La tendenza burocratica ed oligarchica assunta dall’organizzazione dei partiti anche democratici è da considerarsi senza dubbio quale frutto fatale d’una necessità tecnica e pratica. Essa è il prodotto inevitabile del principio stesso dell’organizzazione.
Ma vi è ancora un altro coefficiente, che contribuisce non poco a produrre il medesimo effetto. Il moderno partito politico è altresì un’organizzazione di guerra. Come tale, esso deve piegarsi alle leggi della tattica. Ora, la legge fondamentale della tattica è la prontezza alla battaglia, la indefessa preparazione alla lotta. Senonché, democrazia e prontezza sono concetti assolutamente inconciliabili. Ciò venne riconosciuto già da Ferdinando Lassalle, il grande capo-partito socialista-rivoluzionario, quand’egli propugnò l’idea che la dittatura personale, esistente di fatto nella sua associazione, dovesse venir dichiarata giustificata dalla teoria e proclamata indispensabile in pratica. Egli stabilì esplicitamente che i soci dovevano lasciarsi guidare passivamente dal loro duce e che l’associazione doveva esser simile ad un martello nella mano del suo presidente. Questo era un precetto di necessità politica, specie poi in quei primordi del movimento operaio, ancora puerilmente maldestro; ed era anche l’unico modo per assicurarsi potenza e stima di fronte ai partiti della borghesia. La rapidità delle decisioni restava garantita dal centralismo.
Restava, e resta. Una grande organizzazione è già in sé un ingranaggio di molta pesantezza. Le grandi distanze, e la perdita di tempo che deriverebbe, se si volesse spiegare alle masse i singoli problemi quotidiani che richiedono decisioni rapide, sia pur solo affinché esse acquistino una capacità relativa a farsi un giudizio, comportano l’impossibilità d’un regime democratico nella sua schietta forma originaria, giacché con questo non si potrebbe fare se non una politica di ritardi e di buone occasioni mancate; né in tale modo il partito politico riuscirebbe comunque a conservare la sua attitudine a stringere alleanze politiche e la necessaria duttilità tattica. In altri termini, il regime democratico non è affatto confacente ai bisogni primordiali del partito politico. Al partito che conduca una guerra – ed anche solo una guerriglia – occorre una armatura gerarchica. Senza di che, esso potrebbe paragonarsi alle sterminate orde amorfe e selvagge degli africani, la cui arte guerresca naufraga nella mischia con un qualsiasi battaglione ben disciplinato di soldati addestrati all’europea.
Così adunque – per motivi d’indole tecnico-amministrativa e di tattica – si forma un corpo direttivo di professione, il quale, sulla base di procure, accudisce da padrone agli affari della massa. Le masse delegano un piccolo numero di singoli individui che le rappresenta permanentemente. Ora l’inizio della formazione d’un corpo direttivo di professione denota il principio della fine della democrazia. E ciò in prima linea per la logica impossibilità dello stesso sistema di rappresentanza.
Rousseau ed i socialisti francesi della prima metà del secolo XIX hanno enunciato una profonda verità quando sostenevano che una massa che deleghi la propria sovranità, ossia la conferisca ad un esiguo numero di individui, abdica alla sovranità. Egli è che la volontà di un popolo non è conferibile, e nemmeno quella d’un singolo individuo. Ciò vale in grado ancor maggiore per un’epoca, ove la vita politica assume forme di giorno in giorno più complesse, e quindi ogni giorno più insensato diventa il voler “rappresentare” una massa in tutte le miriadi dei più svariatissimi problemi della vita politica ed economica. Rappresentare, significa spacciare la volontà di un singolo per volontà d’una massa. In casi particolari ed in questioni ben delineate e semplici, l’identificazione sarà anche conforme a verità. Ma una rappresentanza prolungata significa senz’altro il dominio dei rappresentanti fondato su un equivoco.
Il formarsi d’un gruppo direttivo di professione conduce altresì ad un aumento considerevole della disparità di cultura che intercede tra i condottieri e i condotti. Una lunga esperienza, basata sulla storia, insegna che gli elementi del dominio esercitato dalla minoranza sulla maggioranza vengono formati sopra ogni altra cosa, oltre che dal fattore del denaro e del capitale – superiorità economica – e dal fattore della tradizione e della educazione – superiorità storica – dal fattore della cultura – superiorità intellettuale. Ora, nei partiti del proletariato ci colpisce al primo sguardo il fenomeno che, in fatto di cultura, i duci sono di gran lunga superiori all’esercito.
