Scambiata per onnipotente, in ogni comunità la classe dirigente resta al potere soltanto se incontra il sentimento della popolazione. Pure nelle peggiori dittature. Ce lo spiega la grande letteratura.

Alla base della teoria elitista troviamo un assunto molto semplice: qualsiasi società, in ogni tempo, è sempre organizzata verticalmente. Gaetano Mosca, tra i principali teorici dell’elitismo, inaugura il suo Elementi di Scienza politica sostenendo che «è fatale che i pochi comandino e i molti obbediscano», e che una classe, «la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento»[1]. Questo principio minoritario può applicarsi a qualsiasi tipo di governo, monarchico o repubblicano, aristocratico o democratico che sia. La storia, quindi, non contempla mai una lotta tra minoranze e maggioranze, governanti e governati, élite e popolo, ma è un avvicendarsi di lotte tra gruppi ristretti di persone che si organizzano per conquistare il potere, ognuno dei quali utilizza tutti gli strumenti – materiali o immateriali – che ha a disposizione per capitalizzare il consenso e decretare la sua elezione. Ma cosa determina l’ascesa di un’élite rispetto a un’altra? Su quali principi si basa il meccanismo di circolazione dell’élite? Cosa rende legittima una minoranza nell’esercizio del potere sulla maggioranza? Per provare a rispondere a queste domande, oltre ad attingere dai grandi classici dell’elitismo, guarderemo ad alcuni classici della letteratura che sono riusciti a raccontare e sciogliere, con una potenza immaginifica spesso superiore a quella dei manuali di sociologia, la complessità di questo fenomeno.

Innanzitutto, ogni élite ha bisogno d’essere riconosciuta come tale per esercitare le sue funzioni e occupare una posizione dominante. Il concetto di legittimità, secondo tutto il pensiero elitista, è la chiave di volta per capire il rapporto che sussiste tra i governanti e i governati, la classe dirigente e quella diretta, ma anche tra le élite e il potere. Credere che le élite detengano un potere amplissimo e che possano agire incondizionatamente, rispondendo soltanto alla propria volontà e alla propria coscienza, non può che condurci in una spirale di dietrologie e di complottismi tanto ingenui quanto è ingenuo credere il contrario, ossia che le élite non abbiano alcun potere. Le élites sono tali – e quindi meritano di assolvere alle funzioni dirigenziali, intellettuali e amministrative di una società – proprio perché in grado di offrire delle prestazioni effettive che le rendono legittime agli occhi delle classi subalterne. Questa idea la troviamo espressa chiaramente da Thomas Hobbes nel Leviatano, quando ipotizza un patto tra una cittadinanza che, rinunciando alla libertà, trasferisce i propri diritti a un sovrano in cambio di sicurezza e incolumità.

Si tratta dello stesso atto di sottomissione intenzionale di cui parla Etienne de La Boetie nel suo noto Discorso sulla servitù volontaria. Le masse non sono costrette a obbedire, ma si fanno complici del proprio tiranno/assemblea/parlamento per ricavarne dei vantaggi. Ogni élite, in ogni tempo, pattuisce con la propria base un contratto più o meno indiretto, stabilendo così lo status quo. Questo scambio viene dichiarato legittimo quando le prestazioni dell’élites sono soddisfacenti e la minoranza al potere si mostra capace di produrre cambiamento e innovazione, interpretando le esigenze delle masse e corrispondendone le aspettative fondamentali.

Inversamente, quando un’élite non riesce a tradurre gli umori del popolo e a rispondere alle sue urgenze, iniziano dei periodi, non per forza brevi, di illegittimità, e quindi di instabilità politica, a cui segue, inevitabilmente, il suo decadimento. Attraverso questa chiave si possono leggere tutti i grandi sconvolgimenti storici: sommosse, ribellioni e rivoluzioni sono fenomeni che avvengono quando lo scambio è iniquo e le opere delle élites sono sempre più scadenti per legittimarne l’elezione agli occhi di una massa subalterna che non trova più vantaggioso pagare il costo della propria obbedienza. Una nuova élite, con nuove qualità, fa la sua comparsa sulla scena politica per spodestare la precedente.

Che tipo di prestazioni deve offrire un’élite per detenere legittimamente il potere? Di epoca in epoca, inevitabilmente, il pacchetto dei servizi che un’élite deve offrire varia in base a «i mutamenti strutturali intervenuti nella società, che nei diversi periodi storici privilegiano determinate qualità a scapito di altre e in maggiore o minor misura.

