Estratti del libro Borghesia Violenta di David Barra e Nicola Ventura, pubblicati in occasione dell'uscita del Podcast "Borghesia Violenta, i bravi ragazzi del terrorismo italiano" prodotto da Emons Record e GOG Edizioni.
Il podcast "Borghesia Violenta, i bravi ragazzi del terrorismo italiano" è disponibile su tutte le piattaforme

“Da bambino prodigio a terrorista”, “Attore da bambino, poi picchiatore e spietato killer neofascista”, “Da attore bambino a killer del terrorismo nero”, sono questi i titoli dei giornali. Ma chi è davvero Giusva Fioravanti? Alcune persone che hanno assistito ai suoi interrogatori lo descrivono come un ragazzo cinico e freddo, capace di parlare di crimini efferati con inquietante disinvoltura. Una fama, quella dell’assassino insensibile e glaciale, che Fioravanti si porterà dietro per anni nelle aule dei tribunali.
«Il mio problema è questo – racconterà al presidente della Corte d’appello di Bologna – io ho fatto molte cose. Di solito cerco di parlarne in un senso molto distaccato, diciamo in senso storico, saltando tutte le parti di polemica, di critica o di riflessione morale su quello che ho fatto. Mi piace tenere scisse le due cose. Questo dà quasi sempre l’impressione di un certo cinismo, di scetticismo, di una mancanza di senso morale. Io continuerò anche in quest’aula a tenere separate le due cose, io le racconterò i fatti, cercherò per quello che posso di raccontarle le date, quello che il mio tipo di collaborazione con la Corte mi consentirà di dirle, lascerò fuori, nei limiti del possibile, i giudizi, a meno che lei non me li chieda in senso particolare. Non vorrei che questo venisse scambiato per una particolare forma di cinismo o di mancanza di senso morale. Questa, purtroppo, è la sensazione che si ha sempre, io vengo descritto come una belva anche se poi magari non lo sono. Non mi interessa molto smentire questa cosa però era il minimo di premessa che dovevo fare».

Non ci sono vie di mezzo: chi lo aveva conosciuto soltanto come bambino dolce e garbato adesso lo incontra come belva feroce e senza scrupoli. «Un ragazzo la cui gioventù venne violentata da troppa televisione», recita una nota canzone degli Offlaga disco pax. In effetti, l’infanzia cinematografica e televisiva non rappresenta una componente trascurabile nella formazione del primogenito dei fratelli Fioravanti. Per lui i riflettori si accendono molto presto, forse troppo.

Nato nel 1958 a Rovereto, durante una vacanza dei genitori, il figlio dell’annunciatore radiofonico romano Mario Fioravanti inizia a calcare i set fotografici fin dai primissimi anni Sessanta, con le pubblicità. Nel 1962 esordisce nel mondo del cinema sotto la direzione di un nome più che illustre, quello di Federico Fellini. Nel film Boccaccio ’70, Giusva è il piccolo Cupido che compare con una linguaccia al termine dell’episodio intitolato Le tentazioni del dottor Antonio, con Peppino De Filippo, dando un volto alla voce birichina che narra la storia fuori campo. Sulla scia del successo di Django, violento spaghetti western di Sergio Corbucci, con lo pseudonimo di Edward G. Muller, il regista Edoardo Mulargia nel 1967 dirige Cjamango, un film che non brilla per originalità ma che allieta gli amanti del genere con un fragoroso tripudio di sparatorie, senza risparmiare momenti crudeli e di grande tensione, come la scena in cui il piccolo Fioravanti, nei panni di Manuel, è legato ad un ordigno pronto ad esplodere. L’anno seguente partecipa allo sceneggiato televisivo La fiera della vanità, diretto da Anton Giulio Majano e nel 1968 assapora prematuramente la fama con il personaggio di Andrea Benvenuti che fa di Giusva una vera icona nazional-popolare.

