Controverso, eclettico, incollocabile, Gustave Le Bon è stato apprezzato da psicologici come Freud, e capi di Stato quali Mussolini, Hitler, Lenin e Roosevelt. Nel 2010 Le Monde ha annoverato il suo saggio più celebre, Psicologia delle folle, pubblicato nel 1895, tra le 20 opere più influenti al mondo. La sua attività culturale, dopo i numerosi viaggi di studio condotti in Europa, Asia e Nordafrica, tra il 1860 e il 1880, ha luogo in Francia, a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando le ideologie della crisi facevano tentennare i principi positivisti e un certo anti-intellettualismo conquistava sempre più spazio sia in ambito accademico che politico.
Il primo Novecento è segnato da una forte ondata di sfiducia nei confronti dell’illuminismo: si tratta di una vera e propria rivolta contro la ragione, capitanata da una generazione che all’esprit géometrique di Cartesio preferiva l’esprit de finesse di Pascal, al razionale il soprannaturale, alla logica il mito. Sono pensatori, attivisti, militanti e agitatori, a volte rivoluzionari, tutti provenienti dai luoghi più disparati della topografia politica: l’anarchico Proudhon, i sindacalisti Sorel, Berth, Valois, i monarchici come Barrès, i cattolici Bernanos e Péguy, ma anche filosofi come Bergson e, in un angolo non ben definito delle discipline umanistiche, proprio Gustave Le Bon, che ha tentato di conciliare antropologia, medicina, psicologia e sociologia con un atteggiamento più simile a quello dell’intellettuale totale sul modello davinciano, rinascimentale, che non a quello specialistico in voga tra i suoi contemporanei. Nel Vecchio Continente l’anti-intellettualismo, che a detta di alcuni storici come Zeev Sternhell sarà all’origine della nascita dei totalitarismi, è un’ideologia complessa, che sostiene la tesi anti-hegeliana di un’irriducibilità del reale al razionale.
La ragione, per questi pensatori, è impotente al cospetto delle forze oscure che dominano il mondo. I valori universalisti si rivelano non solo errati, ma persino pericolosi, trascinando i popoli nel baratro di una decadenza spirituale. Barrès sostiene che «l’intellettuale è un individuo che si persuade che la società debba fondarsi sulla logica e misconosce che riposa invece su delle necessità anteriori e forse estranee alla ragione individuale»[1].
Sarà proprio Le Bon a studiare, con un metodo di indagine più intuitivo che scientifico, concetti come l’inconscio collettivo, delineando quelle istanze irrazionali che presiedono alla vita e alla formazione degli aggregati umani. Un anno prima della Psicologia delle folle[2], il saggio in cui si concentra sulle forze che muovono le masse nelle loro azioni, Le Bon pubblica un altro testo, meno conosciuto, ma forse, a distanza di cento anni, finito il turbolento secolo breve, invecchiato meglio rispetto al suo capolavoro, tanto da consentirci, in questo tempo di grandi sconvolgimenti geopolitici, di rispondere a degli interrogativi ancora aperti. Si tratta de Lois psicologique de l’evolution des peuples (Leggi psicologiche dell’evoluzione dei popoli)[3].
Se le folle hanno un inconscio, per Le Bon lo stesso vale per i singoli popoli, la cui evoluzione dipende dal complesso e secolare processo di stratificazione di abitudini, tradizioni, sentimenti e credenze che vanno a formare la sua anima. In questo modo si spiegherebbe perché, malgrado molti studiosi nel corso del tempo abbiano affermato il contrario, la storia non sia destinata a finire: i popoli sono geneticamente espressione di principi e valori inconciliabili che la globalizzazione, nonostante abbia raggiunto, almeno sul piano economico, i suoi livelli massimi di espansione, non potrà mai omologare del tutto. Niente pace perpetua quindi, né globalizzazioni risolutive: i popoli, con i loro protagonisti, con le loro forze individuali e collettive, continuano e continueranno a stupirci e a rimettere in gioco la pretesa di qualsiasi ordine globale di dirsi definitivo.
