Mentre gli annunci per lavori da remoto e per attività di microworking crescono esponenzialmente, nelle grandi metropoli occidentali, la domanda di spazi per uffici é al minimo storico. La città di Chicago ha registrato un calo del 25% di richieste, e in un recente articolo del Times si afferma provocatoriamente che servirebbero ventisei Empire State Buildings per riempire gli spazi per uffici ora vacanti nella città di New York. (1) Solo per citare due casi emblematici di una situazione oggettivamente complessa, come testimoniano i dati del mercato immobiliare di riferimento, e che non riguarda solo le principali metropoli americane ma anche quelle europee. (2)
Nell’ultimo biennio sono infatti moltissime le aziende e le multinazionali riorganizzatesi senza una sede fisica vera e propria, mentre aumentano quelle che cercano spazi ridotti di taglia e quelle che affittano gran parte delle loro proprietá, prima destinate a un numero importante di dipendenti.

Siamo di fronte a un fenomeno importante e ormai strutturale. Può essere che l’era degli uffici sia finita? Che non lavoreremo più in ufficio? Sicuramente oggi ci lavoriamo meno, molto meno.
Per tentare di capire il perché di questa grande delocalizzazione virtuale e urbana dei luoghi della produzione occorre fare alcune premesse – anche se bisognerebbe in realtà partire dalla domanda: “perché ancora lavoriamo così tanto?“
Perché, forse a torto, il remote working incoraggiato sin dagli anni ’80 dalle opere di innumerevoli sociologi e designer, porta con sé, storicamente, l’idea di un allontanamento non solo fisico ma concettuale dal lavoro – o quanto meno l’occasione per un’orizzontalizzazione dei rapporti gerarchici come conseguenza della maggiore autonomia fisica e decisionale riservata ai dipendenti.
Nel suo Open Plan. A design history of American Office, Kaufmann ci ricorda come la storia del design degli uffici «sia profondamente intrecciata con la storia della gestione e delle idee manageriali» e che il progetto dei luoghi di lavoro «é sempre stato uno strumento di gestione e un’incarnazione spaziale degli ideali manageriali… riprodotto nell’architettura degli uffici ripetutamente nel tempo». (3)
A partire dagli anni fine degli anni ’80 del Novecento, (cioè dal mutamento della società post-fordista in organizzazioni e strutture decentralizzate di servizi, determinante per un assetto sociale sempre più lavorocentrico) molti nuovi e subdoli modelli di filosofia aziendale (e politica) hanno contribuito a dare forma alle relazioni sociali nel mondo del lavoro e quindi ai suoi luoghi. Si é parlato di employee engagement, cioè del «processo capace di imbrigliare l’identità delle persone nel proprio ruolo produttivo, con la speranza che questa si appaghi attraverso il lavoro». (4)
Come affermato da Kahn «Non vogliamo solo che le persone siano impegnate [al lavoro], ma che siano sposate [con il lavoro]». In un’economia «sempre più pronta a licenziare per chiedere ai lavoratori di dedicarsi al proprio impiego con devozione, amore e fedeltà» è necessario «farli innamorare dei valori e del brand aziendale». (5)
Non è un caso il fatto che ogni azienda faccia della sua comunicazione un impegnato storytelling, spesso proposto con toni eroici, accattivanti, piacevolmente trendy e sempre più smart.
