“Ma non è successo niente in Francia nel ’68. Le istituzioni non sono cambiate, l’università non è cambiata, le condizioni dei lavoratori non sono cambiate – non è successo niente.” Il relatore, un celebre sociologo tedesco, stava rispondendo a una conferenza che avevo tenuto sui problemi posti dalla memoria sociale del ’68 in Francia. Continuò: “Il vero ’68 è stato Praga, e Praga ha fatto cadere il Muro di Berlino.”[1]
Nulla è successo in Francia, e tutto è successo a Praga – un’interpretazione in cui non mi ero mai imbattuta, almeno in una forma così concisa. Certamente, una prospettiva più internazionale del ’68 rispetto a quella che avevo offerto quel giorno è stata disponibile da tempo, che enfatizzi la convergenza negli anni Sessanta delle lotte di liberazione nazionale (Cuba, Indocina), con le lotte antiburocratiche (Ungheria, Cecoslovacchia), e quelle anticapitaliste e anti-autoritarie scoppiate nelle metropoli imperialiste d’Europa e Nord America. Ma la direzione di questa affermazione era chiaramente diversa.
Non solo escludeva del tutto il terzo mondo, ma persino la Francia ora rischiava di non figurarvi. Non solo non erano accaduti congiuntamente molti eventi diversi in tutto il mondo, in un breve periodo di tempo, ma addirittura ne era accaduto uno solo di evento; ed era accaduto a Praga, e quello che è successo a Praga ha piantato i semi che avrebbero poi portato alla realizzazione di una teleologia trionfante della Guerra Fredda: la fine del socialismo reale[2]. Era forse questa la voce post-1989 del vincitore della Guerra Fredda, che ingloba tutto ciò che è accaduto nel ventesimo secolo in quest’unica cornice, in un’unica narrazione? E se qualcosa non si adatta a questa narrazione, come il Maggio ’68 in Francia, allora per caso non ha significato? Forse che il cambiamento è ormai diventato impensabile se non al di fuori di questa narrazione?
La caduta del socialismo e l’egemonia apparentemente incontrastata raggiunta dal capitalismo distanziano il nostro mondo da quello del ’68, al punto che diventa piuttosto difficile immaginare quest’epoca in cui le persone concepivano un mondo essenzialmente diverso da quello in cui viviamo oggi. In questo senso, le osservazioni del sociologo a Princeton sono in linea con gran parte della valutazione post-1989 del Maggio ‘68, una riformulazione o un semplice oblio che incanala l’energia di quel Maggio spingendola direttamente verso un’esito inevitabile: il mondo attuale.
Anche il Maggio francese, secondo alcuni resoconti recenti, qualora lo si riconosca come realmente accaduto, avrebbe avuto, alla fine, come obiettivo il mondo di oggi.[3] Per una curiosa beffa della storia, l’assalto da sinistra contro il riformismo e la burocrazia del Partito Comunista Francese ha avuto l’effetto paradossale di sancire la morte definitiva della speranza di qualsiasi cambiamento sistemico o rivoluzionario, da quel momento in poi; e questo, secondo alcuni ex-gauchistes che pretendono una lungimiranza postuma, era esattamente ciò che all’epoca si desiderava. In quest’ottica, gli anni che separano il ’68 dal tenace anti-marxismo di prominenti ex-gauchistes professato da metà degli anni Settanta, vengono cancellati dalla memoria, così che quei fenomeni contro-movimentisti possano apparire come il “significato segreto,” il “desiderio sottostante” del ’68, sin dall’inizio.
La sintesi dell’analisi del sociologo sul Maggio francese era forse fondata sulla sicurezza con cui la disciplina della sociologia—il campo che ha dominato l’interpretazione degli eventi di quel Maggio—rivendica la capacità di misurare il cambiamento e persino di stabilire i criteri secondo cui il cambiamento può essere misurato?