Ma quali sono queste leggi che regolano l’evoluzione psicologica di un popolo? Per Le Bon ogni popolo ha un’anima, o una costituzione mentale, da cui risulta una concezione del mondo e della vita, dunque una condotta, e che riflette un lunghissimo processo di sedimentazione di abitudini, idee, sentimenti e credenze. A differenza dei pensatori progressisti, Le Bon crede che il passato sia un elemento molto più determinante del futuro nell’immaginario di un popolo, poiché i morti «infintamente più numerosi dei vivi, sono anche infinitamente più potenti di essi. Reggono l’immenso dominio dell’incosciente, quest’impero invisibile da cui dipendono tutte le manifestazioni dell’intelligenza e del carattere. Un popolo è guidato molto più dai suoi morti, che dai suoi vivi. Una razza viene fondata soltanto da quelli. Secolo per secolo, hanno creato le nostre idee e i nostri sentimenti, e quindi tutti i motivi della nostra condotta. Le generazioni estinte non ci impongono soltanto la loro costituzione fisica; ci impongono anche i loro pensieri. I morti sono i soli padroni indiscussi dei vivi. Noi portiamo il peso delle loro colpe, riceviamo la ricompensa delle loro virtù»[4].
Allo stesso tempo i grandi sconvolgimenti del presente – come le rivoluzioni, le guerre o i cataclismi – se possono modificare alcune qualità accessorie di un popolo, non possono alterare il suo carattere profondo, la sua sostanza. Le Bon, tra i tanti esempi di cui si avvale, cita il caso della rivoluzione francese. I giacobini, con l’intento di rovesciare l’ancien régime, hanno dato vita a un sistema autoritario, centralizzatore e dispotico almeno quanto quello della monarchia che volevano distruggere. Le istituzioni rivoluzionarie erano invero l’espressione della costituzione mentale francese, da secoli propensa ad annullare l’autonomia individuale nello Stato, a differenza, per esempio, di quella inglese, la cui vocazione isolazionista ha abituato a un amore per la libertà e per l’individualismo, a un gusto spiccato per l’indipendenza, a un rifiuto della dominazione e delle ingerenze straniere.
Allo stesso modo, se i popoli sono insensibili agli sconvolgimenti politici, lo sono altrettanto a quelli religiosi. Le conversioni di taluni popoli a un determinato culto si rivelano più un adattamento di quest’ultimo alla costituzione mentale dei primi, alle loro visioni, ambizioni, credenze, che non il contrario. L’Islam, religione ugualitaria per vocazione, non è riuscita a rimettere in discussione il sistema delle caste in India e non ha introdotto la poligamia tra le popolazioni berbere. Il cattolicesimo, analogamente, si può dire una versione paganeggiante del cristianesimo, una declinazione che ha permesso a questa religione orientale di sopravvivere presso i popoli latini, dall’indole femminile, sempre in cerca di un conquistatore, un Cesare che le seduca e le governi. E così Le Bon, con qualche anno di anticipo su Weber, spiega anche il successo del protestantesimo tra i popoli anglosassoni, inclini, per loro natura, a discutere individualmente la propria fede senza mediazioni da parte di alcuna autorità.
Un discorso simile vale per le arti. Benché i romani si distinsero soprattutto nelle discipline militari e per l’efficienza delle loro istituzioni, essi subirono l’influenza dell’arte greca, specie in ambito architettonico: «i templi, i palazzi, gli archi di trionfo, i bassorilievi di Roma antica sono opera di greci o di alunni dei greci; eppure il carattere di questi monumenti, la loro destinazione, i loro ornamenti, persino le loro dimensioni, non destano più in noi i ricordi poetici e soavi del genio ateniese, bensì l’idea di forza, di predominanza, di passione militare, che agitava la grande anima di Roma. Così, anche nel campo in cui si mostra meno personale, una razza non può fare un passo senza lasciarvi qualche traccia che è tutta sua e che ci rivela qualcosa della sua costituzione mentale e del suo intimo pensiero»[5].
Le Bon trova nell’arte, più sincera dei libri e meno artificiale delle religioni e delle lingue, uno dei gradi più puri di espressione dell’anima di un popolo, perché gli artisti pensano soprattutto per immagini e ragionano pochissimo: «libertà non ne hanno, e ciò costituisce la loro forza. Sono chiusi in una rete di tradizioni, d’idee, di credenze, il cui insieme costituisce l’anima d’una razza e di un’epoca, l’eredità di sentimenti, di pensieri e di ispirazioni la cui influenza è su di loro onnipotente, perché governa le regioni oscure dell’incosciente dove s’elaborano le loro opere»[6]. Anche qui le influenze straniere, le contaminazioni di stili e registri sono solo ornamentali, sono la materia bruta che un popolo modella per dare forma alla propria visione del mondo.
