Alla base della Geopolitica Umana ci sono delle costanti, dei concetti fondativi che ricorrono: uno di questi afferma che gli imperi non possono dimettersi da se stessi. Per impero, nel ventunesimo secolo, sembra legittimo pensare non solo al complesso militare in senso stretto (hard power), ma anche alla struttura ideologica e burocratica (soft power). Se è chiaro che la rielezione di Trump alla Casa Bianca non comporterà la dimissione degli Stati Uniti dalla sua egemonia militare, può portare invece a una dimissione ideologica da quell’ordine morale che hanno contribuito a costruire? Insomma possiamo continuare noi Stati satelliti a credere nell’universalismo, nelle Nazioni Unite e i suoi apparati, nella cultura woke, nella correttezza politica se il Presidente degli Stati Uniti d’America e le forze che rappresenta sono i primi a rimetterlo in discussione?
DF: L’impero è un’inclinazione della collettività: è dunque sentimento, ferocia, seduzione, terrore. L’apparato militare o burocratico ne sono l’attuazione, come lo è la distillazione di una missione.
Trump e i suoi ci lasciano guardare dietro la tenda, nella cucina di casa, svelandoci una costruzione fatta anche di sofferenza, depressione, bestemmie. Era così pure per i romani o per i safavidi. Non dovremmo mai guardare nell’intimo del nostro patron. Gli americani commettono un errore nello svelarci la propria finitezza: le province devono credere nel bene, nella fine della storia, nell’economia. Ma anche gli statunitensi sono esseri umani e oggi assai stanchi. Non esistono percorsi netti. Nessuna paura comunque. Resteremo con Washington: siamo parte della sua sfera di influenza, siamo troppo anziani e può andarci peggio con un altro egemone.
Parliamo di te, dei tuoi libri e del metodo della Geopolitica Umana. In che senso è un metodo? lo possono replicare tutti? Ci sono delle variabili da esaminare, e sulla base delle quali si possono trarre delle conclusioni? Il concetto di metodo molto spesso è accompagnato dall’aggettivo scientifico, cioè contiene delle nozioni di oggettività, replicabilità, verificabilità. Eppure tu spesso hai rifiutato l’etichetta di scientificità della G. U. Ci spieghi bene dov’è il confine tra questi concetti?
DF: La geopolitica umana è un metodo perché offre strumenti per guardare intorno a noi dal basso tramite psicologia collettiva, protolinguistica, storia/storie, con lo sguardo altrui. Anziché dall’alto: ovvero tramite governi, partiti, leader, politica economica o estera (la paratattica). Rifiuto l’aggettivo “scientifico’ non solo perché viene attribuito alle nuove teorie soltanto a babbo morto, specie alla morte dell’ideatore – se mai succede. Soprattutto, una fervente scientificità uccide la vertigine, il guizzo, la contraddizione, l’eterodossia. Ossia, quanto produce conoscenza.
Ancora studente rifiutai lo studio accademico delle relazioni internazionali perché occidentalista, astorico, sovrastrutturale, privo di antropologia, di linguistica, centrato sulla rappresentazione della realtà, sull’egemonia americana come termine della storia, sugli individui (solo occidentali) e mai sui popoli. E in Italia è letteralmente impensabile che qualcuno possa rifiutare uno specifico studio perché lo considera difettoso. Come capitato in altre fasi storiche, vige l’incredibile convinzione che ciò che si insegna sia vero e corretto e dunque sia un errore respingerlo. Proprio per pretesa “scientificità”. Ma la storia è zeppa di insegnamenti scoperti erronei e poi superati. Anche tramite dinieghi. Figurarsi se potrei mai barattare la speculazione dialettica con la scientificità.
