E se un pazzo scriteriato rapisse tutti i divulgatori più famosi del Belpaese?

Sono con Piergiorgio Odifreddi, al tavolino del bar: io un pomodoro e mozzarella, lui quattro spume, ordinate e bevute in contemporanea, con otto cannucce. D’altronde, se padroneggi la matematica. Recalcati, invece, è a parcheggiare il monopattino. Burioni – che sta fisso coi malati – per prudenza lo releghiamo al tavolo accanto, e lui incarognito ci taccia di germofobia, sussurra “apartheid”, inoltra link sull’aerosol che all’aperto si disperde, ma se ti attacchi tutte le volte con la bocca al pacchetto delle Tic Tac hai voglia a dispersioni, è bene che tu stia lì, e zittino. Comunque, un appuntamento irrinunciabile, il giovedì pomeriggio. Ci aggiorniamo, ci si confronta, leggiamo bufale e giochiamo a chi inorridisce meglio, gara persa in partenza perché Barbero imbattibile, dorso della mano sulla fronte e urletti iperbolici, “i barbari i barbari”, a volte vomita pure per finta. Che invidia. Oggi, però, è in ritardo. Strano.

“Che ti ordino?”, chiedo a Recalcati.

“Ordinare, comandare, pretendere: madonna, tonnellate di dittatura emotiva. Bisogna eradicarlo, questo lessico imperativo, spogliarsi del dogmatico e cercare l’autenticità del desiderio, rigettare i moralismi, spurgare le colpe dei padri. Ce l’hanno il Gruvi Mitico Croccantino?”.

“Chiedo”.

Mi giro per chiamare il cameriere. All’improvviso, uno stridio di freni e un portellone che si apre. “Eccoli eccoli”, poi rumore di passi, qualcuno mi afferra, scalcio, le sedie si ribaltano, una puntura all’altezza della giugulare, gambe e braccia s’intorpidiscono, Burioni che urla “no i capelli no vi prego la ricerca sul linfogranuloma rettale, ma i capelli no”, poi nebbia intracranica, torpore, sonno, mi spengo.

“Moretti ha raccontato che quando arrivava uno che voleva entrare nelle BR gli diceva: ‘sai cosa stai facendo, le statistiche sono quelle che sono: tra sei mesi se ti va bene sei in galera, se ti va male sei morto’”. Mi sveglia la voce di Barbero. Lo sento parlare, è qui vicino a me. Provo a muovermi, ma non ci riesco: legato mani e piedi. Apro gli occhi con difficoltà. Poca luce, labirintite. Mi guardo intorno. Una specie di capannone industriale. Siamo ammassati contro un muro: accanto a me, Barbero, appunto, e Odifreddi, ancora addormentato. Più in là, Umberto Galimberti, Recalcati che non si sa come è riuscito a portarsi dietro il Gruvi, Dario Bressanini, Paolo Crepet, altri due che non riconosco. “Paolo Mieli e Corrado Augias:‌ allora potevano invitare la Ferragni”, mormora schifato Odifreddi, svegliandosi. Non capisco. Tutti legati. Tutti qui. Burioni sparito. Ho paura.

Ronzio elettrico.

“Ben trovati, carissimi”.

È una voce, appena camuffata.

“Che piacere avervi qui”.