Ma come nascono i popoli? Le Bon è convinto che la loro nascita derivi da convergenze storiche per lo più casuali: guerre, mescolanze, secessioni. Non esistono popoli incontaminati o puri, ogni popolo è il frutto di una qualche fusione o separazione. Questi processi innescano delle crisi nel sistema di valori condiviso da una comunità, e così danno vita a dei periodi di decadenza al termine dei quali nascono nuove civiltà: è una mutuazione del principio ciclico di distruzione creatrice che poi Schumpeter applicherà alle innovazioni tecniche. La teoria di Le Bon si basa dunque sull’alternanza del movimento e della fissità. La caduta dell’impero romano, ad esempio, è dovuta all’estinzione del popolo romano originario. La diluzione e la contaminazione con gli altri popoli conquistati hanno con il tempo stemperato anche l’anima dei romani, che sul finire dell’impero avevano sì acquisito «un’intelligenza ben altrimenti raffinata di quella dei loro rozzi antenati, ma avevano perduto le qualità di carattere: la perseveranza, l’energia, l’invincibile tenacia, l’attitudine a sacrificarsi per un ideale, l’inviolabile rispetto delle leggi, che avevano fatto la grandezza dei loro avi»[7]. Con l’affievolirsi dell’anima di un popolo si rafforza il ruolo dei singoli individui: allora possono sorgere nuove idee, nuovi sentimenti e nuove religioni che una volta fissate diventeranno il sostrato di una nuova civiltà.
In effetti per Le Bon se l’individuo non ha un ruolo predominante nella storia, ci sono dei periodi, specie quelli di transizione e di movimento appunto, in cui talune minoranze organizzate giocano un ruolo fondamentale, elaborando delle idee che possono attecchire nell’anima di un popolo, lasciando un’impronta duratura e modificandone il destino. Per Le Bon queste minoranze si affacciano sempre in fasi di decadenza, e nutrono nelle loro nuove idee, quasi sempre di carattere religioso, una fede cieca.
Grazie al prestigio di queste minoranze o grazie alle loro abilità comunicative, le loro idee guadagnano una presa sentimentale sulle masse, che riescono ad assimilarle facilmente, poiché «le folle si lasciano persuadere solo dalle suggestioni, e mai dalle dimostrazioni». Con il tempo accedono allo statuto di dogmi, e diventano parte integrante della costituzione mentale di un popolo. Un popolo forte, per Le Bon, è un popolo in cui queste idee sono poche, indiscutibili e ben radicate. Laddove invece si moltiplicano, si complicano e si affinano, perdendo la presa sentimentale sulle masse, allora si hanno dei periodi di decadenza. Al contrario, invece, si riescono a creare facilmente «sentimenti comuni, interessi comuni, credenze comuni. Quando una nazione è arrivata a tal punto, un accordo istintivo unisce tutti i suoi membri su tutte le più gravi questioni e i dissensi seri non nascono più in seno ad essa. Questa comunanza di sentimenti, d’idee, di credenze e d’interessi, creata da lente accumulazioni ereditarie, dà alla costituzione mentale d’un popolo una grande identità e una grande stabilità. Garantisce contemporaneamente a questo popolo un’immensa potenza. Ha fatto la grandezza di Roma nell’antichità, quella degli inglesi ai giorni nostri. Appena scompare l’anima nazionale, i popoli si disgregano. Quando l’ebbe perduta, finì la funzione di Roma»[8].
Oggi il testo di Le Bon può farci riflettere su una serie di questioni che tendiamo ad accantonare dal dibattito culturale ma che la storia, con i suoi eventi, ci ripropone senza sosta, specie quando si tratta di guardare fuori dai propri confini geografici per capire le motivazioni che spingono un’altra nazione a compiere determinate azioni, o quando si ragiona sulla possibilità di esportare dei modelli politici, economici o sociali consolidati in un paese verso altre regioni del mondo. Se è vero che ogni collettività detiene, a tutti gli effetti, una propria personalità, che Le Bon chiama troppo aulicamente anima, ma che può essere anche un particolare umore, un’energia, una frequenza, allora è chiaro che sarà proprio la personalità del popolo a dettare la conformazione delle istituzioni che quel popolo adotta, e non il contrario, come si è spesso creduto a partire da Tocqueville. «Ogni popolo – scrive Le Bon – possiede una costituzione mentale altrettanto fissa quanto i suoi caratteri anatomici, e da cui derivano i suoi sentimenti, i suoi pensieri, le sue istituzioni, le sue credenze e le sue arti. Tocqueville ed altri illustri pensatori hanno creduto di trovare nelle istituzioni dei popoli la causa della loro evoluzione. Invece io sono persuaso, e spero dimostrarlo, che le istituzioni hanno per l’evoluzione delle civiltà un’importanza ridottissima. Sono quasi sempre effetti, e molto raramente cause»[9].