Mentre l’Italia si appresta ad entrare con violenza in un’epoca di enormi sconvolgimenti sociali e politici, l’ovattata e rassicurante televisione racconta le innocue vicende di una famiglia borghese come tante. Inizia l’era delle stragi e degli scontri di piazza. In quel maledetto dicembre del 1969 il piccolo Andrea è lì, alle prese con la seconda stagione della serie, a commentare il tranquillo mondo di papà Alberto e di mamma Marina attraverso le lenti magiche dell’ingenuità e dello stupore infantile. Gli episodi si protraggono fino agli albori del 1970 e nel frattempo il noto attore bambino prende parte anche al film La scoperta, di Elio Piccon (1969), per poi tornare alle pellicole western con lavori come L’odio è il mio Dio, di Claudio Gora (1969), La taglia è tua… l’uomo l’ammazzo io! (1970) e Shango, la pistola infallibile (1970), entrambi di Mulargia.

Ma non c’è soltanto il cinema: quello di Giusva è un volto ricorrente anche su giornaletti, libri e riviste: dalle pubblicità dei formaggini ai fotoromanzi per i più piccoli. Nel 1970 compare tra le pagine del settimanale «Il Giornalino», affiancando Alessandro Momo e Andrea Giordana in una serie di simpatiche avventure per ragazzi. In una delle puntate, il dodicenne Giusva riesce anche a disarmare un malvivente, esibendo con soddisfazione due pistole.

Con l’avvento del nuovo decennio si verifica un primo allontanamento di Fioravanti dalle scene. Il ragazzo cresce a vista d’occhio. Nel 1972 è ormai quattordicenne e fisicamente non è più quello di pochi anni prima. L’epopea del bimbo più amato d’Italia, in realtà, è già finita. Quell’esuberante pargoletto non c’è più, adesso ha lasciato spazio ad un riflessivo preadolescente che cammina al riparo dai set fotografici e dalle macchine da presa di Cinecittà: un mondo che, in realtà, a Giusva non è mai piaciuto più di tanto, così come non ha mai apprezzato quello strano diminutivo con il quale è diventato famoso. Preferisce farsi chiamare Valerio e sogna un futuro completamente diverso da quello offertogli dal padre. Niente attori né registi o fotografi, il giovane vorrebbe andare all’università e magari studiare Legge per diventare avvocato. Il fratello, invece, ha già intrapreso un’altra strada.

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La sigla Nar, acronimo di Nuclei Armati Rivoluzionari, inizia a fare capolino sui quotidiani proprio nel periodo delle festività natalizie, con la rivendicazione del tentato omicidio di un militante di estrema sinistra e con alcuni attentati incendiari, a colpi di bottiglie molotov, contro redazioni di giornali e altri obiettivi simbolici. Il triste bilancio del 1977 colloca Roma al secondo posto nella graduatoria delle città italiane martoriate dalla violenza. Soltanto nel mese di dicembre sono stati quindici gli episodi più gravi riconducibili alla guerra politica che miete continuamente vittime tra i giovani. Con l’avvento del nuovo sanguinoso anno la situazione apparirà totalmente irreversibile.

Il 7 gennaio 1978 potrebbe sembrare un sabato romano come tanti. Al cinema Ariston di via Cicerone proiettano Il… Belpaese, di Luciano Salce. Dopo il successo del secondo capitolo della saga fantozziana, Paolo Villaggio interpreta Guido Belardinelli, aspirante orologiaio rientrato in patria dopo otto anni di lavoro su una piattaforma petrolifera. L’uomo è adesso costretto a fare i conti con un Paese totalmente in balìa del terrorismo, della droga, della delinquenza comune e delle controculture giovanili. Mentre in sala si cerca di esorcizzare i demoni dell’attualità con le caricature, gli edicolanti lungo le strade espongono titoli come «Sanguinosa rapina in piazza Vittorio», «Bomba alla stazione dei carabinieri sulla Nomentana», «Ancora violenza e teppismo a Roma». Angelo Pistolesi, militante missino e amico di Franco Anselmi, è stato ucciso a colpi di pistola appena dieci giorni prima, a due passi dalla propria abitazione. Attorno alle sedi del Msi si respira un’aria particolarmente pesante. La sezione di via Acca Larentia è già stata al centro di qualche episodio di violenza ma questa sera, all’interno di quel locale al pian terreno, vi è soltanto un gruppetto di ragazzi tra i diciotto e i vent’anni, tutti disarmati e con un mucchio di volantini da distribuire. Avvolto dalla semioscurità, un commando armato attende con pazienza che i ragazzi mettano piede al di là del portone metallico. Maurizio Lupini, uno dei giovani sopravvissuti miracolosamente al massacro, ricorderà così quei tragici istanti:

«Eravamo in sezione io, Vincenzo Segneri, Francesco Ciavatta, Franco Bigonzetti, Giuseppe D’Audino, poiché Ivo Camicioli e Faccia e la sua ragazza erano usciti da poco. Notammo all’angolo un tizio che saprei riconoscere anche oggi, con i Ray-Ban fotocromatici, ma non vi feci caso più di tanto. Allora uscimmo dalla sede, spensi la luce, e fu l’inferno: sentii dei botti come dei mortaretti, ma erano proiettili, il primo dei quali colpì Franco Bigonzetti, che venne sollevato da terra, e ricordo quel suo impermeabile bianco che volò per terra. Poi fu confusione totale. Ciavatta scappa per le scale, io, D’Audino e Segneri rientriamo e chiudiamo la porta. Intanto continuano a sparare su Bigonzetti per terra, il cui sangue entrava da sotto la porta. Riaccendo la luce, esco, e vedo Franco per terra, poi vedo Ciavatta, che era ancora vivo, cerco di soccorrerlo. Dice che bruciava, sta trentasette minuti per terra, poi arriva l’ambulanza».

Un proiettile colpisce Bigonzetti in pieno volto, perforando un occhio per poi uscire dal padiglione auricolare sinistro. Contemporaneamente, due pallottole centrano il ragazzo anche all’addome. Morirà durante il tragitto in ospedale. La stessa sorte, due ore più tardi, toccherà a Ciavatta, raggiunto al torace nel vano tentativo di dileguarsi verso la rampa di scale. Il duplice omicidio sarà rivendicato il giorno successivo con una registrazione incisa su nastro fatta ritrovare con una telefonata al quotidiano «Il Messaggero»:

«Ieri, alle 18.23, un nucleo armato, dopo una accurata opera di controinformazione e controllo della fogna di via Acca Laurenzia (sic), ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica e lo dimostra il fatto che hanno risposto sparando ai compagni. Da troppo tempo lo squadrismo nero insanguina le strade e le piazze d’Italia, coperto dalla magistratura e volutamente ignorato dai partiti dell’accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non li potrà mai garantire dalla giustizia proletaria che non darà loro mai tregua. Abbiamo colpito duro e non certo a caso: le carogne cadute non sono degli ingenui come vuol far credere la stampa borghese, ma dei picchiatori ben conosciuti e addestrati all’uso delle armi, che si trovavano in sezione insieme ad altri squadristi che avevano partecipato al raid contro il “Corriere della Sera”. La lista è ancora molto lunga: i vari Saccucci, che girano impunemente per il villaggio olimpico, il fucilatore Almirante, l’assassino Caradonna e tutti gli altri nemici del proletariato non credano che basti circondarsi di gorilla per proteggersi. Il proletariato ha tante lunghe mani: fascisti, padroni, per voi non c’è domani. Siamo i Nuclei armati per il contropotere territoriale».

Nuclei armati per il contropotere territoriale. Questa sigla eversiva si era già fatta notare alcuni mesi prima con due attentati dimostrativi: uno ai danni della sezione Dc “Villa Gordiani” e un altro presso la sede della rappresentanza italiana della Mercedes, entrambi senza particolari conseguenze. In risposta al recente omicidio di Walter Rossi gli estremisti di sinistra hanno voluto alzare il tiro con un’eclatante azione antifascista. L’intento era quello di compiere una strage vera e propria. Se il portone blindato fosse stato già chiuso a chiave, e non semplicemente accostato, tra quei ragazzi non vi sarebbe stato alcun sopravvissuto.