Questa superiorità è in prima linea d’ordine puramente formale. In Paesi ove lo sviluppo politico ed una spiccata predisposizione psicologica di quella sotto-classe della borghesia, che diremmo intellettuale, fanno affluire al partito dei lavoratori un gran numero di avvocati, di medici e di professori universitari, come in Italia, tale superiorità si constata facilmente. Non ad onta, anzi, appunto a causa della superiore cultura formale da essi acquistata nel campo nemico, e che portano con sé nella loro diserzione nel campo dei proletari, i fuoriusciti della borghesia diventano i capi del proletariato organizzato.
In altri Paesi gli strati della borghesia incalzano contro i rivoluzionari con un’intransigenza così accanita da additare i propri elementi, passati al partito operaio, al completo boicottaggio sociale e politico; e le classi lavoratrici, in virtù della meravigliosa organizzazione dello Stato, e sotto la pressione della grande industria, che esige dai propri addetti un certo grado d’intelligenza, si trovano in possesso d’una cultura scolastica, sia pure elementare, che esse spesso procurano d’estendere e di completare con diligenti studi privati. In questi ultimi Paesi rintracciasi, alla testa dei lavoratori, accanto a un piccolo numero di intellettuali, una immensa maggioranza di ex operai.
Epperò anche questi ex operai non si trovano più al medesimo livello di cultura dei loro antichi compagni. Il meccanismo del partito, col suo gran numero d’impieghi e di cariche onorifiche, offre agli operai la possibilità di far carriera; e spiegando in tal guisa una forza d’attrazione non comune, tende alla trasformazione, intesa in senso sociale, di una schiera di proletari, più o meno intelligenti, innalzandoli alla qualità d’impiegati fissi del partito e mettendoli quindi nelle condizioni di esistenza della piccola borghesia; e ciò col procurare loro, a proprie spese, agio e opportunità di acquistarsi una cultura superiore ed una certa cognizione delle cose della vita pubblica. In tal tirocinio gli ex operai acquistano una routine, che li rende sempre più superiori ai loro mandanti, e fa sì che finiscano col perdere il sentimento della propria comunanza colla classe da cui ebbero origine. Fra i capi proletari e l’esercito proletario sorge una vera differenza di classe sociale. In questo modo i lavoratori, colle loro proprie forze, si creano dei nuovi padroni i quali possono contare, nell’arsenale degli strumenti di dominio, come su una delle loro armi più potenti, soprattutto sull’incremento della propria cultura dovuta agli oboli dei loro compagni nelle fabbriche.
Prescindendo dagli anarchici – che in politica esercitano scarsa influenza, e inoltre in parte si oppongono a qualsiasi organizzazione, oppure sono organizzati in organizzazioni così rilassate ed elastiche da non poter esser propriamente considerate come formanti un partito – tutti i partiti hanno un obiettivo parlamentare. La via su cui essi muovono è la via legalitaria ed elettorale; loro scopo immediato è il conseguire influenza in parlamento; loro ultima finalità è la cosiddetta conquista del potere politico. In tale guisa resta spiegato perché anche i rappresentanti dei partiti rivoluzionari entrino a far parte della assemblea legislativa. Ma il lavoro parlamentare che essi vi compiono, dapprima controvoglia, poi con crescente compiacimento ed interesse, li trasporta ancor sempre più lontano dai loro elettori. Le questioni che lor si presentano e che esigono di venir da essi seriamente studiate, hanno per effetto di allargare e di approfondire le loro cognizioni e di aumentare quindi sempre di più il divario tra loro e i compagni rappresentati.
