Articolo uscito sulla rivista Domino
Dal 7 ottobre del 2023 la questione israelo-palestinese è tornata a occupare le prime pagine e i palinsesti dei media occidentali, dando all’opinione pubblica l’ennesima occasione per polarizzarsi, allestendo le parti di un dibattito che dovrebbe dimostrare la buona salute di una democrazia e che invece ne sancisce l’impotenza.
Più si parla di pace, armistizio, de-escalation, più il conflitto si estende, tanto che oggi aumentano gli attori coinvolti, i popoli offesi, e così anche le vittime. Più che sulla guerra in sé, allora, conviene soffermarci sulla guerra sopra la guerra, che avviene sul piano dei simboli e delle ideologie: la guerra che si compie nell’interregno mediatico, in quello spazio dove danzano i simulacri, dove ci arrivano immagini riflesse di una lotta che si gioca su un piano puramente iconografico e discorsivo, perché informata dai media, cioè messa in forma da essi, di modo che ognuno di noi possa posizionarsi e scegliere da che parte stare.
Ci sono troppi intermediari tra noi e la guerra, e, come in un gigantesco gioco del telefono senza fili, tra la realtà dei fatti bellici e quello che vediamo o ascoltiamo su di essi si perde la sostanza: rimangono sbiaditi fotogrammi di un conflitto etnico, religioso, geografico, che siamo costretti a filtrare con le nostre categorie occidentali per digerirlo, al costo però di snaturarlo e di farlo diventare qualcosa di completamente diverso da ciò che è.
E se fosse proprio questa incomprensione, questo enorme malinteso, a rendere problematico qualsiasi nostro intervento o azione che partecipi a risolvere uno scontro che abbiamo, storicamente e politicamente, contribuito a creare? Cosa rimane, oggi, nei media occidentali, nel dibattito pubblico, negli opposti schieramenti della questione israelo-palestinese?
Chi si appropria dei termini del conflitto, chi ne monopolizza i simboli? E perché spesso proprio questi termini e questi simboli non coincidono con la realtà che vorrebbero rappresentare? Sia nell’universo di sinistra che in quello di destra, sia tra i filo-palestinesi che i filo-israeliani, si avvicendano una serie di fraintendimenti e incomprensioni dettate da pregiudizi ideologici che, già in passato, si sono rivelati i prodromi delle catastrofi a venire.
Buona parte dei partiti, movimenti, associazioni che si collocano nell’area politica progressista, e difendono pubblicamente la causa palestinese, sembra non tenere conto di tante contraddizioni in cui sono costretti a imbattersi e che minacciano la comprensione del fenomeno in tutta la sua portata, innescando facili strumentalizzazioni.
La difesa del soggetto palestinese in ciò che rimane della striscia di Gaza, in questo momento storico, passa per Hamas, un’organizzazione politica islamista che perpetua una linea offensiva e sacrificale nella gestione del conflitto. Alla tradizionale figura del fida’i, o fedayn (a cui si rifà l’inno nazionale palestinese), il combattente per la libertà, di matrice laica, pronto ad attaccare per poi rientrare alla base, Hamas predilige l’istishhadi, colui che è disposto a morire nell’attacco, cercando proattivamente il martirio, in un’accezione religiosa, millenarista, che abbraccia quella mistica della morte cara all’imam Ruhollah Khomeini – leader della rivoluzione iraniana, che vedeva nella guerra uno «sbocco vitale attraverso il quale i giovani martiri iraniani sperimentarono la trascendenza mistica». Il martirio è parte di una filosofia complessiva, un pilastro ideologico centrale e un ideale organizzativo di Hamas. Questa organizzazione politica vede nell’Islam «l’ideologia più solida attraverso cui raggiungere gli obiettivi della lotta nazionale palestinese»[1].
Rispetto alla prima Intifada, che aveva suscitato, per metodi, per iconografia e immaginario, per le sue componenti marxiste e nazionaliste laiche, le simpatie della società civile occidentale e dei suoi organismi internazionali, le modalità di lotta della resistenza palestinese sotto l’egida di Hamas ora sono molto cambiate: ha imparato dagli errori della precedente Olp, la cui via pacifista e diplomatica si rivelò troppo ingenua. Non soltanto sono cambiati i mezzi di cui dispone e gli armamenti, ma è variato anche l’impianto ideologico, il quale, col tempo, si è avviato verso una risemantizzazione della causa in chiave profondamente religiosa, teleologica, fondamentalista.