La sensazione che non sia “successo niente” in quel Maggio, ovviamente, è oggi espressa spesso in Francia, con tonalità politiche/affettive differenti. “Non è successo niente, tranne l’inizio del femminismo—e guarda come ha ridotto la famiglia” — e quindi, niente è successo, ma comunque tutto ciò che è successo è stato deplorevole. Questa è una delle versioni. Un’altra invece suona così: “Non è successo niente. Lo Stato francese è stato in grado di assorbire tutta quella turbolenza politica e ora tutti quei facinorosi hanno carriere favolose e guidano splendide BMW“—come se i francesi che oggi guidano BMW fossero gli unici ad aver preso parte al movimento di allora.
Oppure: “Non è successo nulla politicamente, ma culturalmente i cambiamenti sono stati enormi.” Questa è forse la versione più diffusa oggi in Francia, una valutazione che si basa su una visione in cui le due sfere della politica e della cultura possono essere isolate definitivamente l’una dall’altra. E una valutazione in cui l’eccesso di visibilità della cultura—stile di vita, usi, costumi —esiste in proporzione diretta all’invisibilità della politica, all’amnesia che ora circonda le dimensioni specificamente politiche del ’68.
Cosa, infatti, si può percepire di quegli anni oggi? Forse è guardando le commemorazioni televisive francesi degli eventi del ’68, in particolare quelle che hanno accompagnato il ventesimo anniversario del Maggio ‘68, che allo spettatore rimane il forte sospetto che “non sia successo nulla”. È questo il loro scopo? Spesso, le commemorazioni creano l’impressione che sia successo di tutto (e quindi che non sia successo nulla); una contestazione globale di ogni cosa — imperialismo, codici di abbigliamento, realtà, coprifuoco nei dormitori, capitalismo, grammatica, repressione sessuale, comunismo—e quindi nulla (poiché tutto è ugualmente importante) è accaduto veramente; che il ‘68 consistesse nella classe studentesca che diceva qualsiasi cosa e quella operaia che non aveva nulla da dire; o, come in questa conversazione rappresentativa tra due ex-gauchisti in una commemorazione televisiva del 1985:
R. Castro (ex leader maoista, poi psicoanalizzato da Lacan): Il maggio ’68 non era politico, era un movimento fatto puramente di parole…
R. Kahn (ex-gauchista, convertito al liberalismo): È vero… il terribile male di sostituire la realtà con le parole… l’idea che tutto sia possibile… uno dei periodi peggiori… bambini che non hanno più alcuna cultura… persino il Front National è una conseguenza del ’68.
R. Castro: Il Maggio ’68 è stata una crisi delle élite.
R. Kahn: Certo, ora ascoltiamo meglio i ragazzi… il sistema dei piccoli capi è stato scosso.
Alfonsi (il moderatore televisivo, a Castro): Indossate una spilla “Non toccate il mio amico” [“Touche pas à mon pote”]?
R. Castro: Sì, mi fa sentire meno ansioso.[4]
In mezzo a questo miscuglio discorsivo e sintattico, il ‘68, ancora una volta, finisce per incorporare tutto e quindi nulla. I media mainstream, in collaborazione con gli ex-gauchisti, mantengono un’ambiguità e una vaghezza circa gli eventi, vaghezza che riesce a distogliere l’attenzione dal punto centrale attraverso il chiacchiericcio. Gli spettatori che assistono al delirio verbale degli ex-gauchisti in televisione potrebbero essere portati a trarre la stessa conclusione del sociologo che ho incontrato a Princeton, specialmente quando l’obiettivo del ’68 di “impadronirsi delle parole” viene rappresentato come se non avesse prodotto null’altro, nel lungo periodo, oltre allo spettacolo contemporaneo della commemorazione in forma di talk show. Tuttavia, la nettezza dell’affermazione del sociologo merita un ulteriore commento. “Non è successo niente in Francia”: niente è cambiato, le grandi istituzioni sono rimaste intoccate.
Era questa forse la voce del sociologo professionista, colui il cui compito è spiegare perché le cose rimangono invariabilmente le stesse, per il quale una rottura nel sistema viene recuperata per essere reinserita nella logica della continuità, della riproduzione?