In concomitanza, ad Acca Larentia, tra fotografi e giornalisti iniziano a radunarsi centinaia di attivisti missini provenienti da tutti i quartieri della città. La soglia della sezione è attraversata da un’enorme pozzanghera di sangue, penetrata sotto la porta metallica e confluita anche lungo la pavimentazione del locale. Fuori stazionano alcuni dei volti più noti del Msi, come il segretario nazionale del Fronte della gioventù, il ventiseienne Gianfranco Fini. In quella folla si distinguono anche Valerio e Cristiano Fioravanti, Franco Anselmi e Alessandro Alibrandi. Anselmi ha ancora con sé il passamontagna intriso del sangue di Mantakas. In questi tre anni lo ha conservato come una reliquia, senza mai lavarlo. Accingendosi a compiere un macabro rituale di vendetta, il giovane intinge quel copricapo nel sangue appena versato dai morti di Acca Larentia, pronunciando, nel più solenne silenzio, un feroce giuramento interiore.

Nel frattempo, l’area circostante è interamente avvolta da un visibile manto di collera, un drappo invasivo e soffocante che si stringe sempre di più attorno a quei volti carichi di rabbia, generando un cumulo di tensione che esplode d’improvviso in tutta la sua brutalità. Si odono delle grida, poi si passa agli insulti e agli spintoni. Un giornalista del Tg1, tale Carlo Ceccherini, è ad un passo dal linciaggio. Pare che abbia gettato un mozzicone di sigaretta nel sangue dei ragazzi appena uccisi. Un gesto probabilmente involontario ma che, in quel contesto di estremo nervosismo, ad alcuni appare come una vile e intollerabile provocazione. Quando le forze dell’ordine accorrono in difesa dei giornalisti si scatena il finimondo. Una Fiat 127 dei carabinieri viene presa letteralmente a calci da un gruppo di attivisti di destra. I militari rispondono con lancio di lacrimogeni. La veglia in omaggio delle vittime si sta trasformando in un vero e proprio scontro di piazza. D’improvviso si odono dei colpi di pistola e un giovane cade per terra in una pozza di sangue. Stefano Recchioni, diciannove anni, militante della sezione di Colle Oppio, nonché chitarrista di un complesso rock-progressive di destra denominato “Janus”, è la terza vittima di Acca Larentia. Accanto a lui c’è una ragazza diciannovenne che milita nel Msi, si chiama Francesca Mambro e ricorderà così quel drammatico evento:

«Ci sono stati dei momenti di tensione perché comunque le forze dell’ordine che erano arrivate sostenevano che non dovevamo essere lì in assembramento. Questa tensione è poi scaturita in un continuo grido di slogan contro polizia e carabinieri, perché dicevamo: “Andate ad arrestare chi ha ammazzato i nostri amici invece di stare qui a dire a noi che non possiamo stare dove c’è il sangue”. In quel momento un giovane capitano dei carabinieri, preso dal timore che ci fossero degli scontri, spara dei colpi di pistola e uccide un altro ragazzo di diciotto anni, Stefano Recchioni, che frequentava il liceo scientifico Benedetto Croce e che io conoscevo, appunto, perché eravamo vicini di scuola. In quel momento eravamo uno accanto all’altra perché eravamo arrivati per capire cosa fosse accaduto ad Acca Larentia. Quindi non solo muoiono i nostri amici per mano di questo attacco della volante rossa ma anche per mano dell’arma dei carabinieri».

In questa occasione Valerio Fioravanti decide di approfondire la conoscenza di Francesca Mambro, poiché, come dichiarerà successivamente, «fu l’unica che ebbe il coraggio di andare a testimoniare contro questo capitano mentre tutti i vertici del partito fecero finta di non aver visto niente». I due si erano già conosciuti una volta, da bambini, sul finire degli anni Sessanta. Dopo essersi persi di vista si sono rincontrati sedicenni, nei pressi della sezione del Msi di via Noto. Oggi, dopo i fatti di Acca Larentia, inizia a prendere vita un legame di amicizia che, con il tempo, diventerà sempre più intimo. Ad ogni modo, in questo tragico periodo di lutto, il sentimento che prevale nel cuore di tutti i giovani della destra romana è di ben altro tenore. Tra i camerati in carcere girano alcune voci, sembra che gli autori dell’agguato frequentino una casa occupata in via Calpurnio Fiamma. Valerio e gli altri decidono di mettere a segno la loro vendetta nel giorno dell’anniversario della morte di Mikis Mantakas.