È mutando dunque i bisogni della società, che mutano in parallelo le qualità richieste ai membri dell’élite, e in particolare delle élite di governo».[2]

Gaetano Mosca sostiene che queste trasformazioni sociali, politiche, culturali, comportano la variazione delle qualità di cui devono disporre le élite per occupare il potere.

«Così, nelle società primitive, che sono ancora nel primo stadio della loro costituzione, la qualità che più facilmente apre l’accesso della classe politica o dirigente, è il valore militare», nelle società aristocratiche si parla invece di caste ereditarie, in quelle a forte credenza religiosa «si costituisce quasi sempre un’aristocrazia sacerdotale», mentre nelle società avanzate, invece, come «negli Stati Uniti d’America, tutti i poteri escono direttamente od indirettamente dalle elezioni popolari ed il suffragio è, in quasi tutti gli Stati, universale». Ma, continua Mosca, «in tutti i paesi del mondo, altri mezzi d’influenza sociale, quali sarebbero la notorietà, la grande cultura, le cognizioni speciali e i gradi elevati nelle gerarchie ecclesiastiche, amministrative e militari, si acquisiscono sempre molto più facilmente dai ricchi anziché dai poveri». In ogni caso «se in una società si afferma un nuovo cespite di ricchezza, se cresce l’importanza pratica del sapere, se l’antica religione decade o una nuova ne nasce, se una nuova corrente di idee si diffonde, contemporaneamente avvengono forti spostamenti nella sua classe dirigente»[3].

Le élite, per rimanere tali, per non decadere, sono costrette a perenni cicli di innovazione della loro offerta e che questa sia sintonizzata il più possibile sulle necessità e i bisogni, sia materiali che simbolici, del popolo che è eletta a governare. Anche la gestione dei simboli e del senso dell’esistenza è un fattore imprescindibile di legittimità. Detenere il monopolio della forza non è sufficiente e un’élite che è incapace di profilare uno scopo, di indicare una via, di inventare un futuro è destinata al fallimento. Le élite devono sapere gestire per Gaetano Mosca delle “formule”, Guglielmo Ferrero li chiama “geni”, mentre Georges Sorel parlava di “miti”, ma tutti e tre questi concetti vogliono dire più o meno la stessa cosa.

Non si tratta di argomentazioni razionali o prestazioni immediatamente quantificabili, ma di immagini motrici, spesso capaci di essere comprese per sola intuizione, precedendo qualsiasi riflessione. Il mito non è giusto o sbagliato, ma va al di là del bene e del male, risponde solo a un principio operativo, o funziona o non funziona: «la sua socializzazione va di pari passo con la sua sacralizzazione» dice Julien Freund.

L’idea, per esempio, di un re che sia tale per “volontà divina”, è un mito che si è rivelato per molto tempo fecondo, producendo adesione nel popolo, rispondendo a una domanda di senso collettiva, finché non si è esaurita, con il mutare degli eventi e degli spiriti.

Guglielmo Ferrero, tra i maggiori storici del Novecento, giustifica così il decadimento del principio di legittimità “divino” che sottostava alla monarchia. «A partire dal secolo XVI l’oro e l’argento dell’America provocano in Europa le prime febbri dell’inflazione: Calvino autorizza l’interesse del denaro; i mercanti si arricchiscono, le industrie si sviluppano e gli artigiani si moltiplicano. Nello stesso tempo il Rinascimento classico laicizza la cultura. Le prime scoperte dell’erudizione e della stampa, l’astronomia di Copernico e di Galileo, la colonizzazione dell’America, la moltiplicazione della ricchezza, lo sviluppo degli eserciti accrescono la fiducia degli uomini e della loro intelligenza. Lo spirito critico si risveglia […]. La scienza delle scienze del medioevo – la teologia – declina e i fervori mistici cominciano a intiepidirsi: preparazione dell’incredulità generale delle classi superiori durante il secolo XVIII».[4]

Ugualmente feconda è stata la narrazione marxista, la più grande e coinvolgente mitopiesi contro lo Stato borghese e i suoi rappresentanti, capace di innescare sommosse e rivoluzioni in tutta Europa, capeggiate da una nuova élite che ha saputo abilmente maneggiare le formule socialiste per convogliare su di se il consenso e, laddove non è riuscita a ribaltare integralmente il sistema, nella sua declinazione riformista è stata cooptata dalla vecchia élite, occupando un numero consistente di seggi parlamentari e partecipando all’esercizio del potere, un potere che necessitava di rinnovare la propria offerta sotto una veste socialisteggiante per rispondere alle nuove esigenza di uguaglianza e di equità che venivano da una base proletaria in ascesa, ora illuminata dal Manifesto del Partito Comunista.