È per questo motivo che le interpretazioni sociologiche del ‘68 e di altri eventi mi sono sempre sembrate al limite del tautologico. E i fatti sembrano essere spiegati nei termini della loro stessa esistenza. “La ribellione giovanile” è una di quelle categorie sociologiche ipostatiche che vengono frequentemente tirate in ballo in relazione al ‘68: i giovani si ribellano perché sono giovani; si ribellano perché sono studenti e l’università è sovraffollata; si ribellano “come i topi o altri animali, quando sono costretti a vivere in uno spazio chiuso e troppo densamente popolato.”[5] Quest’ultima è l’analogia che un altro sociologo, Raymond Aron, propose poco dopo gli eventi, spolverando un vocabolario animalizzante che non si vedeva dai tempi della Comune di Parigi.
O era invece la voce della polizia?
“Non è successo niente.” In un testo recente, Jacques Rancière usa questa frase — solo al presente: “Non sta succedendo niente” — per mostrare come funziona ciò che, in senso ampio, egli chiama “la polizia.”
«L’intervento della polizia nello spazio pubblico non vuole tanto interpellare i manifestanti, quanto disperderli. La polizia non è la voce della legge che interpella l’individuo (quel “ehi, tu lì” di Louis Althusser), a meno che non confondiamo legge e sottomissione religiosa. La polizia è soprattutto una certezza su ciò che c’è, o piuttosto, su ciò che non c’è: “Circolare, non c’è niente da vedere.” La polizia afferma che non c’è niente da vedere, niente che stia accadendo, niente da fare se non continuare a muoversi, circolare; afferma che lo spazio della circolazione non è altro che lo spazio della circolazione. La politica consiste nel trasformare lo spazio di circolazione in uno spazio di manifestazione per un soggetto: che si tratti del popolo, dei lavoratori, dei cittadini. Consiste nel riformulare quello spazio, ciò che vi si deve fare, ciò che vi si deve vedere o nominare. Si tratta di una disputa sulla divisione di ciò che è percepibile dai sensi».[6]
Il rapporto del celebre sociologo con il passato non è forse analogo a quello della polizia con il presente? Per Rancière, la polizia e il sociologo parlano con la stessa voce. Anche la sociologia più discriminante ci riconduce a un uso, un modo di essere, una base sociale o un insieme di determinazioni che confermano, in ultima analisi, che le cose non sarebbero potute andare diversamente, che non sarebbero potute essere diverse. Così, ogni singolarità dell’esperienza—e ogni modo in cui gli individui producono senso tentando di catturare quella singolarità—viene annullata nel processo.
La polizia si assicura che un ordine sociale correttamente funzionale funzioni correttamente—in questo senso mette in pratica il discorso della sociologia normativa. La “polizia”, quindi, per Rancière, si preoccupa meno della repressione quanto di un’attività più basilare: quella di costituire ciò che è o non è percepibile, determinando ciò che può o non può essere visto, separando ciò che può essere ascoltato da ciò che non può esserlo. Per Rancière, alla fine, la polizia diventa il nome di tutto ciò che concerne la distribuzione di luoghi e funzioni, nonché il sistema che legittima quella distribuzione gerarchica.
La polizia fa i suoi conteggi statisticamente: si occupa di gruppi definiti da differenze di nascita, funzioni, luoghi e interessi. Essa è solo un altro nome per la costituzione simbolica del sociale: un sociale composto da gruppi con modi di operare specifici e identificabili—”profili”—e questi modi di operare sono essi stessi assegnati direttamente, quasi naturalmente, ai luoghi in cui quelle stesse occupazioni vengono svolte. Questi gruppi, una volta contati, compongono il tutto-sociale—non manca niente; niente è in eccesso; niente e nessuno viene lasciato fuori. “Circolare, non c’è niente da vedere.” Questa frase stessa è un perfetto esempio di adeguazione tra funzione, luogo e identità—non manca niente, non sta succedendo niente.
