Estratti da All'amico che non mi ha salvato la vita, il diario intimo in cui Hervé Guibert testimonia la sua lenta e inesorabile discesa negli abissi della malattia.
Di eterea avvenenza – negli occhi la dannazione dell’angelo – Hervé Guibert ha il beau monde degli intellettuali parigini ai suoi piedi. Nasce a Parigi nel 1955 ed è fotografo, giornalista, scrittore di successo. Ma ha l’AIDS, come il suo amico Michel Foucault - di cui in queste pagine descrive la lenta agonia. E più di tutto, della malattia, Hervé teme il momento in cui questa potrà negargli la libertà del suicidio. Dunque, la scelta terminale: la scrittura del suo romanzo più iconico oppure due boccette di digitalina, per una morte “dolce” al costo di dieci franchi. Deciderà di scrivere, perché “la vita non sa che farsene dell’ingombro di un’agonia”, ma l’agonia può divenire letteratura, mai patologica, sempre vitale, erosiva. Sceglie l’autofinzione quindi, come forma eletta per raccontare una corsa contro il tempo, le prime epifanie di morte, la nuova condizione da infetto, da portatore di HIV, al tempo in cui la joie de vivre degli anni Ottanta ammanta gli spiriti occidentali di un forte scetticismo nei confronti del flagello che sta per abbattersi come una scure sul mondo omosessuale. Tempi in cui proliferano gli incontri erotici nelle saune, dove i corpi emaciati e moribondi si fondono con quelli sani, tutti accomunati dalla stessa incurante eccitazione. Gli stessi corpi che si ritroveranno poi divisi fra i corridoi ospedalieri – fantasmi agonizzanti in lotta contro il tempo – ma uniti da una sorte comune. Rinuncerà alla vita nel 1991, Guibert, poco dopo aver tentato il suicidio nel giorno del suo compleanno. Le ultime energie le presta al film Le Pudeur ou l’Impudeur, amaro testamento d’una giovinezza stroncata. Il suo corpo, diafano, riposa all’isola d’Elba, di fianco all’eremo di Santa Caterina.

Ho avuto l’AIDS per tre mesi. Più esattamente, ho creduto per tre mesi di essere condannato dalla malattia mortale che chiamano AIDS. Allora non mi facevo idee precise, ero davvero contagiato, il risultato positivo del test era lì a testimoniarlo, così come alcune analisi che avevano dimostrato che il mio sangue iniziava un processo di degradazione. Ma, in capo a tre mesi, uno straordinario caso mi fece credere, e mi diede quasi la certezza, che sarei potuto sfuggire a questa malattia da tutti ancora considerata incurabile. Così come non avevo confessato a nessuno, tranne ad amici che si contano sulle dita di una mano, che ero condannato a morire, non confidai a nessuno, tranne a quegli stessi pochi amici che me la sarei cavata, che sarei stato, per quel caso straordinario, uno dei primi sopravvissuti a questo inesorabile male.

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Jules mi aveva detto che l’AIDS è una malattia meravigliosa. Ed è vero che io scoprivo qualcosa di soave e affascinante nella sua atrocità: si trattava certamente di una malattia inesorabile, ma non era fulminante, era una malattia a livelli, una lunga scala che portava sicuramente alla morte, ma di cui ogni scalino rappresentava un apprendimento senza pari, era una malattia che dava il tempo di morire e che dava alla morte il tempo di vivere, il tempo di scoprire il tempo e di scoprire finalmente la vita, era in un certo senso una geniale invenzione moderna che ci avevano trasmesso le scimmie verdi dell’Africa. E la disgrazia, una volta che vi si era immersi, era molto più vivibile del suo presentimento, in definitiva molto meno crudele di quanto si potesse pensare. Se la vita non era che il presentimento della morte, con il torturarci senza sosta quanto all’incertezza della sua scadenza, l’AIDS, fissando un termine certo alla nostra vita, faceva di noi degli uomini pienamente consapevoli della loro vita.

