Al centro dei piaceri mercantili non c’è che l’impossibilità di godere. Con la coscienza della sua crescente astenia, la vita contempla la storia del suo disseccamento e si scopre all’incrocio di una scelta immediata: o la consolazione della morte, o il rovesciamento globale del mondo alla rovescia. E’ finito il tempo di quando la consolazione sosteneva l’illusione del mondo, quando la corsa allo sterminio si dava l’alibi del bene pubblico e della felicità.
Quando considero con quale perseveranza la razza umana ha messo in opera per annientarsi così notevoli mezzi, come le guerre, la schiavitù, la tortura, il disprezzo, i massacri, le epidemie, i soldi, il potere, il lavoro, quello che non è ancora morto oggi mi appare come il fremito dell’irriducibile. Su quest’ultimo sprazzo di vita, che niente più riesce a dissimulare e che tutto può estinguere, voglio fondare una società radicalmente nuova. Non c’è mistica della vita, non c’è mistica che in sua assenza. Non ci sono ragioni per la vita, ma solo la ragione dell’imperialismo mercantile che la circonda e che ne precisa a ogni incontro il carattere irriducibile. La parola «vita» perde in effetti, la sua ambiguità quando traspare la struttura mercantile dei presunti rapporti umani. La sua realtà non si accorda con questi amori, dai quali acquistate la libertà al dettaglio, e che vanno in fabbrica come andavano ieri al bordello, al peccato, al convento, alla famiglia. Essa non si nutre di questi desideri che il rilancio concorrenziale rode fino all’osso della produttività e del rendimento. Non si lascia ridurre a non so quale spasmo della vagina, del fallo, dell’ano, dello stomaco, della cervice o della clitoride. Non ha niente a che vedere con una economia sessuale, gastronomica, politica, sociale, intellettuale, linguistica o rivoluzionaria, perché essa sfugge a ogni regola di produzione. Non rimpiazza i vecchi divieti con la necessità di trasgredirli. Non ha scopo, né finalità. Essa è ciò che sfugge all’economia e la distrugge della sua gratuità. Con la sua intrusione nella storia, con lo scaturire alla confluenza di una società moribonda e di una autonomia nascente negli individui, la vita è nella sua stessa estraneità, una realtà nuova. Che importa se la sua scoperta la espone alla fragilità, ai vagabondaggi della coscienza individuale, alla scelta lacerata dalle confusioni delle sue apatie e dei suoi rifiuti. I brancolamenti dell’emancipazione portano in sé meraviglie che la civiltà mercantile non ha mai sognato fra terra e cielo.
I pensieri di morte sono i pensieri del mondo dominante. Più la vita deperisce e più il mercato, puntando sulla penuria dei godimenti, moltiplica l’offerta dei piaceri della sopravvivenza, la cui vendita e acquisto si rovesciano subito in costrizione e lavoro. E neanche il loro rifiuto fa a meno di rientrare di rientrare nella bilancia dei pagamenti. Con quale faccia denunciate la classe burocratico-borghese, i mangiatori di carogne della conquista mercantile, l’apparato funebre di una società che si distrugge nella corsa al profitto e al potere! Riconoscete almeno, a questi signori, la sincerità del loro deperimento. Essi si eccitano al prezzo delle cose, accettano la loro miseria come una fatalità del denaro, rivendicano la loro bassezza, il loro odio per quello che vive, la loro giustizia, la loro polizia, la loro libertà di uccidere, la loro civilizzazione.
Ma voi che vi pensate del campo opposto, voi che puntate sulla sconfitta della merce, sulla fine dello Stato, sull’avvento di una società senza classi, voi che intonate, fra un boccone e l’altro, i canti di vendetta nei quali si sente già il rumore degli stivali, in cosa sareste diversi dai vostri nemici, in cosa fareste sentire meno il puzzo della morte? Non raccontatemi che state esultando in anticipo degli ultimi giorni del vecchio mondo. Attendere con pazienza o con impazienza l’ultimo sussulto di una società che ci ghermisce e ci trascina nel turbine della sua agonia, è un passatempo da cadaveri. Vi siete tanto promessi la festa di cui morite dalla voglia, che non vi resta che la voglia di morire. Passate a profetizzare l’apocalisse nello stesso tempo che un burocrate impiega a programmare le sue future promozioni. Come lui, il mercato della noia è riuscito a interessarvi. Disprezzatori e laudatori del vecchio mondo, le vostre parole variano, ma l’aria resta la stessa. Le vostre chiese politiche, le vostre riunioni di famiglia, i vostri tavoli d’osteria, risuonano di un unico coro, eroico e imbecille, l’inno dei suicidi.