Hamas, che oltre ad essere l’acronimo arabo di Movimento di Resistenza Islamico, significa “zelo”, ha come scopo dichiarato quello di sostituire lo Stato d’Israele con un Stato musulmano governato secondo la legge della sharia, così come vuole l’organizzazione dei Fratelli Musulmani di cui è stata l’iniziale propaggine. Si impegna a perorare tale missione, come si legge nel suo statuto, «nelle visioni e nelle credenze, in politica e in economia, nell’educazione e nella società, nel diritto e nella legge, nell’apologetica e nella dottrina, nella comunicazione e nell’arte, nelle cose visibili e in quelle invisibili, e comunque in ogni altra sfera della vita».
Per Hamas la Palestina non è terra dei palestinesi, ma dell’umma musulmana in generale, in una visione ancora più allargata di nazionalismo; sicché, suona molto controintuitiva l’adesione cieca e infervorata di una sinistra che continua a proclamarsi laica, globalista, no-border, LGBTQ, alla causa palestinese, inserita all’interno di una dinamica che vede coinvolti nel sostegno attori come l’Iran (che ogni anno stanzia circa cento milioni di dollari per Hamas) e gli Stati arabi del Golfo Persico che l’universo progressista da sempre condanna per la lesione dei diritti umani e il mancato rispetto delle libertà individuali.
È chiaro tuttavia che la sinistra occidentale non ha come scopo volontario spalleggiare l’islamismo più estremo, come vorrebbe farci credere la destra conservatrice, sempre pronta a paventare l’impossibile clash of civilization; ma riconosce in modo più che naturale la precarietà della condizione in cui sono intrappolati i palestinesi, ostaggio di un popolo di coloni «che si rifiuta di parlare un linguaggio politico con coloro che rende abietti, che si affida a violenza eccessiva e impunità diplomatica e legale e che impiega un complesso sistema di forme di controllo architettonico, tecnologico e indiretto»[2].
Di fronte a questa evidenza, la resistenza palestinese, anche nella sua forma più radicale che urta la sensibilità dei liberali più della violenza sistematica di Israele, ha indubbiamente le sue fonti di legittimità. Ci chiediamo però perché il sostegno alla causa palestinese non si sia palesato con altrettanta veemenza prima che la questione, la cui genealogia è di molto anteriore al 7 ottobre, si esacerbasse al punto da diventare più religiosa che politica. Questi abissi non scompariranno all’indomani di una vittoria dell’una o dell’altra parte, o anche solo di una pace, ma ritorneranno con fisionomie diverse, in luoghi diversi, poiché i progressisti e l’universo woke rimangono una delle due facce di una medaglia occidentale che proprio Hamas e il fondamentalismo islamico annoverano tra i loro nemici giurati.
Questa guerra testimonia come l’opinione pubblica, oggi prevalentemente filopalestinese, giochi un’influenza limitatissima di fronte all’egemonia di Israele sulle istituzioni. Qualsiasi forma di sostegno, anche la più urgente e necessaria deve comunque essere consapevole di sé, della sua natura e di quella dei soggetti politici che coinvolge il suo endorsement.
Spostandoci dall’altro lato dello spettro politico, è doveroso considerare cosa è ideologicamente sottointeso nel sostegno che le destre occidentali assicurano, con poche riserve, allo Stato di Israele. Secondo le dichiarazioni esplicite, questo sostegno si regge su un convinto anti-antisemitismo, la volontà di non ripetere gli errori del passato, la difesa del diritto di uno Stato sovrano a difendersi, anche con vigore, da chi ne minaccia la sopravvivenza, tanto più se si tratta di uno Stato inserito nell’asse militare occidentale. Molto spesso la presenza stessa della democrazia israeliana in Medio Oriente viene rappresentata, soprattutto dalla destra repubblicana, come un prerequisito imprescindibile per garantire l’equilibrio e la sicurezza della regione. Rispetto alle varie monarchie etniche o repubbliche teocratiche, oltre ai vari gruppi ribelli sciiti o sunniti che provano a rovesciarle, la repubblica parlamentare di Israele rappresenta, agli occhi della destra, un modello costituzionale legittimo che, qualora diffuso al resto della regione, porterebbe pace e stabilità.
