Un giorno riesco a mettermi da parte una mela. Volevo mangiarmela nel corso del pasto serale. La tengo nascosta e la tiro fuori al refettorio. Gli altri pensano che l’ho rubata e vogliono spartirla. Ne nasce una discussione. Piomba suor Filomena. Fa fuoco e fiamme, mi ordina di restituirla. Anche lei crede al furto. Protesto che è mia. Niente da fare, quella urla: «Alzati! Stai in piedi!» e mi fa stare ritto impalato fino al termine della cena. Ma non è finita. Nella notte vengo buttato giù dal letto. E suor Filomena con altre due signorine. «Alzati! Vieni a scontare la punizione». Così, come mi trovo, in mutande, vengo accompagnato nel terrazzo. È pieno inverno, una serata gelida. «Stai qui, finché ti verremo a chiamare!». E mi lascia solo.
Tremo per il freddo che mi penetra nelle ossa e per quell’essere strappato dal torpore del sonno.
D’improvviso sento una voce che bisbiglia: «Mario… Mario…». Mi giro e vedo poco distante, appena rischiarata da una lama di luna gelida, un’ombra bianca. Ho un brivido di paura. Tutti i terrori dell’inferno mi prendono alla gola. «Mario… Mario…» ripete la voce. «Ma chi sei?». «Sono Francesco!». E solo allora, rinfrancato ma stupito, riconosco in mutande come mi trovo io, il mio compagno di camerata. «Anche tu punito?» mi chiede. «E tu perché sei qui?». «Perché parlavo in chiesa…». Restiamo così per un’ora. Ci confortiamo con la reciproca compagnia e insieme ci accucciamo in un angolo di un muretto, un po’ riparato dal freddo. Ce ne stiamo abbracciati, per riscaldarci a vicenda.
Finalmente dopo un’ora suor Filomena viene sul terrazzo, mi chiama: «La tua punizione è finita!» mi dice. Penso che anche Francesco verrà via con me. E invece quella bastarda gli sibila: «No. Tu resta ancora». Mi incammino riluttante, pensando a Francesco che sarebbe rimasto solo, lì a spasimare per quel freddaccio cane. Malgrado il tepore del mio giaciglio non riesco a cacciarmi nel sonno. Aspetto che Francesco torni quasi sentendo fisicamente su di me la sua sofferenza. Ma Francesco non tornava ed io, infine, debbo essermi addormentato. Alla sveglia subito i miei occhi guizzano al letto di Francesco. Ho una stretta al cuore: è vuoto.
Una signorina arriva in camerata e si accorge che Francesco non è nel suo giaciglio. «E Francesco?» chiede. Ma nessuno ne sa nulla. La signorina, allarmata, si precipita fuori e torna insieme ad alcune suore, tutte stupite ed agitate. «L’avete visto?». Tutti tacciono scuotendo le teste. Potrei parlare, dire che era stato in punizione con me sul terrazzo. Ma qualcosa mi blocca, forse una inconscia paura. Non dico nulla, proprio come se non lo avessi visto. «Sarà fuggito» suggerisce qualcuno. Ma la sua roba è ancora lì, ed anche i suoi vestiti.
Comunque ci fanno alzare come gli altri giorni e come sempre ci rechiamo nelle aule scolastiche. Durante le lezioni mi formicola il pensiero su Francesco. Cosa ne sarà mai successo? È veramente scappato via? Così, con le sole mutande e con quel freddo? Possibile? Non posso darmene pace ed una tremenda paura mi serra la gola per tutta la mattinata. Nell’onda dell’angoscia mi balenano le idee più terribili, che vanno, vengono, le scaccio via.
Come andò a finire? Debbo dire a questo punto che anche negli anni successivi il mistero di Francesco non venne mai chiarito. O forse lo fu? Beh, la faccenda te la racconto e poi trai pure le tue conclusioni. Ecco quel che accadde qualche anno dopo – naturalmente non posso ricordare la data. La faccenda venne bisbigliata di bocca in bocca, in un clima di tragedia.
In una grigia mattina il giardiniere va a scavare nell’orto. Lavora fischiettando lieve, un colpo di zappa dietro l’altro, scava e scava. Ed ecco che ad un certo punto l’attrezzo comincia a metter fuori qualcosa di insolito. Dapprima sorpreso, poi raggelato, il giardiniere fa affiorare un grosso fagotto avvolto in un lenzuolo. Emana un puzzo tremendo. Quasi folgorato, il pover’uomo per un momento non ha il coraggio di proseguire. Poi solleva il lenzuolo e diventa di sasso: c’è infilato il corpo di un ragazzino, ormai quasi putrefatto, irriconoscibile. Vomita l’anima sua e poi corre, per quanto gli permettono le gambe tremolanti, a rivelare l’affare alla madre superiora. Dapprima costernazione, poi un confabulare, un consultarsi… Qui bisogna chiamare i carabinieri, scaricarsi delle responsabilità. Sarà bene? Sarà male? Che storia ne potrà venir fuori? Esaminato il pro e il contro si decide per avvertire. E i carabinieri arrivano. Esame della salma, tentativo di riconoscimento, interrogatori. Non ne esce nulla, nessuno sa niente. Si stabilisce soltanto l’età approssimativa del morto: circa otto anni (l’età, appunto di Francesco). Veniamo interrogati anche noi marmocchi, ma con delicatezza per non allarmare queste povere creature innocenti, e alla presenza di una suora. Domande vaghe, formali, tanto per fare il dovere. Si rivolgono anche a me: «Tu sai niente?». Che debbo sapere? Che ne so io quel che è stato? Cosa capisco di queste faccende? C’è solo una gran paura. E alla domanda rispondo di non saper nulla… È una bugia? Non direi, perché detto fra noi – chi sa veramente come sono andate le cose? Forse se avessero insistito, se non fossero stati puntati su me gli occhi gelidi della suora, forse avrei detto che poteva trattarsi di Francesco. Ma era soltanto una ipotesi… Insomma i carabinieri non approdarono a niente. Tutto sommato si preferiva affossare quel mistero, come quel povero corpo.
Estratti dal libro di Mario Appignani, alias Cavallo Pazzo,
Un ragazzo all’inferno (GOG Edizioni)