Ma se “polizia” è il nome che Rancière dà all’opera più ampia possibile di classificazione socio-politica, quest’opera include non solo le varie funzioni sociologiche, culturali e mediche di classificazione che definiscono i gruppi e le loro funzioni e che ne “naturalizzano” il rapporto, ma include anche la polizia come comunemente la intendiamo: il poliziotto che gira per strada. I due sensi si sovrappongono, come nell’aneddoto, forse apocrifo, raccontato da Henri Lefebvre a Nanterre nel 1968 che, quando gli fu chiesto di fornire ai presidi un elenco degli studenti più politicamente sovversivi nelle sue classi, pare abbia risposto: “Monsieur le doyen, je ne suis pas un flic.”[7]
Scrivendo nel 1998, Rancière propone una teorizzazione della politica e dell’ordine sociale fortemente influenzata dagli eventi del ’68, a cui partecipò trent’anni prima. Nel periodo immediatamente successivo al ’68, ovvero anni che videro una vera e propria ipertrofia dello Stato francese in risposta a un palpabile panico diffuso tra le élite, la French theory si ritrovò popolata di figure della polizia.
Negli anni Settanta, la polizia compare regolarmente, in qualità di personaggi o forze, all’interno della speculazione teorica: nella forma dell’esempio (quel “ehi, tu lì” del poliziotto per strada che richiama, nella messa in scena di Louis Althusser sul funzionamento dell’ideologia); nelle vaste meditazioni di Michel Foucault sulla repressione statale (Sorvegliare e punire, 1975); nell’analisi foucaultiana di Jacques Donzelot su come la famiglia viene inserita in una complessa rete di istituzioni burocratiche e sistemi di gestione (La Polizia delle famiglie, 1977). La presenza della polizia è una costante, poi, nelle analisi di Maurice Blanchot sul movimento, scritte in collaborazione con il Comitato d’Azione Studenti-Scrittori, e può essere già avvertita in un testo del 1969 come “La parole quotidienne.”[8]
All’indomani del ’68, un periodo segnato da una massiccia preoccupazione per l’ordine pubblico e per il suo possibile collasso, in cui il timore tangibile del governo che la popolazione tornasse in strada aveva preso la forma di una drammatica onnipresenza della polizia — nei caffè, nei musei, agli angoli delle strade, ovunque si riunissero più di due o tre persone — la filosofia e la teoria iniziarono a portarne il segno. Trenta anni dopo, questo segno del ‘68 e delle sue conseguenze è ancora rintracciabile nella concettualizzazione teorica di Rancière della “polizia” come l’ordine di distribuzione dei corpi in una comunità, come il modo in cui luoghi, poteri e funzioni sono gestiti nella produzione statale di un determinato ordine sociale, e nella sua analisi della politica come interruzione, in senso ampio, di quella distribuzione naturalizzata.
In ciò che segue, intendo mantenere visibili ognuno di questi registri. La polizia empirica, le cui attività hanno costituito una parte essenziale di un regime come quello di de Gaulle, nato nel 1958 grazie a un colpo di stato militare, dominerà la mia discussione nel capitolo sulla prossimità della Guerra d’Algeria agli eventi del Maggio ‘68. Mi concentrerò poi sulle forme e pratiche sviluppate durante il ‘68 che hanno cercato di “denaturalizzare” i rapporti sociali passati—e, così facendo, di interrompere la “polizia” intesa come logica del sociale: la logica che assegna le persone ai loro luoghi e alle loro identità sociali, che le rende identiche alle loro funzioni.
In effetti, il maggio ’68 ebbe ben poco a che fare con gli interessi del gruppo sociale — gli studenti o i “giovani” — che diede il via all’azione. I cosiddetti “eventi di maggio” consistevano principalmente nel fatto che gli studenti cessassero di funzionare come studenti, i lavoratori come lavoratori, e i contadini come contadini: il ‘68 fu una crisi del funzionalismo. Il movimento prese la forma di esperimenti politici di declassificazione, interrompendo la “naturalità” dei luoghi; consistette in movimenti che portarono gli studenti fuori dall’università, incontri che riunirono contadini e operai, o che diressero gli studenti verso la campagna—traiettorie e direzioni che portavano fuori dal Quartiere Latino, verso le case dei lavoratori e i quartieri popolari; un nuovo tipo di organizzazione di massa (contro la guerra d’Algeria nei primi anni ’60, e più tardi contro la guerra del Vietnam) che implicava una dislocazione fisica. E in questa dislocazione fisica si scopriva una dislocazione dell’idea stessa di politica—spostandola fuori dal suo luogo, dal suo luogo proprio, che in quel momento per la sinistra si identificava con il Partito Comunista.
