L'ultima fatica di Paolo Sorrentino, “Parthenope”, segna l'ingresso ufficiale nella sua terza fase registica, quella dell'approssimazione artistica, del pecoreccio. Della pigra ripetizione dei propri stilemi, in cui incappano tutti gli artisti di successo, raggiunta la fase senile

La carriera di Paolo Sorrentino si divide precisa in tre atti. Il primo: la sua folgorante epifania agli studenti di cinema deportati tra Pigneto, San Lorenzo e Trastevere. Bisogna ammetterlo, la proiezione al Tibur di Le conseguenze dell’amore è stata fatale per una generazione, capitolata ai piedi del carrello diegetico ai Lali Puna e di una battuta che vale il romanzo di un’epoca: «Faccio uso di eroina una volta alla settimana da 24 anni, solo il mercoledì mattina e solo alla 10 in punto». Parve allora di trovare, nell’uggia del postmoderno, il lucore rado di una voce capace di precedere il significato della realtà. In altri termini, Sorrentino aveva appena sgravato un’impressionante folla di sprovveduti – la maggioranza degli iscritti a un corso di regia qualsiasi da Bressanone a Pachino – di un peso insostenibile: sono Aronofsky o Wong Kar-wai?

L’alternativa del cineasta vomerese avrebbe dovuto salvare il grande schermo da un’altra sceneggiatura di lui che lascia lei e impazzisce, o di lei che lascia lui e impazzisce, o di loro che si lasciano e impazziscono, in pratica dalle solide basi dell’intera produzione cinematografica di Paolo Virzì e Micaela Ramazzotti. Se adesso abbiamo una serie biografica su Rocco Siffredi, qualcosa non ha funzionato. Significa che Sorrentino spicca il volo dominando intellettualmente la fedele ottusità di una splendida classe di seguaci, cui deve per esempio il ripescaggio dall’oblio dell’artigianato esistenzialista di “L’Uomo in più”, e il sostegno al capolavoro nano “L’amico di famiglia”, autentico mezzo film mezzo ripudiato che, senza la sua ostinata nicchia di spettatori paganti, avrebbe probabilmente troncato di netto la spericolata ascesa ai fasti del “Divo”.

Per rigore filologico, il passaggio al secondo atto della carriera di Sorrentino si deve seguire lungo le progressive cessioni che hanno via via permesso, al Maradona dell’Arriflex, di isolarsi e cristallizzarsi nei pieni poteri della sua autorialità. Dal montatore Franchini, allo scenografo Fiorito, fino al divorzio dal direttore della fotografia Luca Bigazzi, Sorrentino recide il cordone ombelicale con la squadra di tecnici che lo ha svezzato e cresciuto, affrancandosi dal regime di paternità collettiva tipico dell’industria cinematografica. A Roma, c’erano riusciti solo Fellini e, nel suo piccolo, Moretti.

In realtà, con “Il Divo”, accade qualcosa di molto più interessante di un semplice turnover tra le prime linee della troupe, cioè un fatto letterario, perché è sempre la letteratura la scaturigine cieca dell’arte di Sorrentino. Quando comincia a girare “Il Divo”, Sorrentino ha già smesso di essere lo stellare erede dei Sommi che tutti si aspettano. Si avvia nel frattempo al modello ideologico e formale messo a punto nella “Grande Bellezza”, quello del paravento gigante che stende la sua ombra sulle rovine dell’ecosistema filmico italiano.

L’intuizione di Sorrentino davanti al capolavoro che ha appena finito di scrivere – “Il Divo”, appunto – è abbastanza facile da ricostruire. Con un atto conoscitivo di stampo prettamente politico, dunque andreottiano, Sorrentino comprende che, nell’estrema sintesi dell’economia, la posa del genio è molto più conveniente del genio stesso. Questo partendo da una premessa essenziale: ogni vera ricchezza matura sempre da una truffa colossale. Acquisita questa consapevolezza, Sorrentino cambia all’istante il suo paradigma di mercato. La raccolta di sponsor diventa la sola poetica possibile per il vero cinema d’autore. Una volta finanziato, un film di Sorrentino è anche finito. Davanti gli resta solo la sua galleria di cialtronate: dall’animazione dei fenicotteri in CGI al ”munaciello“ della stazione.

Come recita il Trashario labranchiano, fuso nello stampo del cialtronismo, uno stereotipo culturale diventa inconfutabile. Sorrentino non si tocca, perché qualsiasi detrazione a carico diventa il copione della sua prossima reclàm. L’alta cialtroneria si smonta da sola. Più che altro scolora, immalinconendo come una nuvoletta di fumo dopo una batteria di fuochi d’artificio.

Il terzo atto della carriera di Sorrentino sta tutto compresso in una generale perdita di tono. “La verità è indicibile” vuol dire che gli aforismi dadaisti del maschio alfa del cinema italiano iniziano a darci dentro col pecoreccio. L’urgenza di un’espressione appropriata cede il passo all’opportunità di una rappresentazione approssimativa. L’errore sarebbe adesso accreditare “Parthenope” come classico modello di filmetto plastico che si tiene a galla con l’illusione di non aver toccato il fondo, in mezzo al liquido dissolversi di un’ispirazione evaporata. In realtà, una volta ripresi dal colpo di sole, si realizza che va visto sott’acqua, tipo scena dell’“Atalante” di Jean Vigo. Nell’assoluto silenzio di una sensibilità ittica, tutto quello che si può chiedere a un grande scrittore prestato alla settima arte, è smettere di scrivere, e inaugurare una nuova spettacolare stagione di cinema muto. L’alternativa, lo sa anche Sorrentino, è dirigere Micaela Ramazzotti in un film di Paolo Virzì.