«Il 28 febbraio sera partimmo con un paio di automobili, con due o tre automobili, le pistole addosso per andare a fare un’irruzione in questa casa occupata e in qualche modo affrontare di petto la situazione, cioè: prendere qualcuno, metterlo spalle al muro, farlo parlare ed eventualmente attuare in quel luogo la nostra vendetta. Arrivammo alla casa occupata, in questo gruppo c’eravamo io, Cristiano, Alessandro, Franco Anselmi, eravamo noi il gruppo principale, poi un numero limitato di altre persone che avevano l’incarico chi di autista, chi di portare le varie macchine di ricambio…».

In quel posto però non c’è più nessuno. A sgomberare la casa occupata ci hanno già pensato le forze dell’ordine, tuttavia, il gruppo si trova in una zona decisamente rossa e di sicuro qualche compagno di quel centro sociale si aggira ancora nei paraggi. Giusva decide di ripiegare sui giardinetti di piazza Don Bosco, lì sta bivaccando un gruppetto di giovani dall’aspetto inequivocabilmente di sinistra: capelli lunghi, barba incolta, giornali che spuntano dalle tasche dei cappotti. Non vi è alcun dubbio: sono compagni. Gli orologi segnano le 23.12. I fratelli Fioravanti e Franco Anselmi, con le pistole in pugno, sono ancora in tempo per poter celebrare nel sangue l’anniversario della morte di un camerata. Il fragore dei proiettili fa sparpagliare quei ragazzi in pochi secondi. Due di loro, i fratelli Scialabba, cadono a terra feriti. Il più giovane, Roberto, di ventiquattro anni, è stato appena raggiunto da due pallottole alla schiena. Non riesce più a rialzarsi e si contorce dolorante sulla ghiaia, mentre suo fratello Nicola, di qualche anno più grande, ferito da un solo colpo alla schiena, si dà alla fuga trascinandosi sanguinante verso la vicina farmacia. Se la caverà in ospedale con un intervento chirurgico. Diverso è invece il destino di Roberto. Valerio si incammina verso il giovane moribondo e lo finisce senza alcuna pietà, con un colpo alla testa.

Adesso i fratelli Fioravanti sono pari, hanno entrambi ammazzato una persona inerme. Roberto Scialabba era innocente, proprio come Walter Rossi. Con l’agguato di Acca Larentia quel ragazzo non aveva proprio niente a che fare, se ne era accorto anche il suo assassino, un istante prima di sparare, scorgendo un lampo di stupore negli occhi della vittima e proseguendo ugualmente, senza alcuna remora. Questo agguato sigilla in modo definitivo la scelta lottarmatista del gruppo. L’omicidio viene rivendicato a nome della Gioventù Nazional Rivoluzionaria, con una telefonata ad un giornale, ma il comunicato non sarà mai reso noto. Il giorno successivo i quotidiani spingono sui piccoli precedenti penali dei fratelli Scialabba e sul presunto utilizzo di sostanze stupefacenti che girerebbe attorno alla faccenda. L’ipotesi più accreditata, secondo gran parte della stampa, è quella di un regolamento di conti tra spacciatori. Sarà il giornale Lotta Continua, il 3 marzo 1978, a parlare di «tappa del terrorismo fascista» e in effetti si tratta proprio di una tappa fondamentale: il gruppo di Valerio Fioravanti decide di proseguire fino in fondo lungo la strada intrapresa ma per farlo bisogna attrezzarsi al meglio. Nel corso della sparatoria le pistole si sono inceppate più di una volta. Per giungere ad una svolta nella lotta armata c’è bisogno di materiale di un certo livello…