L’idea, dunque, che l’adozione della democrazia da parte di un determinato popolo lo renda naturalmente democratico, o che istituzioni socialiste creino un sentimento di solidarietà tra i propri membri, è un’illusione. Sono i popoli dotati di una costituzione mentale dai retaggi individualisti, liberali, ugualitari che potranno dare vita a delle istituzioni democratiche, e così via. «Sia che gli inglesi abbiano alla testa un monarca come in Inghilterra, o un presidente come negli Stati Uniti, il loro governo presenterà sempre le stesse caratteristiche fondamentali: l’azione dello Stato sarà ridotta al minimo, e quella dei privati sarà portata al massimo, ciò che è proprio il contrario dell’ideale latino. Porti, canali, ferrovie, istituti d’istruzione, ecc., saranno sempre creati e mantenuti dall’iniziativa dei privati e mai da quella dello Stato. Né rivoluzioni, né costituzioni, né despoti possono dare a un popolo che non le possiede, o togliere a un popolo che le possiede, le qualità di carattere da cui derivano le sue istituzioni. Si è ripetuto molte volte che i popoli hanno i governi che si meritano. Si può pensare che ne abbiano altri?»[10].
Ogni governo, perciò, non fa che tradurre in legge i sentimenti e le idee della nazione che è chiamato a governare. Solo così si possono spiegare le profonde e spesso insanabili contrapposizioni che ancora oggi dividono il mondo, dovute al fatto che i popoli «sentono, agiscono e pensano in modi differentissimi e si trovano quindi in dissenso su tutte le questioni appena sono a contatto. La maggior parte delle guerre che riempiono la storia nacquero da questi dissensi. Guerre di conquista, guerre di religione, guerre di dinastie, sono sempre state in realtà guerre di razze»[11].
Prendendo per vera la teoria leboniana è chiaro che i leader di una nazione non sono altro che espressioni simboliche della sua anima, emanazione della frequenza su cui un popolo si è sintonizzato nel tempo, e questi leader non tenteranno mai di modificarne pregiudizi o credenze, quanto piuttosto di assecondarne i motivi latenti. La stessa considerazione, in maniera ancora più determinista, viene suggerita da Lev Tolstoj, quando in Guerra e Pace scrive: «I cosiddetti grandi personaggi sono delle etichette che danno il nome a questo o a quell’avvenimento e che, alla pari delle etichette, poco hanno a che fare con l’avvenimento in se stesso. Ogni azione che costoro compiono, e che ad essi pare libera di fronte alla loro propria volontà, sotto il suo aspetto storico non è libera, ma viene a trovarsi collegata con tutto il corso della storia e predestinata ab aeterno»[12].
Se così fosse, dunque, potremmo fare a meno di concentrare tutte la nostra attenzione di studiosi, giornalisti, filosofi o semplici osservatori, sui volti e le vite dei grandi leader politici, come accade ormai di consueto nella sempre meno variegata offerta culturale e giornalistica che abbiamo a disposizione, dove imperversano biografie, instant-book, inchieste, serie tv, persino diagnosi psicanalitiche a distanza sul capo di Stato del momento, in base alla sua infanzia o al suo rapporto con i genitori, nella speranza di capire qualcosa di questo mondo grande e terribile. Prigionieri dell’attualità, bulimici di informazioni e aggiornamenti dell’ultima ora, di un approfondimento che assomiglia sempre di più al pettegolezzo, ansiosi di trovare un movente razionale a qualsiasi azione, forse abbiamo dimenticato che molto di ciò che accade nell’ora presente è solo la superficie apparente di una trama invisibile, dove agiscono automatismi psicologici inconsci, oscuri, che hanno origini secolari, a volte millenarie. E se avesse ragione Le Bon, se dovessimo interrogare i morti, prima dei vivi, gli dèi, prima degli uomini?
[1] M. BARRES, Scène et doctrines du nationalisme, Plon, Paris 1925, tomo 1, p. 113.
[2] G. LE BON, Psychologie des foules, Alcan, Paris 1895; Psicologia delle folle, Edizioni TEA, Milano 2004.
[3] G. LE BON, Lois psychologiques de l’évolution des peuples, Alcan, Paris 1894; L’Evoluzione dei popoli, GOG Edizioni, Roma 2018.
[4] G. LE BON, L’Evoluzione dei popoli, GOG Edizioni, Roma 2018, p. 22
[5] Ivi, p. 56.
[6] Ivi, p. 57.
[7] Ivi, p. 33.
[8] Ivi, p. 23.
[9] Ivi, p. 14.
[10] Ivi, p. 88.
[11] Ivi, p. 140.
[12] L. TOLTSOJ, Guerra e Pace, Bur, Milano 2002.