Un potere che aveva bisogno di cambiare tutto, per non cambiare niente, in fondo.

A questo punto sembra chiaro che ogni élite, in ogni tempo, debba fare sempre i conti con quelle che Antonio Gramsci chiama, con una certa eloquenza letteraria, le «forze vive della storia». È chiarificante, in proposito, citare il celebre romanzo di Lev Tolstoj, Guerra e Pace, pubblicato tra il 1865 e il 1869, in cui lo scrittore russo scrive della storia come di un’oggettivazione del soggetto, costretto ad agire da un’infinità di forze eterogenee e incontrollabili, risultato di altrettante concatenazioni aleatorie di fatti.

«I cosiddetti grandi personaggi sono delle etichette che danno il nome a questo o a quell’avvenimento e che, alla pari delle etichette, poco hanno a che fare con l’avvenimento in se stesso. Ogni azione che costoro compiono e che ad essi pare libera di fronte alla loro propria volontà, sotto il suo aspetto storico non è libera, ma viene a trovarsi collegata con tutto il corso della storia». Victor Hugo, con toni ben più aulici, dice sostanzialmente la stessa cosa riguardo alla battaglia di Waterloo: «era possibile che Napoleone vincesse questa battaglia? Noi rispondiamo di no. Perché? A causa di Wellington? A causa Blücher? No. A causa di Dio… Napoleone era stato denunciato nell’infinito e la sua caduta era stata decisa. Egli era d’impaccio a Dio. Waterloo non è una battaglia: è il mutamento di fronte dell’universo».

Questo mutamento di fronte dell’universo può essere inteso come il cambiamento di quelle forze vive – quindi credenze, opinioni, stili e modi di vita, rinnovamenti sociali, filosofici, artistici e scientifici – che operano nella storia.
Un altro esempio che espone con grande profondità di spirito questa costante storica dei rapporti tra le élite e il potere è Il Gattopardo di Filippo Tomasi di Lampedusa, attraverso i due personaggi principali del romanzo, Don Fabrizio, il principe di Salina, e suo nipote Tancredi. Se Don Fabrizio incarna la vecchia élite borbonica, con le sue antiche tradizioni, i suoi valori e le sue idee, il giovane Tancredi è la più limpida e precisa personificazione dello zeitgeist, dello Spirito del tempo. La vicenda è ambientata nel mezzo dei moti risorgimentali e il giovane blasonato sceglie, pur appartenendo alla classe aristocratica borbonica, di partecipare alla spedizione garibaldina, per orientarla in chiave moderata e monarchica, premendo per una trasformazione apparente e non sostanziale delle cose.

«Segue i tempi […] in politica come nella vita privata», è «astuto e tempista», si immerge nel corso degli eventi e le sue doti trasformiste lo inducono ad allearsi con la borghesia in ascesa, rappresentata nel romanzo dalla famiglia Sedàra, prendendo in sposa la figlia di Don Calogero, la bellissima ma popolana Angelica, per mantenere e conservare così i suoi antichi privilegi, quelli economici in primis. Tancredi deve cambiare tutto, come dice lui stesso, per fare sì che nulla cambi. Don Fabrizio invece, pur consapevole dei grandi sconvolgimenti che si prospettano, si astrae dalla dimensione presente che segue con distacco, indifferenza e disprezzo. Egli tuttavia non la nega e non vi si oppone, ma, allo stesso tempo, non se ne fa partecipe e rifiuta di accettare la carica di senatore del Regno Sabaudo. Un rifiuto dettato da quella che l’autore chiama “rigidità morale” e che possiamo spiegare come l’inadeguatezza, o l’incapacità di interpretare il nuovo corso del mondo e le esigenze delle masse che premono per un cambiamento. Don Fabrizio, come Napoleone, è impotente di fronte al mutamento di fronte dell’universo. I suoi valori, quelli di un’antica aristocrazia in via d’estinzione, i suoi modi, i suoi ideali e le qualità per le quali in passato era legittimamente parte della classe dominante, adesso non valgono più nulla, non sono merce spendibile nel nuovo contesto storico. Così anche nei Viceré di De Roberto, Consalvo Uzeda dice alla zia Ferdinanda, indispettita dall’avvento delle istanze democratiche: «Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dal re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto […] il mutamento è più apparente che reale […]. La storia è una monotona ripetizione». Anche lui si accorge che è cambiata la fonte della sua legittimità e che se vuole mantenere il potere, deve in qualche modo adeguarvisi. 