Non è, adunque, soltanto un divario puramente iniziale tra i rappresentanti dei partiti detti rivoluzionari e i loro compagni, che l’attività parlamentare ingrandisce. Addestrandosi nei dettagli della vita politica, nei particolari della legislazione, delle questioni tributarie, delle questioni daziarie e nei problemi della politica estera, i capi acquistano un valore che – almeno finché la massa si attiene alla tattica parlamentare, ma forse anche se vi rinunzia – li rende indispensabili al partito; e ciò per il fatto ch’essi ormai non potrebbero più venir sostituiti senz’altro da altri elementi del partito non facenti parte del meccanismo burocratico perché accudiscono invece alle loro quotidiane occupazioni, che li assorbono completamente.
E così dalle cognizioni di causa vien virtualmente creata, anche in questo campo, una inamovibilità che è in contraddizione coi princìpi fondamentali della democrazia. Le cognizioni di fatto che innalzano definitivamente i capi al di sopra della massa rendendosela schiava, acquistano una base ancor più salda per i bei modi e pel savoir faire in società, che i deputati imparano nei parlamenti, come pure per lo specializzarsi, frutto in particolar modo del lavoro compiuto nella camera oscura delle commissioni. Com’è naturale, essi applicano poi gli stratagemmi, ivi appresi, anche nei loro rapporti col partito. Con ciò riescono facilmente a vincere eventuali correnti loro contrarie: nell’arte di dirigere le adunanze, di applicare ed interpretare il regolamento e il programma, di presentare opportuni ordini del giorno in momenti opportuni, in breve, negli artifici atti a toglier di mezzo dalla discussione i punti importanti ma loro ostici od anche ad indurre una maggioranza mal disposta a votare in loro favore o, nel caso più sfavorevole, a farla ammutolire, essi sono maestri. Quali relatori e competenti che conoscono persino i più reconditi penetrali del tema che han da trattare, e che a forza di raggiri, parafrasi ed abilità terminologica, san trasformare anche le questioni più semplici e più naturali del mondo in tenebrosi misteri, dei quali essi soli possiedono la chiave, essi sono, in linea intellettuale, del tutto inaccessibili e, in linea tecnica, del tutto incontrollabili da parte delle grandi masse, di cui ognuno di essi si atteggia ad essere “l’esponente teorico”.
Essi sono i padroni della situazione. In questa posizione essi vengono vieppiù fortificati dalla fama che si vanno acquistando, sia come oratori, sia come studiosi o conoscitori di determinate materie, sia anche con le attrattive della loro personalità – intellettuale oppure soltanto fisica – nella stessa sfera dei loro avversari politici e, per tal modo, anche nell’opinione pubblica. Se le masse organizzate congedassero uno dei loro leader, generalmente riconosciuto e stimato, il partito dovrebbe subirne la conseguenza con un discredito di non poco momento agli occhi della gente.
Se adunque le masse del partito spingessero le divergenze fra loro ed i duci ch’esse medesime si sono eletti fino al punto della rottura completa, esse rimarrebbero “senza capo” nel doppio senso della parola, anche perché da una simile situazione deriverebbe loro un danno politico incommensurabile. E ciò non soltanto perché esse non dispongono, così senz’altro, di sufficiente qualità e quantità di forze nuove, tali da poter sostituire le forze vecchie che, grazie ad una pratica di decenni, conoscono a fondo la materia politica, ma anche perché alla personale influenza ed alla salda autorità parlamentare dei capi, esse devono buona parte dei loro successi nel campo della legislazione sociale e nella sanzione di princìpi generali di libertà politica. Le masse democratiche si trovano perciò in una posizione senza uscita, dovendo concedere sotto pena di suicidio politico ai loro gros bonnets un potere che, a lungo andare, elimina il caposaldo medesimo della democrazia.
Il più forte diritto dei duci consiste nel fatto che essi sono indispensabili.
Così dunque al primo passo è seguito il secondo. La creazione di un ente direttivo di professione non fu che il preludio del formarsi di una direzione stabile ed inamovibile. Tale sviluppo viene ancora accelerato da certe qualità che son comuni a tutto il genere umano. Ciò che fu iniziato da necessità d’organizzazione, d’amministrazione e di strategia, verrà ultimato da necessità psicologiche. La coscienza della propria forza suole destare la smania di dominio, latente in ogni cuore umano. E’ questa una nozione elementare di psicologia. Di regola, chi giunge ad impadronirsi di un qualsiasi potere, sarà poi sempre intento a rafforzarlo e a consolidarlo, a circondare di nuovi baluardi la posizione acquisita, ed a sottrarsi al dominio e al controllo delle masse.