Dai spesso per scontato che l’occidentalismo abbia imposto al mondo l’idea che tutti gli uomini siano uguali, desiderino le stesse cose, abbiano le stesse aspirazioni, tra tutte quella di fare come noi l’aperitivo e godere della libertà di guardare la propria serie Tv preferita. Mentre in realtà sarebbe vero il contrario, cioè che tutti i popoli desiderano cose diverse. Nell’èra di Tiktok e di Instagram, di una globalizzazione dei trend, così come di mille altri possibili esempi di apparente “convergenza” negli stili di vita, continui a escludere l’ipotesi che ci sia una somiglianza al fondo della specie umana? D’altronde abbiamo sicuramente in comune dei bisogni animali (mangiare, dormire, riprodurci, etc.) ma anche spirituali (quello di credere in qualcosa, che sia in un Dio o nell’oroscopo): dov’è che subentra la differenziazione?
DF: Gli esseri umani sono ovviamente tutti uguali. Ma producono culture, ambizioni, impressioni diverse pure partendo dai medesimi bisogni e caratteristiche. E meno male. Altrimenti cadremmo nella commovente ingenuità dell’esperanto. Pure se adottassimo tutti la stessa lingua, comunque con il tempo svilupperemmo accenti, semantiche diversi, come inevitabile. Peraltro, instagram o tiktok non sono neutri, pertengono a imperi diversi e concorrenti.
Se è un pregiudizio occidentale quello per cui i leader di alcuni popoli impediscono loro di vivere come vorrebbero (quindi come vorremmo vivere noi occidentali) quand’è che l’espressione di una rottura tra popolo e leader diventa legittima? Detto altrimenti: qualora un leader si appropriasse dei mezzi per reprimere il dissenso del popolo in modo capillare e onnipervasivo, e piegare quella che potrebbe essere una “volontà popolare” alle sue esigenze personali o di governo, in quale punto smetterebbe di essere legittimo il suo potere? Un dittatore è legittimo fino a che non gli si taglia la testa? E se il popolo volesse tagliargli la testa ma non ci riuscisse? Prendiamo il caso di Hong Kong, il fallimento delle proteste degli anni ’10 come va letto, è una vittoria dell’apparato repressivo cinese o una dimostrazione del fatto che i cittadini di Hong Kong non vogliono veramente vivere all’occidentale?
DF: Questi sono punti cruciali perché al centro del nostro occidentalismo. Ci viene detto che se gli altri esseri umani non vivono come noi sono interdetti da un dittatore oppure non sanno – difficile stabilire quale affermazione sia più razzista o irreale. Anzitutto, nessuno detiene mai il potere da solo. Un autocrate è comunque espressione di un’oligarchia, di una stirpe o di una etnia. Nel medio periodo l’apparato di repressione funziona soltanto se la maggioranza della popolazione (del ceppo dominante in un impero) ritiene l’autocrate utile o aderente al proprio sentimento. I popoli fanno tutto ciò che vogliono, sempre. Anche quando non ci piace. E quando non vogliono una specifica dittatura la sostituiscono. A un popolo è interdetto scegliere soltanto se sottomesso da una potenza straniera. Su Hong Kong: in realtà, è ormai questione tra popoli diversi seppure entrambi di origine han. I cinesi “popolari”, grande maggioranza, hanno sottomesso gli hongkonghesi. Pure se presentata da Pechino come questione interna, non lo è più da tempo
C’è qualcuno con cui ti confronti? Dei sistemi di idee da cui attingi, degli autori che leggi?
DF: Mi confronto solitamente con chi si occupa di tutt’altro, oltre che con i miei collaboratori.
Ho un paio di maestri con cui discuto regolarmente, bontà loro, arrivando a conclusioni schizofreniche. Leggo le storie per come le raccontano gli altri popoli, i miti, i trattati dialettali. Tutto ciò che conta (o quasi). Ho il pregio e la dannazione d’avere una memoria peculiare per cui rimugino o cucio pezzi di ragionamento ascoltati o affrontati in altre stagioni.
Guardando le tue apparizioni televisive sembra sempre che tu sia un po’ estraneo al contesto. Ci sono i famosi “esperti” che parlano (politologi, accademici, analisti) che dibattono usando lo stesso lessico, e poi ci sei tu, che parli da una prospettiva radicalmente diversa. Gli altri parlano di punti di PIL, forniture di armi, investimenti in infrastrutture, e tu parli di spirito dei popoli. Dove sono i punti di contatto? Si può costruire un dialogo pur parlando lingue così diverse?