La logica con cui la polizia operò in tutto questo periodo era intesa a separare gli studenti dai lavoratori, impedirne i contatti reciproci, isolare gli studenti nel Quartiere Latino, prevenire l’interazione tra i due gruppi durante la battaglia di giugno alla fabbrica di Flins e altrove. La veemenza con cui questo lavoro fu svolto—sia dai funzionari della CGT, sia da de Gaulle, dal Partito Comunista, o dai semplici poliziotti—dà un’idea della minaccia che una tale istanza politica rappresentava.
Il maggio ’68 aveva meno a che fare con l’identità o gli interessi degli “studenti” in quanto tali, quanto con una disgiunzione o una frattura creata all’interno di quella identità. Quella disgiunzione, come Rancière ha suggerito altrove, prese la forma di un’apertura politica all’alterità (rappresentata dai due classici “altri” della modernità politica, il lavoratore e il soggetto coloniale), che fu essa stessa il risultato della memoria storica e politica particolare di quella generazione, una memoria legata e inscritta nella decolonizzazione[9]. (E la storia della decolonizzazione fu, naturalmente, una storia in cui la polizia giocò un ruolo di primo piano).
Fu questa disgiunzione che permise agli studenti e agli intellettuali di rompere con l’identità di un particolare gruppo sociale con particolari interessi egoistici e accedere a qualcosa di più ampio, alla politica nel senso che Rancière le attribuisce, o a ciò che Maurice Blanchot ha individuato come la forza specifica del ‘68: “nell’azione cosiddetta ‘studentesca’, gli studenti non agirono mai in quanto studenti, piuttosto in quanto portavoce e rivelatori di una crisi generale, come detentori di un potere di rottura che metteva in discussione il regime, lo Stato, la società.”[10] Essi agirono in modo tale da mettere in discussione la concezione del sociale (il sociale in quanto funzionale) su cui lo Stato basava la sua autorità di governo. L’apertura politica all’alterità permise agli attivisti di creare una frattura in quell’ordine di cose, di cambiare, seppur per poco, i luoghi assegnati dalla polizia, di rendere visibile ciò che non era visto, di far udire ciò che non poteva essere udito.
Per dimostrarlo, dobbiamo mantenere attiva la tensione all’interno del “’68”, inteso come al contempo un evento (un punto preciso nel tempo, un momento in cui, in effetti, “qualcosa è accaduto”), e come un periodo di circa vent’anni che si estende dalla metà degli anni ’50 alla metà degli anni ’70. Fu un evento, nel senso che Alain Badiou ha dato al termine: qualcosa che arriva in eccesso, al di là di ogni calcolo, qualcosa che sposta persone e luoghi, che propone una situazione interamente nuova per il pensiero.[11] Fu un evento nel senso che migliaia—persino milioni—di persone furono condotte infinitamente oltre ciò che la loro educazione, la loro situazione sociale, la loro vocazione iniziale avrebbero permesso loro di prevedere; un evento nel senso che la partecipazione reale—molto più di una vaga solidarietà formale, molto più persino di idee condivise—ha alterato il corso delle vite. Ma non fu, come molti lo hanno descritto in seguito, una sorta di incidente meteorologico nato da congiunture planetarie impreviste o, come si sente spesso dire, “un fulmine a ciel sereno.” Nel 1968 il cielo era già nero e tempestoso. Fu un evento che richiese una lunga preparazione, fin dalla mobilitazione contro la guerra d’Algeria, e che ebbe un’immediata vita postuma che continuò almeno fino alla metà degli anni ’70.
Ciò che la periodizzazione più lunga mi consente di argomentare è che il maggio ’68 non fu una grande riforma culturale, una spinta verso la modernizzazione, o il sorgere di un nuovo individualismo. Non fu affatto una rivolta della categoria sociologica dei “giovani”. Fu la rivolta di una sezione storicamente situata di lavoratori e studenti, per alcuni dei quali la guerra in Algeria fu lo sfondo della loro infanzia, la cui adolescenza o età adulta coincise con il massacro di centinaia di lavoratori algerini per mano della polizia di Papon il 17 ottobre 1961, con Charonne e gli attacchi quasi quotidiani dell’OAS.