Il rapporto delle élites con il potere, quindi, non è consustanziale, ma quasi gravitazionale: le élite orbitano intorno a un potere, a delle “forze vive” in perpetuo cambiamento, determinate dai mutamenti paradigmatici che avvengono in tutti campi della vita umana, in quelli economici, spirituali, religiosi, filosofici e scientifici. La legittimità di un’élite sembra quindi dipendere dalla capacità di farsi espressione attiva di un sistema-mondo, ingranaggio di un grande meccanismo in cui si relazionano modi e rapporti di produzione con un’altra serie di concause immateriali, profonde, irrazionali. Il potere di cui l’élite è emanazione non è una libertà positiva, non è una libertà da qualcosa, ma una libertà in quanto acquiescenza alle forze che, di epoca in epoca, muovono il mondo. La domanda che si pongono le élite – politiche, economiche, intellettuali – non può mai essere “cosa voglio?” (sarebbe inconcludente e secondaria), ma: “cosa devo fare per conservare il potere?”.

Il che equivale a domandarsi quali formule (Mosca), quali miti (Sorel) o geni (Ferrero), quali residui (Pareto) devo adottare e gestire per essere élite? Il loro sorgere e il loro tramontare si basa tutto su questa incognita. Quando queste formule esauriscono il loro potenziale “narrativo” ed “escatologico”, o ancora quando le performance effettive di un’élite sono in una fase di rendimento decrescente – si potrebbe applicare la teoria di Ricardo non solo agli Stati ma anche all’élite – segnalando la diminuzione della loro produttività marginale, allora si inaugura una fase di declino.

Allo stesso modo se trasliamo la riflessione di Schumpeter, grande lettore di Pareto, dall’economia alla sociologia, sembra chiaro che le minoranze organizzate decadono perché non sono più in grado di innovare, perché il loro ciclo innovativo ha esaurito la domanda e la loro offerta non trova più riscontro in un mercato che nel frattempo è cambiato.

Un’altra élite, con un’offerta diversa, arriva a conquistare il potere, oppure quella precedente, consapevole delle sue mancanze, è abbastanza astuta da cooptare la nuova élite in ascesa al suo interno, portando dei fattori di innovazione che gli consentano di rispondere a quei principi di legittimità che intanto sono mutati.[5]

Perciò si deduce che gli sconvolgimenti storici non cambiano l’impostazione verticale della società, ma solo il succedersi dei principi di legittimità, dei miti e delle formule che ogni élite è costretta a gestire per conquistare il potere. David Beetham, tra i principali interpreti di Weber, sostiene che «la partecipazione delle masse alla vita politica non comportava il mutamento della oligarchia, ma piuttosto un mutamento dei metodi della sua selezione, del tipo di persone che avrebbero raggiunto il vertice, e delle qualità necessarie all’effettivo esercizio del potere. L’avvento della democrazia di massa mutava le regole della selezione, ma non il fatto in sé della selezione».[6] Una conclusione, questa, che dà ragione alla frase-manifesto del Gattopardo, pronunciata, come già detto in precedenza, dal giovane e astuto Tancredi: «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

I cambiamenti che vediamo intorno a noi sono più formali che sostanziali: crollano imperi e ne sorgono di nuovi, decadono dinastie per mano di altre, sulle ceneri di monarchie sorgono repubbliche e viceversa, i governi si susseguono, ma alla base di questi corsi e ricorsi storici rimangono immutati i principi di circolazione, di selezione, di ascesa e di decadimento delle élite. Illuminati dalla teoria elitista e dalla grande letteratura, capaci di cogliere i meccanismi profondi che muovono i protagonisti storici, a cui spesso, per comodità, attribuiamo i destini del mondo, quando essi ne sono soltanto la manifestazione apparente.


[1] G. MOSCA, Elementi di scienza politica, vol I, 1896, p. 78.

[2] P. GIOVANNINI, Re-reading Pareto: a guide to power studies, Cambio. Rivista sulle trasformazioni sociali, VII, 13, 2017

[3] AA. VV., Elites. Le illusioni della democrazia, Gog, Roma, 2017, p. 49.

[4] G. Ferrero, Potere, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea , p. 74

[5] «I principi di legittimità nascono, crescono, invecchiano e si spengono». G. Ferrero, op. cit., p. 67

[6] Beetham, La teoria politica di Max Weber, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 145