Seguono due minuti di terribile e a dire il vero inutile silenzio. Il Gruvi di Recalcati ormai è liquefatto. Galimberti piange. “Le lacrime”, prova a rincuorarlo Bressanini, “soluzione salina come poche in natura, se l’adoperi per ammorbidire le incrostazioni di besciamella sulle pirofile…”. “Signori, chiedo la vostra portentosa, cristallina attenzione”, riprende la voce. Inquietudine diffusa. “Dunque, vi starete chiedendo perché siete qui. È ovvio, no? Avanti, siete gente perspicace: che cosa vi accomuna?”. “Beh, non c’è dubbio che il cristianesimo”, Barbero, “sia una delle radici comuni della civiltà…”. Lampo e detonazione. È un attimo. Barbero sussulta. Lo guardo:‌ ansima, un buco all’altezza del cuore, colpito a freddo. I nostri sguardi si incrociano. “Alessandro…”, provo a dirgli. Mi zittisce col palmo della mano. “Della civiltà occidentale – dicevo – ma è un’illusione pensare…”. Ribalta la testa. Morto. L’atmosfera imbizzarrisce. Ci agitiamo, chiediamo aiuto, s’alza un vocìo terrorizzato, Odifreddi prova a sfruttare il parapiglia per sputare ad Augias ma l’effetto dell’anestetico che ci hanno dato ancora non è svanito e si bagna il colletto, qualche bestemmia, Bressanini strilla “mamma” e Recalcati, istantaneo, sigilla “ma poi, quale mamma? La mamma interiorizzata o la mamma incarnata? Ed è una madre che ha esaurito la sua femminilità o ha fatto del suo bambino il mondo?”. Nessuno gli risponde. Barbero è morto e noi pensiamo soltanto a impazzire. Altri due spari, stavolta per aria, e un’intimazione a calmarci. Torna il silenzio.

“Signori”, riprende la voce. “Non agitiamoci, per cortesia. Ve lo dico io, cosa vi accomuna. Voi, qui, siete gli alfieri di una nuova percezione del sapere, l’idea che la conoscenza possa essere veicolata, facilitata, espansa, resa accessibile. Tutti in piazza, sul podio di un festival, con le gambe accavallate a una fiera del libro, a registrare audiolibri: è il 2025, si torna alla trasmissione orale. Conferenze, podcast, dialoghi pubblici. Leggere è diventato ascoltare, conoscere è diventato sentito dire. Tronfi e goderecci, accecati da una popolarità che al liceo avreste potuto solo sognare, vi illudete di fare del bene, diffondete nozioni di massima e formulari stantii e non vi accorgete che è solo un gioco di rimpallo egocentrico, tra voi e i vostri pubblici zeppi di professoresse avvilite, vestite male, che vengono a vedervi per ristorarsi col pensiero che qualcuno – sulla Repubblica – venga chiamato ‘rockstar della fisica’. Tutto autocompiacimento. Siete davvero convinti di diffondere il sapere? Vediamo, se ci riuscite davvero”.

Di colpo, si accendono dei riflettori. Sulla parete accanto alla nostra, si apre un portone, da cui entrano cinquanta, forse sessanta ragazzini. Ci passano accanto e raggiungono il centro, dove c’è una specie di platea con, a un estremo, uno schermo cinematografico. Le sedie, però, di quelle girevoli, sono tutte rivolte al lato opposto, verso un palco, con microfono e leggio. Al centro, in una gabbia sospesa a mezz’aria, Roberto Burioni. È spettinatissimo, e anche lui legato. Prova a riavviarsi il ciuffo con dei movimenti del collo, ma fa peggio: adesso ha tipo la frangia. Una scena straziante. Accanto a lui, due tizi incappucciati. Il viso coperto da una maschera di plastica: forse Adorno, forse Horkheimer, forse Paolo Virzì. In mano, due fucili, uno che fuma ancora: è quello che ha abbattuto Barbero. I ragazzini si siedono, e guardano Burioni. “Professore”, riprende uno dei due. “Professore, quante volte l’abbiamo sentita parlare delle meraviglie della scienza. Fabio Fazio intontito, le signore a spellarsi le mani. Ce le racconti ora, Professore. La scienza e i giovani: è il suo momento. Ha un minuto”. Sulla parete dietro al palco, si accende un timer. Tutti zitti. Burioni indugia. “Professore, avanti: è facile, tenga l’attenzione dei ragazzi per un minuto e la liberiamo. Oppure”. Sotto la gabbia si apre una botola. Da dentro, rumori agghiaccianti:‌ ruggiti, acqua che scroscia, seghe elettriche, l’indistinguibile voce – oddio – di Alberico Lemme. Burioni ci guarda. È terrorizzato, ma noi lo invitiamo a parlare. Prende fiato, si schiarisce la voce, cerca le parole e fa per cominciare. All’improvviso, però, sullo schermo alle spalle della platea, si accende un video. È una diretta Twitch. Qualcuno gioca a Fortnite. Roberto attacca maieutico “Tanti parlano della scienza, ma cos’è la scienza?”, senza accorgersi che, all’inizio dell’avversativa, più della metà del pubblico è già rivolta dall’altra parte. “Su, Professore: piglio, energia, mancano ancora quaranta secondi”. I vaccini non esistevano, si moriva a mazzi, poi il traguardo eccezionale, e oggi invece i matti che parlano di microchip:‌ uno per uno, i ragazzini si girano verso lo streaming. Con loro, anche Recalcati. “Forsnai hai detto?”, mi chiede curiosissimo. Burioni intuisce il pericolo, prova a variare di timbro, impreziosisce la prossemica, batte le mani. Purtroppo invano: anche l’ultimo ragazzino si volta, quando mancano ancora quindici secondi. “Che peccato, Professore”, riprende la voce. “C’era quasi”. Il fondo della gabbia si spalanca, Roberto precipita urlando. La sua ultima immagine, tre centimetri di ciuffo che resistono alla gravità, e poi più niente. Una cosa orribile.