Queste persone non erano necessariamente della stessa età, né si erano tutte imbarcate nello stesso percorso politico; ma ognuna di loro ebbe modo di vedere, nel contesto degli ultimi anni della guerra d’Algeria, come il regime gollista intendeva usare la sua polizia. La prossimità del ’68 agli eventi algerini di pochi anni prima sarebbe stata la prima e la più importante delle dimensioni del ’68 a essere dimenticata nella vulgata ufficiale prodotta negli anni ’80. Già nel 1974, tuttavia, l’attivista Guy Hocquenghem era consapevole del modo in cui l’Algeria e altre regioni del mondo su cui la Francia si era intensamente concentrata nel 1968 stavano svanendo dalla memoria collettiva: Paesi, interi continenti sono svaniti dalla nostra memoria: l’Algeria della guerra, la Cina di Mao, il Vietnam, memorie dissolte o volate via tra il frastuono assordante delle bombe e delle battaglie. Non ci è stato quasi neanche dato il tempo di fantasticare su di loro — questi paesi erano per noi già scomparsi.[12]
[1] Wolf Lepenies, Institute for Advanced Study, Princeton, October 1999.
[2] L’idea che “Il ’68 di Praga ha abbattuto il Muro di Berlino” in una sorta di rapporto diretto di causa ed effetto solleva in sé domande fondamentali sulla causalità storica, specialmente dato che gli insorti a Praga nel 1968 (a differenza di quelli del 1989) non sembravano considerare le loro aspirazioni per una maggiore democrazia come in alcun modo incompatibili con il socialismo. Cfr. Jean-François Vilar, “Paris-Prague: Aller simple et vague retour,” Lignes 34 (maggio 1998): 87: “Il fatto è che nessuno, in Cecoslovacchia [nel 1968], immaginava di allontanarsi da uno schema socialista. Il fatto è anche che nel 1989-90 quasi nessuno difendeva la sistemazione del sistema sociale all’interno del quadro di qualsiasi tipo di ‘socialismo’.” Vilar, residente a Praga, afferma che il 1968, nell’ex Cecoslovacchia, lungi dal rappresentare il momento fondativo liberatorio nel cammino verso il presente, è invece “quasi mai oggetto di pensiero, se non tra amici”. A livello di storia ufficiale, sarebbe meglio scordarsi del ’68 di Praga, essendo le sue aspirazioni incompatibili con la moderna democrazia di mercato, invece di esserne la causa o l’anticipazione come immaginano Wolf Lepenies e altri come lui.
[3] Cfr p.e. Gilles Lipovetsky, L’ère du vide: Essais sur l’individualisme contemporaine (Paris: Gallimard, 1983).
[4] Maurice Dugowson, “Histoire d’un jour: 30 mai 1968” documentario televisivo, Europe 1, France 3, 1985.
[5] Raymond Aron, The Elusive Revolution: Anatomy of a Student Revolt (New York: Praeger, 1969), 41.
[6] Jacques Ranciere, Aux bords du politique (Paris: La fabrique, 1998), 177.
[7] “Signor preside, non sono mica uno sbirro”. Cfr. Henri Lefebvre, citato in Kristin Ross, ”Lefebvre on the Situationists: An Interview” October 79 (winter 1997): 82.
[8] Presente in L’Entretien infini (Paris: Gallimard, 1969), 355–66. (La conversazione infinita)
[9] Cfr. Jacques Ranciere, intervista,“Democracy Means Equality,” Radical Philosophy 82 (March/April 1997): 33.
[10] Questo testo è stato pubblicato in origine a nome del Comite d’Action Etudiants-Ecrivains.
to Maurice Blanchot and reprinted in Lignes 33 (March 1998): 177.
[11] Vedi Alain Badiou, “Penser le surgissement de l’evenement,” Cahiers du Cinéma, numero speciale“Cinema 68,” May 1998, 10.
[12] Guy Hocquenghem, L’après-Mai des faunes (Paris: Grasset, 1974), 35.