Il campo della rivoluzione ufficiale è la corte dei miracoli della burocrazia. I Teologi della Grande Sera vi separano sottilmente il territorio degli angeli e dei demoni, gli sciancati dell’insurrezione a venire sciolgono la matassa delle linee da seguire, i puritani finalmente decisi ad approfittare della vita, poiché non ci sono che i piaceri che costano, si frequentano con i procuratori inchinandosi alle virtù della trasgressione, predicando i doveri del rifiuto, assegnando etichette di radicalità e denunciando la miseria dell’ambiente. Ai giudici replicano gli avvocati del quotidiano e, il disprezzo si aggiunge al disprezzo, mentre sale da queste comuni assemblee un odore che assomiglia a quello dei comitati centrali, degli stati maggiori e dei servizi di polizia. Da qui escono i rassegnati gloriosi della miseria e i falliti dell’alba terrorista. Perché il colpo di dadi col quale si rischia la pelle pagandosi quella di un magistrato o di qualche altro che dà fastidio non è che il segno premonitore della grande svalutazione finale quando la morte sarà per niente. La più miserabile delle sopravvivenze trae dalla falsa gratuità del niente e dal suo semplice spettacolo un aumento inatteso del suo prezzo. Tutte le morti sono pagate in anticipo al tasso di usura.
Nessuno rovescerà il mondo alla rovescia con la parte d’inversione che si porta dentro. Abbiamo troppo combattuto l’economia con un comportamento economicista dove il rifiuto ci serviva da alibi. Non si lotta coscientemente la proletarizzazione, proletarizzandosi inconsciamente. I progressi dell’intellettualità, inerenti all’avanzata della merce, impegnano volentieri ciascuno a proiettare sulla critica del vecchio mondo la lucidità che egli trascura di applicare al proprio destino individuale. Tale è l’ironia del mondo alla rovescia che i migliori cani da guardia della teoria rivoluzionaria diventano, senza cessare di abbaiare sullo stesso tono, i migliori cani da guardia del Potere. Siamo vissuti nel divenire della merce, in una dialettica della morte che non è altro che la storia dell’economia che si nutre di materia umana, la storia di un impero che cresce e deperisce simultaneamente, nella misura in cui gli uomini che ne producono e ne subiscono il potere si riducono poco a poco a puro valore di scambio.
Eccoci, allo stadio del suo estremo e ultimo sviluppo, prendere posto sui gradini per assistere alla sua fine, ma condannati a morire con esso, perlomeno se restiamo intrappolati dal riflesso mercantile, se lasciamo scappare la possibilità, oggi evidente, di fondare una dialettica della vita, una evoluzione dove l’umano sfugge totalmente all’economia. La morte tira così di netto le linee di prospettiva del potere che il sentimento di una prospettiva radicalmente altra comincia ad appassionare chiunque non abbia rinunciato a vivere. Essa parte da individui particolari, dalla irriducibile soggettività, da questo vissuto sul quale s’infrangono l’incitamento al lavoro e alla sottomissione. Da queste fisse e ridicole pedine che noi siamo in punti diversi sulla scacchiera del potere e del profitto, la vita emerge a colpi. Qui si radica il rovesciamento del mondo all’incontrario: la creazione di una società fondata sul godimento individuale e la distruzione di ciò che lo impedisce. Qui si abbozza il regno della gratuità con l’annientamento della merce, nel nostro presente immediato. Esso non appartiene alle fantasie della creatura oppressa. Non annuncia nessuna età dell’oro, né alcun paradiso perduto. E’ un mondo in divenire, dove ogni elemento è presto o tardi il suo contrario, muore e rinasce. Ma questo divenire non vuole avere niente in comune con la civiltà della merce. Che una volta per tutte sia chiaro come gli esseri e le cose non si trasformano, allo stesso modo, in una società che riduce la vita a una produzione di cose morte, e in una società dove la storia è l’emanazione della volontà di vivere individuale.