Nei cinque minuti successivi, terrore e dolore. Crepet, Odifreddi, Augias, Bressanini, Mieli: tutti, uno dopo l’altro, piombati nella botola. Chi stoico, chi annientato dalla paura: nessuno è riuscito a convincere il pubblico. Per un istante, quando Galimberti ha accennato la coreografia di Single ladies, ci abbiamo sperato, ma poi anche lui stessa fine. Siamo rimasti io e Recalcati. E la salma di Barbero. È la fine.

“Avanti, professor Recalcati: tocca a lei, venga a dirci cosa resta del padre”

“Io?”, mugola Recalcati.

“Lei”.

“Se permettete”, interviene una voce dall’ombra. “Invece verrei io”. Mi giro: è Dario Fabbri, che emerge dal buio. Com’è possibile. Non c’era. Dov’è stato. Cosa succede. Che fa: avanza solenne, a passi lentissimi. Mi passa accanto, lascia cadere qualcosa. Intanto, la platea torna in posizione di partenza, tutti i ragazzini rivolti verso il palco.

“Dario Fabbri”, dice uno dei due uomini. “Va bene, abbiamo un volontario. Venga, venga a parlarci della geopolitica”.

Dario sale le scalette, è al centro della scena. Io guardo ai miei piedi: un taglierino. Ha un piano.

“Solo due cose”, inizia Dario, “ho imparato, dalla geopolitica umana. Che l’illuminismo è una patacca, e che un fumogeno è sempre meglio di una curatela”. Si gira, mi guarda e si tocca il naso con l’indice. Mi sa che dovrei fare qualcosa, ma non capisco. Ne avrà parlato su Domino, è che mi è scaduto l’abbonamento, gli ultimi numeri li ho persi. Strizza un occhio. Qualcosa di codificato, forse una cifratura di guerra, dio non ho i rudimenti, mi mancano le nozioni. Una linguaccia, una pernacchia, batte i tacchi. Continuo a non capire. Riafferra il microfono: “Ora, imbecille: alzati e scappa”. Scoppia una nuvola di fumo, parapiglia, i due gli si buttano addosso, i ragazzini impazziscono, si alzano e scappano da ogni lato, botte, colluttazione, spari, Dario che riesce pure a urlarmi “Alessandro, porta via il corpo di Alessandro”.

Mi alzo, cerco Recalcati che si è già smaterializzato, allora afferro Alessandro e inizio a trascinarlo fuori, è pesantissimo, uno sforzo immane, arranco però riesco a uscire per strada, la attraverso, arrivo in un campo, mi lancio in un cespuglio. Tremo, sono terrorizzato. Ma sono vivo. Da dentro, sento ancora qualche sparo. Forse un’esecuzione. Ora silenzio. Resto immobile. Poi, all’improvviso, un colpo di tosse. Mi giro: Barbero. Vivo. Si sta aprendo la camicia: sotto, una cotta di maglia, con un proiettile conficcato. Mi guarda, sorride. “I barbari”, sussurra. “I barbari”.