Così gli stessi manager si adoperano per dare vita a vere e proprie creazioni comunicative, che fanno leva su alcuni aspetti psicologici dell’essere umano – come ad esempio i complimenti, un potente motore di rendimento – fondate su vere e proprie «regole per un matrimonio aziendale di successo, nel quale indurre i dipendenti a garantire una disponibilità illimitata». (6)
Molte e diverse letture sociologiche evidenziano come questa sia una pratica dietro cui «si annida il tentativo di estendere gli orari di lavoro oltre i limiti pattuiti; l’aspettativa che cadano tutte le barriere tra lavoro e vita privata, che le persone siano disponibili ventiquattro ore al giorno e che considerino il lavoro come una passione, un hobby e una priorità affettiva pari alla necessità di trascorrere del tempo con i cari».(7)
Il risultato è che non ci si meraviglia affatto nel sentir parlare un dipendente della propria azienda come di una vera e propria famiglia. Questo soft power aziendale assume i connotati tipici di un “corteggiamento” e si traduce anche da un punto di vista pratico: le aziende sono sempre pronte ad assistere i loro dipendenti. Ovviamente da un punto di vista spaziale: la competitività fra le aziende sta anche nella capacità di procurare per loro i migliori benefit all’interno di sedi sempre più fancy e all’avanguardia, (tecnologicamente e non solo) dotate di accattivanti e modernissime amenities.
Già quarant’anni fa, negli uffici delle prime aziende soft-tech della Silicon Valley, assistevamo alla fine della pianificazione stricht di derivazione industriale e tayloriana (la cosiddetta “scienza dell’ufficio”) che costringeva i dipendenti nei cubicoli o in postazioni del tutto anonime e disorientanti (si veda lo splendido film Playtime di Jacques Tati) in favore di una cultura legata sostanzialmente alla liberalizzazione e all’informalitá, che estendeva la vita da campus universitario istituzionalizzandola all’interno di una start-up.
Ovviamente grazie all’uso di strumenti e tecnologie più minute, autonome ed efficienti che dissolvevano e progressivamente rimpiazzavano la materialità degli strumenti di lavoro, questa nuova idea di company culture informava spesso luoghi abbandonati, loft, garage e gli stessi nuovi uffici di migliaia di dot-com e aziende soft-tech di quegli anni, trasformati o pensati come contenitori pop, sempre più “cool”, ma partendo dall’assunto che «Il design è di norma nemico della cultura (così come la intende la Silicon Valley): se qualcosa deve essere progettato od oggetto di design, ciò comporterà l’introduzione di un qualche tipo di limite nello spazio personale». (8)
I nuovi principi organizzativi mettevano infatti al centro l’idea di una più ampia libertà di movimento possibile e una sorta di disponibilità alla colonizzazione quasi selvaggia di questi luoghi, accettando che alcuni ambienti avessero un’atmosfera di trascuratezza con «scrivanie a forma di tavolo da picnic disposte ad angolo, pile di carta e cavi incrociati ovunque, lavoratori trasandati accovacciati davanti ai loro schermi in pigiama». (9)
Questi uffici sono diventanti un modello a cui moltissime altre aziende negli Usa e in Europa hanno guardato con attenzione fino ad oggi per la loro capacita di esprimere un’ibridazione funzionale fra ambienti domestici (lounge, bar), sportivi (campi da gioco dentro e fuori) e scenografici (sale riunioni e atrii di grandi dimensioni e con gigantografie di aritsiti, motti, loghi ecc) con l’obiettivo di suscitare stimoli diversi per insoliti processi creativi e, soprattutto, perché quest’ibridazione si è dimostrata efficacissima nel trattenere i propri dipendenti sempre all’interno dello spazio di lavoro. I dipendenti non erano (e non sono) motivati solo dal denaro, e in quelle bolle artificiali si sentivano artisti, autonomi e liberi. «Finché i lavoratori credevano di star creando qualcosa di nuovo e che stavano svolgendo un lavoro unico, non per gli altri, ma per se stessi, era più facile lavorare per ore e ore». (10)
Oggi invece cosa é cambiato? Quasi tutto, seppure nulla di fatto è poi così diverso.
Il sogno degli anni ’90 (così sentito dalla generazione di nerd creativi e psicolabili di cui sopra) di connettere tutto il mondo e annullare le distanze si è in parte avverato, avendo oggi l’infrastruttura tecnologica, sempre più performante, dato forma a una società-mondo dove, grazie al virtuale, i luoghi sembrano essersi allargati, mescolati e resi costantemente interconnessi.