DF: Punto di contatto è senz’altro la comune urgenza di interpretare il mondo. E il dialogo è sempre benedetto.
Il tuo primo libro, densissimo, fondativo del tuo pensiero e spesso richiamato anche in questa nuova pubblicazione, Sotto la pelle del mondo, aveva un tono stentoreo ma impassibile, quasi placido. Lo stile linguistico era sempre molto personale, un po’ ricercato ma fluente, letterario in alcuni passaggi. Viceversa, in questo secondo libro notiamo una radicalizzazione della lingua. Ancora più ricercata, con parole più astruse e costruzioni del periodo più ermetiche. Cosa c’è dietro questa scelta?
DF: Non è una scelta a dire il vero. O almeno non una scelta cosciente. Ogni forma di conoscenza dispone di un linguaggio ed è necessario maneggiarlo per trovarsi nel ragionamento, per dedicarsi all’approfondimento. A patto che non diventi una barriera. Poi io sono incline all’ipotassi; ognuno ha le sue perversioni.
Si nota anche un certo dileggio, sempre sarcastico e sagace, nei riguardi della scienza politica. Si può ipotizzare una ragione di rabbia “politica”, una sorta di tentativo di riportare al centro quelle idee che pur trovando un buon riscontro sui media non vedono poi un’attuazione pratica da parte degli attori istituzionali, che continuano a guardare a fattori che tu reputi marginali?
DF: Avessi apprezzato la scienza politica avrei continuato a studiarla. Piuttosto, credo sia naturale che la geopolitica umana non possa attuarsi nel nostro paese. Questa prevede riconoscere che la storia non è mai finita, che i popoli si sfidano e si sfideranno per l’egemonia, che le più feroci differenze producono le civiltà. Assunti inaccettabili per il più anziano popolo del mondo, il nostro, sicuro sia tutto finito, placidamente preso dallo scambiare i partiti per i sentimenti, per le culture. Va bene così. Si è sempre anacronistici in alcune parti del mondo e contemporanei in altre. In fondo, una forma di irrilevanza ci tinge di lirismo, ben oltre i nostri meriti.
Una recente pubblicazione di Federico Rampini titola: Grazie Occidente! Si tratta di un panegirico sugli apporti positivi dell’Occidente nel resto del mondo, in ambito scientifico, sanitario, ingegneristico, economico. Se è vero che oggi un senso di colpa generale pervade il continente, di cui la cultura woke è la più alta, o più bassa, espressione, ed è vero anche che nessuna società produce così tanta auto-critica come la nostra, con esiti paralizzanti, anche l’eccezionalismo non ci ha mai portato bene, procurandoci molte ostilità presso altri popoli. Dove ci condurrà questa nuova polarizzazione? Il progressismo anti-occidentale e l’occidentalismo conservatore sono i nuovi contenitori in cui si travasano i concetti di sinistra e destra nel ventunesimo secolo?
DF: Può darsi lo siano. Esistono diversi Occidenti e questi hanno molti meriti e anche molte colpe. Né più né meno di altre culture o civiltà. Avere senso di colpa per ciò che si è fatto o si è stati è tipico di società anziane e minimaliste. Non a caso l’unica porzione d’Occidente ancora massimalista è la cosiddetta America profonda che non conosce pentimenti.
Punto in comune di entrambi sembra un certo apocalittismo, ecologico a sinistra, umano a destra. I primi con le eco-ansie, i secondi con le varie xenofobie. La politica sta sussumendo sempre più termini clinici. L’Apocalisse dell’Occidente è in fondo psicologica?
DF: Ogni questione umana è (anche) psicologica, non solo le vicende occidentali. Per questo la radiografia di un popolo deve sempre partire dal suo umore, dal suo sentimento. Il resto conta molto meno.