Si riconoscono gli intellettuali di regime da un passo falso che tendono a compiere. Sono soliti, qualora intervengano sul tema pubblicamente, condannare le violenze di piazza e lodare invece solo le manifestazioni che si risolvono pacificamente. Va bene tutto, a opinione loro, fuorché la violenza. Essi sorvolano volutamente sul fatto che qualsiasi dimostrazione in strada, anche la più pacifica, anche al grado zero della conflittualità, si regge sul presupposto della contestazione del monopolio della violenza dello Stato. Li accomuna perciò un difetto di fabbrica, ovvero la lode del servilismo, l’apologia dell’irrilevanza politica, che per nostra fortuna, quantomeno, ce li rende riconoscibili.
Ogni potere organizzato, infatti, si basa sullo spettro di una violenza. Da essa nasce ogni società, a essa fanno riferimento i miti fondatori di qualsiasi civiltà, che ciò sia nella metafora di un parricidio, di un fratricidio, di uno stupro, di un ratto, di un esproprio. Gli apparati spettacolari del potere – parate, monumenti, cariche e discorsi – svolgono la funzione di esaltare indirettamente la violenza potenziale di un sistema di governo; le istituzioni, invece, servono a reprimere le divergenze interne, o a svolgere le funzioni che competono a una normale amministrazione burocratica (è lo stesso carabiniere che può rilasciarti il passaporto o scortarti in cella).
Quando dei corpi si riuniscono in strada, perciò, quando scendono in piazza avanzando delle richieste, sia pure all’interno del pacifico teatro democratico, danno seguito all’antico rituale della fondazione violenta dello Stato, offrono una rappresentazione fisica della propria violenza potenziale. È questo che distingue una passeggiata di massa da un corteo. Qualora alle richieste non facesse benevolmente seguito un’azione di governo, al limite estremo, si potrebbe ricorrere a una violenza, tanto impetuosa quanto la somma dei corpi presenti in piazza lanciati all’assalto. La presenza fisica in strada svolge questa funzione, spesso solo rituale e irriflessa; essa mette in scena e riproduce drammaticamente un rito che ha alla sua origine la sovversione violenta e la contestazione dell’ordine costituito attraverso l’uso della forza. Valga pure la premessa che buona parte delle persone che oggi scendono in piazza non avrebbero la disponibilità mentale e fisica di partecipare a scontri, lanciare sassi o far esplodere ordigni; ciò a cui decidono di prendere comunque parte, e prestare il proprio corpo, si fonda nondimeno sulla minaccia latente della sovversione e dello spargimento di sangue.
Dall’altro lato di quella che in tempi più espliciti era una barricata, e oggi è un cordone di sicurezza, scorrono i plotoni di polizia. Sacerdoti e officianti del rito della manifestazione, la presenza stessa della celere sconfessa le pretese pacifiche degli intellettuali di regime di cui sopra, poiché svolge precisamente il ruolo inverso, ovvero ricordare ai presenti che l’origine della rappresentazione in corso è la violenza che le sottende passivamente. Più espliciti e coscienti dei manifestanti, i celerini e i poliziotti indossano ed espongono con fierezza i vessilli del monopolio della violenza, dato loro in appalto. Qualora questa, la violenza, prorompesse attivamente, ovvero nel caso in cui avesse luogo una rivolta concreta – cosa che accade di rado alle nostre latitudini – il loro compito sarebbe quello di ristabilire immediatamente le gerarchie, e dirigere a suon di manganellate l’orchestra del patto sociale. Il potere deve necessariamente predisporre una scorta in assetto militare che accompagni qualsiasi rivendicazione in strada, poiché esso è cosciente che qualsiasi manifestazione trae la propria legittimità solo sulla base dello spettro della violenza che evoca. Gli intellettuali di regime che condannano la violenza, condannano in realtà il principio stesso della manifestazione. Se parteggiano per i manifestanti, ma ne condannano l’eventuale effervescenza rivoltosa ed esplosiva, dimostrano di voler salvare capra e cavoli, ovvero tenersi buoni e i manifestanti e l’ordine costituito; fanno aperta confessione di opportunismo posizionale.