La naturale sete di comando dei capi viene assecondata dal naturale bisogno della folla di venir guidata, nonché dalla sua indifferenza. Nelle masse vi è proprio un profondo impulso a venerare chi sta in alto. Nel loro primitivo idealismo, esse han bisogno di divinità terrestri, alle quali si attaccano di affetto tanto più cieco, quanto più aspramente la durezza della vita le afferra.
Sovente questo bisogno di adorare è l’unico rocher de bronze che sopravviva alla metamorfosi delle loro convinzioni. Negli ultimi anni, gli operai delle fabbriche della Sassonia son divenuti, da pii protestanti che erano, socialisti-democratici. Può ben darsi che tale evoluzione abbia provocato in essi l’inversione di tutti i valori.
Ma dalla parete del modesto abituro essi non tolsero l’obbligatorio ritratto di Lutero che per sostituirlo con quello di Bebel, appunto come nell’Emilia, ove avendo i lavoratori della terra subito la medesima evoluzione, l’immagine della Madonna non cedette il posto che a quella dell’onorevole Prampolini, o a quella di Enrico Ferri, il “flagellatore della camorra”. Sotto le macerie del loro modo di pensare nel passato, la colonna trionfale del bisogno di adorare rimase in piedi ed intatta. Dalla delegazione, prende le mosse e si sviluppa il diritto morale alla delegazione. Chi sia stato delegato una volta, facilmente resta in carica, in quanto non glielo impediscano delle disposizioni statutarie, senza interruzione. L’elezione ad uno scopo determinato si muta in impiego a vita. La consuetudine diventa diritto. Il capo, che per un certo periodo di tempo sia stato successivamente delegato, finisce coll’aspirare alla continuazione della delegazione come a un suo buon diritto. Caso mai gli si negasse di continuare questo diritto, egli minaccia subito rappresaglie, tra le quali il dare le dimissioni è ancora la più innocua; e crea in tal modo gravi imbarazzi ai compagni del suo partito. Ma tali incidenti finiscono quasi sempre – e vedremo in seguito per quali motivi – colla vittoria del capo.
La composizione dei congressi del partito va diventando sempre più stabile. In altre parole: le masse tornano a rieleggere ogni volta i medesimi rappresentanti. Sicché i congressi, più che congressi di un dato partito, sembrano talvolta congressi di impiegati.
Anche i fortunati possessori delle posizioni più eminenti nel partito, che d’altronde vengono distribuite mediante elezioni indirette e che sono di loro natura cariche democratiche sottoposte a continuo mutamento, tentano di prolungare vita natural durante il termine della “procura generale” loro affidata. Lì pure l’incarico diventa un ufficio, e l’ufficio si tramuta in impiego fisso.
Nel regime dei partiti democratici, i capi diventano più inamovibili e più inviolabili di qualsiasi corporazione aristocratica. La durata media del loro ufficio sorpassa di gran lunga la durata media dell’ufficio di ministro negli Stati monarchici. Si è calcolata la durata media dell’ufficio di ministro in Germania a quattro anni ed un terzo. Invece, nella direzione del partito socialista tedesco, vediamo per oltre quarant’anni i medesimi uomini rivestire come capi le cariche ministeriali del partito stesso. La loro riconferma, richiesta dalle disposizioni statutarie dopo un periodo di tempo più o meno lungo, diventa una pura formalità, una cosa che va da sé.
Per capire questo fenomeno, bisogna spiegarlo prendendo in considerazione, più di ogni altra cosa, il gran fattore della tradizione, con la quale le masse rivoluzionarie si sono immedesimate non meno delle consorterie conservatrici. L’attenersi logico ai princìpi fondamentali della democrazia richiederebbe il non aver riguardo alcuno a tradizioni personali ed a sentimentalismi, ed esigerebbe anzi che la suprema direzione venisse cambiata ogni qual volta fosse necessario, in seguito al cambiamento della maggioranza nel seno del partito diviso in diverse correnti o tendenze.