L’ufficio in quanto strumento, ora nelle vesti di in un telefono, ora di un iPad, ora di un PC, all’interno di un ecosistema di aziende che monitorano la produttività con software sempre aggiornati, e in cui gli orari sono di fatto indicativi, se non relativi – perché contano ormai solo i risultati con le loro improrogabili e continue scadenze – ci consente di lavorare ovunque e di personalizzare la nostra routine con l’obiettivo di “ottimizzare” in luoghi e tempi diversissimi le nostre mansioni lavorative. Tra uno scroll di tik tok, un like su Instagram, mentre scorre in approfondo la voce di un podcaster qualsiasi e una finestra sulle ultime news, il lavoro svolto all’interno delle mura domestiche o altrove ha portato, per moltissime aziende, a un sostanziale aumento della produttività, come testimoniato ultimamente da diverse ricerche.
Il lato negativo dello smartworking alle Hawaii
Al lavoro dislocato consegue un complesso sistema di workflow. Il critico d’arte e curatore Domenico Quaranta afferma chiaramente che «l’avvento congiunto di dispositivi mobili, connessioni ubique e piattaforme sociali ha condotto la società post-fordista a un ennesimo salto qualitativo, che può essere sintetizzato nel termine hyperemployment: la condizione in cui il lavoro viene frammentato in una miriade di micro-prestazioni, spesso simultanee (multitasking), e in gran parte difficili da percepire come lavoro, invadendo progressivamente gli spazi fisici della vita privata e quelli temporali del tempo libero». (11)
In quella sfera che oggi chiamiamo lavoro vi sono infatti una miriade di attività come, viaggi, telefonate, chiamate, email, messaggi e interazioni su whatsapp a cui milioni di lavoratori sono sottoposti ogni giorno.
Le conseguenze di tutto ciò si rivelano tutt’altro che scontate. Diventa sempre più difficile, per via della sua natura intellettuale e degli strumenti con cui si esplica, distinguere cosa sia lavoro e cosa no.
Il termine hyperemployment coniato dal teorico dei media Bogost, si riferisce al lavoro estenuante di chi usa le tecnologie e «si concentra soprattutto sulla possibilità che il lavoro, attraverso email e notifiche, ci raggiunga ovunque e in qualsiasi momento, e sul convergere sui singoli professionisti di attività che in passato venivano delegate a terzi, tanto in ambiente lavorativo (come i lavori di segreteria) quanto in quello domestico…Tutto ciò arriva a noi con la sua pletora di notifiche e richiami». (12) Tramite i nostri dispositivi “indossabili” siamo infatti costantemente predisposti al lavoro e comunque in una delle bolle che ci consentirebbe di farlo. Sussistono molte ragione per cui possiamo pensare che dall’animal laborans sembriamo esser giunti a una nuova forma evolutiva.
Per Byung-chul Han, infatti, nella società contemporanea quale società prestazionale e non più disciplinare «i cittadini non si dicono soggetti d’obbedienza ma oggetti di prestazione. Sono imprenditori di se stessi», poiché per la prestazione, a differenza del lavoro, non esiste un inizio e una fine ma una perpetuazione continuata dell’attività lavorativa, una sorta di loop o per meglio dire una never ending activity. Egli continua: «Non è che il soggetto non voglia mai arrivare a una conclusione; piuttosto, egli non è capace di concludere. L’obbligo prestazionale lo costringe a realizzare sempre più, così che egli non giunge mai allo stadio tranquillizzante della gratificazione». (13) Sempre Byung-chul Han nello scritto Le Non Cose, ponendo l’attenzione sullo smartphone, sottolinea un aspetto cruciale relativo a questa estensione, ricordandoci da un lato che «la costante raggiungibilità non si differenzia sostanzialmente dalla servitù» e dall’altro come il nostro telefono cellulare «si rivela un campo di lavoro mobile in cui noi c’imprigioniamo di nostra sponte». (14)
Cosa ne sarà del futuro?
