli studenti di leggere più di un paio di frasi e loro vi risponderanno che non ce la fanno: e ricordatevi che stiamo parlando di studenti con un’istruzione superiore. La recriminazione più comune, è che è noioso. Solo che l’oggetto della lamentela non è tanto il contenuto scritto dei materiali, quanto il banale atto di leggere. Non si tratta soltanto del tradizionale torpore adolescenziale, ma dell’inconciliabilità tra una giovane generazione post-alfabetizzata e «troppo connessa per riuscire a concentrarsi», e le logiche limitanti e concentrazionarie di un sistema disciplinare in decadenza. Essere «annoiati» significa semplicemente venire esiliati dallo stimolo e dall’eccitamento comunicativo.

La cultura visiva ha cambiato forma, si è separata dalla visione umana ed è diventata invisibile. La maggior parte delle immagini è creata per essere letta dalle macchine. Le immagini hanno cominciato a intervenire nella vita quotidiana e non sono più chiamate a rappresentare o mediare, ma a trasformare, operare, eseguire. Le immagini ci osservano e ci stuzzicano provocandoci dolore o piacere. Ciò che è davvero rivoluzionario nell’avvento delle immagini digitali è il fatto che esse sono essenzialmente leggibili dalle macchine: possono essere viste dagli umani solo in determinate circostanze e per brevi periodi di tempo. Una fotografia scattata su un telefono crea un file leggibile dalla macchina, ma non riflette la luce in una forma percepibile all’occhio umano. Un’applicazione secondaria come un software per la visualizzazione associato a uno schermo può creare qualcosa che l’occhio umano può osservare, ma l’immagine appare solo temporaneamente prima di trasformarsi di nuovo nella sua meccanica immateriale quando il telefono viene messo via e lo schermo è spento.8 Tuttavia l’immagine non ha bisogno di essere leggibile agli umani affinché una macchina possa utilizzarla. Il fatto che le immagini digitali siano essenzialmente leggibili dalle macchine, indipendentemente da un soggetto umano, ha immense implicazioni. Amplifica l’automazione della visione e consente un esercizio di potere senza precedenti su una scala che va dall’infinitesimo al planetario.

Allora il nocciolo della questione non è più tanto cosa fanno gli individui con l’immagine, ma cosa ne fanno le macchine delle immagini degli uomini e dell’immagine dell’uomo.

  1. Gli strumenti del comunicare, Marshall McLuhan, Il Saggiatore, 1967  ↩︎
  2. https://www.youtube.com/watch?v=8b3PWpYU8Ns. ↩︎
  3. https://parma.repubblica.it/cronaca/2023/12/11/news/parmigiano_di_20_anni_attaccato_da_uno_squalo_in_australia_cosi_sono_sopravvissuto_a_quel_mostro-421619957/ ↩︎
  4. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Roland Barthes, traduzione di R. Guidieri, Einaudi, 2003, pp. 130. ↩︎
  5. Le avventure d’Alice nel Paese delle meraviglie, Lewis Carroll, Prima edizione italiana 1872.  ↩︎
  6. Tecnomagia, Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale, Vincenzo Susca, Mimesis, Eterotopie, 2022. ↩︎
  7. Realismo Capitalista, Mark Fisher, Nero Edition, 2018 ↩︎
  8. AI & Conflicts. Volume 1, Paglen, Crawford & Joler, Pasquinelli, Brunton & Nissenbaum, Weizman, Iaconesi & Persico, Manovich, Crespo & McCormick. A cura di Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti, Krisis Publishing, 2021. ↩︎