In tali condizioni le forze vecchie tra i capi dovrebbero ceder il posto alle forze nuove, agli ultimi conquistatori del potere nel partito. D’altronde anche prescindendo da ciò, una massa, imbevuta di princìpi veramente democratici, dovrebbe forzatamente mirare a non lasciare troppo a lungo le stesse persone in una posizione di autorità e di impedire ch’essi si arrugginiscano acquistando la convinzione di non poter essere che loro gli eletti del popolo.
Invece, il misoneismo della tradizione insieme all’istintivo bisogno di una politica stabile, son causa del fenomeno che il corpo direttivo dei partiti democratici sia, quasi sempre, più l’espressione del passato che del presente. La direzione del partito – come avviene, a mo’ d’esempio, da oltre trenta anni nel partito socialista tedesco – viene riconfermata non già perché rappresenti, nel momento della riconferma, la risultante delle forze del partito, bensì pel semplice fatto che esiste. E’ la legge d’inerzia o, per servirsi di un termine eufemistico, la legge della stabilità, che prolunga ai capi il mandato sino alla loro morte.
Senonché un altro momento ancora, eticamente più attraente, coopera alla formazione di tale fenomeno: la gratitudine delle masse verso delle persone la cui opera, in fondo, è stata per esse di non poca utilità e che spesso, per amore della comune “idea”, han dovuto subire persecuzioni, esilio e carcere. E’ opinione assai diffusa nelle masse che sarebbero “ingrate” se non riconfermassero sempre di nuovo un duce “benemerito” nelle sue funzioni.
La mentalità speciale che, in tali condizioni, si va formando nei duci, è uguale in tutti i partiti. La differenza di cultura e di competenza, realmente esistente tra i membri del partito, spicca anche nella distribuzione degli incarichi. Forte della propria superiorità routinière i capi impongono alle masse obbedienza, in nome di quella. Sembra loro cosa rivoltante, che l’esercito degli organizzati agisca in senso contrario alle loro proposte, o non si pieghi alle loro ammonizioni. Di fonte a siffatte disobbedienze, essi non possono trattenersi dall’assumere un tono di vera indignazione. Essi riguardano come grande e deplorevole mancanza di tatto e di educazione da parte delle masse, il fatto che esse non tengano conto dei consigli dei rappresentanti, peccato tanto più grave in quantoché le masse, eleggendoli spontaneamente a capi, li hanno rivestiti, come essi credono, della stessa invulnerabile sovranità popolare.
I capi insistono sull’incapacità della folla a giudicare, per tenerla lontana dagli affari. Essi si convincono che al partito non può convenire che la minoranza dei compagni, avvezzi a seguire e ponderare le questioni politiche, venga sopraffatta dalla maggioranza, composta di coloro che non sono capaci di formarsi un giudizio in casi determinati; e perciò si dichiarano contro il referendum o, almeno, nella vita vissuta del partito, non ne fanno uso.
Per scegliere il momento propizio all’azione, occorre una perspicacia che soltanto pochi dei singoli componenti una massa possiedono, mentre la maggior parte di essi segue le impressioni e gli impulsi del momento. Un gruppo ristretto di impiegati e di fiduciari, che deliberino a porte chiuse, sottratti così all’influsso delle relazioni colorate e svisate della stampa, e dove ciascuno può parlare senza aver da temere che le sue parole vengano riportate nel campo avversario, ha maggiori probabilità di emettere come corpo deliberante un giudizio oggettivo.
Per sostituire, per quanto è possibile, l’elezione diretta con l’indiretta, si mette in campo, oltre ai motivi politici, la struttura complessa dell’organizzazione del partito; mentre per l’organizzazione dello Stato, che pure è tanto più complicata, si propugna, tra gli stessi capisaldi del programma, la legislazione diretta, chiedendo che si dia a ogni singolo cittadino il diritto di proporre leggi o di proporne l’eliminazione.
Quest’antinomia invade tutta la vita del partito. Ogni nuova corrente d’opposizione in seno al partito viene biasimata come se fosse nient’altro che un espediente di demagogia; l’appello diretto alla massa da parte degli elementi non soddisfatti dei dirigenti del partito, per quanto possano esser nobili i motivi che lo provocano, e sebbene esso sia da considerarsi senza dubbio quale diritto fondamentale d’ogni democrazia, viene respinto come scorrettezza o, addirittura, bollato col marchio d’infamia, quale maligno tentativo fatto unicamente per distruggere la disciplina del partito, e dietro istigazione di volgari sobillatori.