Qualcosa inizia a muoversi fra gli horizontal workers, cosi definiti dal filosofo Paul Preciado, i knowledge workers che trasformano anche il proprio il letto in uno spazio di lavoro, data la sovente necessità di trattare con clienti o colleghi in fusi orari diversi o di fare degli straordinari. (15)
Molti si dicono ormai stufi di una società cosi impigliata in un sovraccarico informatico e informativo, e per evitare il burnout – ma senza necessariamente intraprendere una via già praticata e interessante quale la early resignation (16)-, nei soventi scambi di email, messaggi e chiamate hanno iniziato a specificare che l’invio o il contatto é avvenuto durante l’orario di lavoro, invitando cosi il destinatario a replicare solo ed esclusivamente nel proprio corrispettivo.
Tutto ciò evidentemente non basterà, come non basterà affidarsi a una legislazione che contempli il diritto alla disconnessione (come inizia ad avvenire in Francia). É evidente che quello che é stato barattato in questo “equilibrio” è una quantità di tempo, cura e dedizione maggiore in favore delle aziende da parte dei dipendenti, in cambio di una loro maggiore autonomia di movimento e di organizzazione; o il diritto a non dover più guardare in faccia ogni mattina il proprio odiato collega, rinunciando così implicitamente alla possibilità di esser difesi da qualcuno nell’eventualità di un licenziamento. Può darsi che la solidarietà di classe, tipica di una forte dimensione collegiale e collettiva, non sia un concetto fluttuante, non possa essere digitalizzata, ma sia esprimibile pienamente, forse, solo in un luogo fisico.
(1) Edward L. Glaeser, Carlo Ratti, 26 Empire State Buildings Could Fit Into New York’s Empty Office Space.That’s a Sign, The New York Times, 10.05.2023.
(2) Joshua Oliver, European commercial real estate dealmaking falls to 11-year low, Financial Times, 27.04. 2023 https://www.ft.com/content/16bf0b7a-8628-436a-a549-9abed859609e
(3) Kaufman, Open Plan. A design history of American Office, Bloomsburry,Londra, 2021, pag. 6
(4) Kahn, W. A., Psychological Conditions of Personal Engagement and Disengagement at Work, in «Academy of Management Journal» (1990), vol. XXXIII, n. 4, pp. 692-724
(5) Ibidem
(6) Bersin, J., It’s Time to Rethink the Employee Engagement Issue, in «Forbes», 10 aprile 2014, https:// www.forbes.com/sites/joshbersin/2014/04/10/its-time-to-rethink-the-employee-engagement-issue/”
(7) Paola Davis, The Power Of Sticky Recognition At Work, Forbes, Oct 5, 2023 https://www.forbes.com/sites/pauladavis/2023/10/05/the-power-of-sticky-recognition-at-work/?sh=6b0dbe6b2e27
(8)N. Saval, Cubed. A secret history of workplace, Doubleday, New York, 2014, pag. 361
(9) Ibidem
(10) Ibidem
(11) Domenico Quaranta, La possibilità dell’ozio nell’era dell’hyperemployment, Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici, Napoli, 2022, pag 62
(12) cfr. I. Bogost, Hyperemployment, or the Exhausting Work of the Technology User, in “The Atlantic”, 8 novembre 2013, www.theatlantic.com/techno- logy/archive/2013/11/hyperemployment-or-the-exhausting-work-of-the-te- chnology-user/281149/
(13 )Byung-Chul Han, La società della stanchezza , Nottetempo, 2015, pag 45.
(14) Byung-Chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino, 2022, pag 27
(15) Preciado, P., Learning from Virus, giugno 2020
(16) Francesca Coin, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Einaudi, Torino, 2021