I meno originali tra di loro poi finiscono per citare l’abusatissimo articolo di Pasolini su Valle Giulia, forse lo scritto più saccente e borghese del pluripremiato pedofilo. Può darsi che la celere nel ’68 fosse diversa, che fossero davvero quattro scappati di casa, estradati dal Mezzogiorno con la promessa di un piatto di pasta asciutta garantito e una millecento. Ma chiunque prenda parte a una manifestazione, almeno dal G8 di Genova in poi – ovvero da quando il popolo occidentale ha dovuto coercitivamente accettare termini e condizioni della propria sottomissione pacifica – non potrebbe mai, con onestà intellettuale, trovarsi a parteggiare con le forze armate. Esponenzialmente militarizzata, setacciata in mezzo alla popolazione civile attraverso il discrimine dell’indifferenza etica, politica ed intellettuale (ben diversa dall’imparzialità) – oltre a un’evidente iperfagia – oggi la celere ha rinunciato alla propria umanità per vestire i panni di una macchina, di un dispositivo. Più precisamente: un dispositivo d’ordine binario, il quale, a ritmo di manganellate, separa la popolazione in due gruppi: i retti cittadini e i criminali. Chi vi si trovi al cospetto, al contrario di quel che pensava PPP, ha il pieno diritto a una certa dose di cecità, la quale deve portare oltre la considerazione che dietro quel casco e quegli abiti ci sia un essere umano in carne e ossa, con le sue insicurezze, i suoi dubbi, le sue speranze. Nel momento in cui sceglie di indossare la divisa e disporsi di scudo antisommossa e manganello, il celerino evoca e accoglie con ciò lo spettro della violenza, e solo un intellettuale di regime potrebbe argomentare, con fini posizionali, che l’uso della forza nei suoi confronti sia da condannare.
Ovviamente la polizia non detiene il potere contro cui si manifesta quando si scende in piazza, ad essa ne è semplicemente appaltato un aspetto: il famigerato monopolio della violenza. Ma a ben vedere quello stesso potere contro cui si manifesta, in realtà non ha altro luogo che nei dispositivi che dispone per autotutelarsi, e di cui le forze armate non sono che una concrezione organica. È un gesto politico ben più incisivo partecipare all’assalto e al rogo di una camionetta, rispetto ad a esprimere la propria preferenza elettorale, per quanto futili possano essere entrambi. Se gli intellettuali di regime e il potere sono costretti a ricorrere ogni volta alla solita formula retorica, che ci ricorda che “la violenza delegittima le rivendicazioni delle manifestanti” è solo perché sanno bene che, senza questo appello, sarebbe direttamente evidente a tutti il contrario.
Per tutelarsi e tenersi alla larga da una pace irrilevante, basterà tenere a mente le riflessioni dell’eminenza grigia del situazionismo:
La gentilezza prevedibile dei metodi di oppressione ha qualcosa a che vedere con la perversione che mi impedisce, come nel racconto di Grimm, di esclamare «il re è nudo» ogni volta che la sovranità della mia vita quotidiana rivela la sua miseria. Certo la brutalità poliziesca infierisce ancora, e quanto! Ovunque essa si esercita, i begli spiriti di sinistra ne denunciano a giusto titolo l’infamia. E poi dopo? Incitano essi le masse ad armarsi? Provocano forse delle legittime rappresaglie? Incoraggiano a una caccia al poliziotto come quella che ornò gli alberi di Budapest dei più bei frutti dell’AVO? No, loro organizzano delle manifestazioni pacifiche; la loro polizia sindacale tratta da provocatore chiunque resista alle sue parole d’ordine. Là è la nuova polizia. Essa aspetta solo di prendere le consegne. Gli psicosociologi governeranno senza colpire col calcio delle armi, perfino senza boria. La violenza oppressiva va convertendosi in una moltitudine di punture ragionevolmente distribuite. Coloro che denunciano dall’alto dei loro grandi sentimenti il disprezzo poliziesco esortano a vivere già nel disprezzo policé, civilizzato.
Raoul Vaneigem