Oggetto di particolare zelo è il far sì che le masse, non foss’altro che per motivi tattici, a garanzia della necessaria coesione di fronte al nemico, non abbiano in alcun caso a perdere la fede nei dirigenti che si sono dati. Questo è il criterio, in base al quale ogni severa critica sull’oggettiva manchevolezza del movimento vien tacciata di attentato contro il partito stesso, e gli uomini che fanno capo all’opposizione vengono messi alla gogna come detrattori e nemici del partito e delle masse.
Non v’è chi non veda come la tattica e la pratica del partito rivoluzionario non si allontanino granché dalla tattica e dalla pratica del governo borghese. Persino la terminologia nella lotta del governo contro i sovversivi e delle lotte del socialismo ufficiale contro i “miserabili” è – riservatis riservandis – identica. I medesimi rimproveri contro i ribelli; i medesimi argomenti a difesa dello status quo; lì, conservazione dello Stato, qui, conservazione del partito nella sua forma attuale; la medesima confusione di idee nello stabilire il rapporto tra cosa e persona, tra individuo e collettività.
Non v’è quasi capo-partito importante, che non pensi e non agisca e – se è uomo risoluto e di carattere onesto – non dica apertamente: Le parti c’est moi!, parafrasando il motto attribuito al Re Sole.
L’identificazione del burocrate con tutto il partito, e degli interessi dell’uno con gli interessi dell’altro, ben spesso non potrebbe esser più completa. Se il capo viene aggredito, la prima cosa che egli fa è di riferire l’attacco al partito; e ciò non soltanto per considerazioni di opportunità, ossia per assicurarsi in tal modo l’appoggio di tutto l’ente a scopo di atterrare l’aggressore col peso e colla preponderanza della massa, ma altresì per ingenua confusione tra la particella e il tutto.
I duci stessi, se rimproverati di contegno antidemocratico, se ne appellano alla volontà delle masse che li tollerano, e quindi alla loro qualità di rappresentanti ed eletti. Fintanto che le masse – essi dicono – ci eleggono e ci rieleggono, noi siamo la legittima manifestazione della volontà delle masse e coincidiamo con essa. La nostra azione è dunque, eo ipso, azione della massa. In teoria, questa difesa è piana e chiara e non ammette contraddizioni di sorta. Ma in pratica, le elezioni dei capi da parte delle masse si compiono con tali metodi, e sotto così forti suggestioni e altre costrizioni morali delle masse stesse, che la loro libertà di decisione appare in sommo grado limitata. E se ciò non appare sempre dalle elezioni, è però un fatto costante nelle rielezioni.
Il sistema democratico nel partito si riduce, in fondo, senza alcun dubbio, al diritto delle masse di scegliersi da sé, in determinati momenti, quei padroni, ai quali esse nel frattempo debbono assoluta obbedienza; al sistema, cioè, che nella storia degli Stati abbiamo imparato a conoscere sotto il nome del sistema plebiscitario o bonapartistico.
L’onnipotenza della burocrazia, liberata del tutto, nella pratica, dall’obbligo di una resa di conti, finisce per innalzarsi a dittatura, poiché essa nella sua qualità di amministratrice del patrimonio del partito, dispone anche di mezzi di natura economica e politica (come la stampa, le casse, la facoltà di pubblicare e diffondere, o meno, gli scritti degli aderenti al partito, di assumere oratori stipendiali, ecc.); mezzi ch’essa può sempre precludere, e difatti preclude a concorrenti male accetti e agli elementi irrequieti della massa.