Hervé in uno dei ritratti che testimoniano l’avanzare della malattia

Consultando la mia agenda del 1987, potrei datare al 21 di dicembre la scoperta sotto la lingua di piccoli filamenti biancastri, specie di placche senza spessore. Il mio sguardo vacillò in quell’istante, e per un millesimo di secondo vacillò anche quello del dottor Chandi, trafitto dal mio come un colpevole braccato da un investigatore, quando gli mostrai la lingua, il giorno successivo nel suo ambulatorio. Davanti a un segno catastrofico il dottor Chandi è troppo giovane e inesperto per saper mentire, il suo sguardo non è allenato a diventare opaco al momento giusto, a non battere ciglio: egli conserva nei confronti della verità una trasparenza di un millesimo di secondo, come il diaframma fotografico che si apre per assorbire la luce prima di richiudersi per calibrarla.

Dovevo pranzare con Eugénie quel giorno, le mentii per omissione, improvvisamente svuotato da ogni desiderio e da ogni sentimento amicale, interamente assorbito dalla mia preoccupazione. La sera prima l’avevo passata con Grégoire: prima di avere la conferma da parte del dottor Chandi, era a me stesso che avevo mentito, aspettando ancora un po’ prima di essere catturato da una formidabile repulsione riguardo al solo organo sensuale al quale Grégoire permetteva talvolta una comunicazione erotica. In un primo tempo mentii anche a Jules, assente da Parigi, per quello stesso riflesso istintivo dell’omissione. Il dottor Chandi non pronunciò alcun verdetto, tanto più che era stato avvertito della realtà della mia malattia per via di quell’herpes zoster che si era manifestato otto mesi prima, quando ancora non ero un suo paziente. Doveva semplicemente guidarmi, con la maggior dolcezza possibile, verso un nuovo stadio della mia malattia. Con dei piccoli tocchi, attraverso scandagli dello sguardo, mi interrogava sui miei stadi di coscienza e d’incoscienza, facendo variare di qualche millesimo di millimetro l’oscillometro della mia angoscia. Diceva: «No, non ho detto che era un segno decisivo, ma le mentirei se le nascondessi che è un dato statistico». Se un quarto d’ora dopo gli chiedevo, preso dal panico: «Allora, è un segno veramente inequivocabile?», lui mi rispondeva: «No, non direi, ma si tratta nondimeno di un segno abbastanza determinante». Mi prescrisse un liquido giallo e disgustoso, il Fongylone, nel quale dovevo mettere a bagno la lingua ogni sera e ogni mattina per venti giorni. Ne portai con me a Roma venti flaconi che avevo nascosto prima nei miei bagagli, poi dietro altri prodotti, sulle mensole degli armadietti della cucina e sugli scaffali del bagno, dove mi rintanavo mattino e sera in maniera umiliante e al limite della nausea per ingerire i prodotti a insaputa di Jules e Berthe, che mi avevano raggiunto a Roma. Vivevamo insieme, Jules, Berthe ed io: loro due andavano a dormire nel letto matrimoniale sul soppalco, io nel lettino in basso. Il giorno di Natale avevo avvisato Jules di quello che mi succedeva, e che, fatalmente, ci succedeva, e avevamo deciso di non parlarne a Berthe per non rovinarle le vacanze. Jules, facendo finta di niente, faceva progetti sul futuro e coinvolgeva Berthe: che nei prossimi anni dovevano andare a risposarsi in campagna, che Berthe doveva chiedere di essere esonerata dall’insegnamento, almeno per un anno sabbatico, sottintendendo che non dovevamo sprecare quei pochi anni ormai contati che ci restavano da vivere. Per quanto riguarda me, scrivevo il mio libro, condannato, vi raccontavo il tempo della nostra gioventù, quello in cui Jules, Berthe ed io ci eravamo incontrati e amati. Avevo iniziato a comporre l’elogio di Berthe, nei termini in cui Muzil prima della morte aveva pensato, sinceramente o per scherzo, di scrivere il mio elogio, e tremavo ogni giorno per paura che Berthe mettesse il naso nel manoscritto che pure lasciavo, in fiducia, sulla scrivania.