In forza di un’evoluzione nel medesimo senso, oggigiorno vediamo anche i capi dei partiti democratici e socialisti rivoluzionari, muniti di ampi poteri, far una politica di propria testa, del tutto indipendente dalla collettività. La generale abitudine di non rispettare le decisioni in questioni di tattica, affidate loro come inviolabili dalla sfera direttiva più vasta (ossia dalle riunioni del partito, dai congressi e così via); di non prendere risoluzioni importanti se non en petit comité, sottoponendo poi alla collettività il fatto compiuto (per es. col fissare i congressi dopo le elezioni, in modo che i capi siano gli unici a decidere sul programma elettorale); gli accordi segreti dei capi tra di loro (come in Germania la segreta, anzi clandestina intesa sulle questioni del primo maggio e dello sciopero generale da parte della direzione del partito socialista con la Confederazione generale del lavoro); gli impegni e le convenzioni prese alla chetichella, col governo; l’imposizione del silenzio attorno a certe deliberazioni ed accordi presi, considerata come scorretta soltanto nel caso che sia stata applicata dal basso all’alto ossia alla direzione, e non però dall’alto al basso (ossia di fronte alle masse del partito): ecco i frutti giornalieri e naturali del sistema oligarchico, in vigore anche nei partiti della democrazia.
I capi tendono a rinchiudersi tra di loro, formando una specie di lega o se vogliamo, un trust, circondandosi così d’una alta muraglia, oltre la quale essi non lasciano passare che gli elementi loro accetti e loro soggetti. Invece di lasciare questo compito alle elezioni delle masse, essi talvolta cercano di scegliere i loro successori da sé, e di completarsi, in via diretta o indiretta, per mezzo di un opzione autocratica. Già oggi possiamo rintracciare i rudimenti di questa evoluzione in tutte le corporazioni socialiste-democratiche ben organizzate tanto che chi predilige il paradosso potrebbe ben sentirsi tentato di valutare questo processo come primo sintomo del passaggio dal sistema del bonapartismo plebiscitario al sistema della monarchia per diritto ereditario.
Tutte le parole usuali per esprimere il dominio della massa o della maggioranza, come sarebbero Stato, cittadinanza, rappresentanza popolare, partito ecc., indicano soltanto un principio legale, soltanto un ideale, uno scopo ma non un fatto reale ed esistente. Alle masse tale differenza sostanziale è ancora del tutto ignota. Il proletario d’oggi subendo l’influenza delle costanti forze di un’arte oratoria instancabile, esercitata da elementi eletti dal proletariato stesso, ma a lui superiori per grado di cultura, ha concepito l’idea fissa che gli basti creare un posto nuovo nella burocrazia operaia per un nuovo impiegato o gettare una scheda nell’urna, vale a dire affidare la sua causa economico-sociale ad un avvocato politico, per divenir così egli stesso compartecipe del potere.
La scienza ha il dovere di strappar questa benda dagli occhi delle masse. E ciò per diversi motivi. Per amor delle masse; per amore dell’avvenire della democrazia – posto che la democrazia abbia un avvenire –; ma soprattutto per amor di sé stessa, proseguendo una indagine gnoseologica.
Riassumendo quanto abbiamo detto finora, il risultato finale della nostra analisi è il seguente:
La formazione di regimi oligarchici nel seno dei regimi democratici moderni è organica. In altri termini, essa è da considerarsi quale tendenza, alla quale deve soggiacere ogni organizzazione, persino la socialistica, persino la libertaria. Questa tendenza si spiega in parte con la psicologia, cioè coi cambiamenti psichici che le singole personalità subiscono nel corso del loro moto evolutivo nel partito; in parte invece anche, ed anzi in primo luogo, con ciò che si potrebbe chiamare la psicologia dell’organizzazione stessa, vale a dire colle necessità di natura tattica e tecnica, che derivano dal consolidarsi dell’aggregato in ragione diretta del suo procedere disciplinatamente sulla via della politica.
Se vi è una legge sociologica, a cui sottostanno i partiti politici – e prendiamo qui la parola politica nel suo senso più lato – questa legge, ridotta alla sua formula più concisa, non può suonare che all’incirca così: l’organizzazione è la madre della signoria degli eletti sugli elettori.
L’organizzazione di ogni partito rappresenta una potente oligarchia su piede democratico. Dovunque, in essa, si rintracciano elettori ed eletti, ma, pure dovunque, dominio quasi illimitato dei capi eletti sulle masse elettrici. Sulla base democratica s’innalza, nascondendola, la struttura oligarchica dell’edificio.