Ma può darsi ci sia qualcosa di più profondo a guidare quest’opinione, un sentimento che si inserisce pienamente nel solco della tradizione storica della destra, quella stessa da cui oggi tanti partiti politici si affannano nel prenderne le distanze.
Cos’è che caratterizza, a ben vedere, la comunità ebraica? Ogni comunità di popolo è determinata da criteri di appartenenza specifici, e questi criteri dipendono a volte da principi trascendenti, ma spesso da condizioni materiali di sopravvivenza. Così la comunità americana, in origine fondata sull’appropriazione di una terra percepita come vergine agli occhi dei suoi colonizzatori, si basa sul suolo. Ciò ha corroborato il caratteristico ius soli.
La comunità ebraica, al contrario, non potendo per lungo tempo fare riferimento a una terra, se non a una perduta o promessa, ha dovuto fondare la propria appartenenza esclusivamente sul sangue e su Dio, in termini tanto più radicali quanto più lontana dovesse sembrare la prospettiva di abitare un giorno una patria propria e comune. Questo ha fatto sì che ovunque migrasse una delegazione ebraica, indipendentemente dal lembo di terra che finiva ad abitare, questa conservasse un’appartenenza costitutiva al popolo di origine, riservando a esso una fedeltà che la quotidiana commistione con comunità diverse, il comune abitare una terra condivisa, non avrebbe potuto minare in alcun modo. L’assenza di una terra propria ha trasformato la patria, per gli ebrei, in un concetto mitico e messianico, impossibile da identificare in uno spazio geografico da abitare con altri.
Per questo motivo il popolo ebraico, fin dalla sua diaspora, ha sempre rappresentato un insieme comunitario problematico per la frangia più identitaria dei popoli che, nei secoli, vi sono entrati a contatto o vi hanno convissuto. Benché per lungo tempo nomadi e dispersi, gli ebrei hanno da sempre avuto un’identità invidiabilmente marcata. Quelle stesse prerogative identitarie che caratterizzano la comunità ebraica, e che la separavano rigidamente anche dai suoi conterranei, garantiscono oggi agli israeliani, nel conflitto che li vede opposti al popolo palestinese, le simpatie dell’ala politica più incline all’identitarismo nazionale.
Quest’ala è quella che in occidente ha raccolto l’eredità ideologico-identitaria dei vari nazionalismi novecenteschi, ovvero la destra repubblicana. Fatte le dovute distinzioni, essa in sostanza si fonda su una declinazione, di volta in volta regionale, della triade Dio, patria, famiglia.
Dunque, un principio superiore che giustifica trascendentalmente l’eccezionalità del popolo, un suolo da difendere e una comunità di sangue cui appartenere. Agli occhi della destra moderna o dei suoi precursori ideologici, la questione ebraica è sempre stata posta nei termini di un problema da risolvere, poiché l’ostinazione degli ebrei nell’identificarsi anzitutto come tali li rendeva, agli occhi di un sovrano o di una comunità con pretese egemoniche, inassimilabili.
È noto come il nazista Adolf Eichmann, a cui il partito aveva affidato la logistica del “problema ebraico”, avesse elaborato, su ordine indiretto di Hermann Göring, un progetto di deportazione di massa degli ebrei europei verso il Madagascar, al ritmo di un milione l’anno, per quattro anni. Il “Piano Madagascar” riprendeva in realtà una proposta già avanzata dall’antisemita Paul de Lagarde nel 1885, mentre i sionisti, dal canto loro, sembravano propendere per il più vicino Uganda.
Benché nessuna delle due destinazioni potesse contare, quanto la Palestina, sul supporto esegetico dei testi sacri, questo precedente storico dimostra come uno Stato ebraico fosse un’alternativa con cui lo stesso nazismo si era intrattenuto, alla ricerca di una soluzione al “problema” ebraico, prima di elaborare quella finale e spietata.
Il supporto che la moderna destra repubblicana offre alla causa israeliana non stride affatto, perciò, con le teorie politiche dei suoi precursori ideologici – le varie destre nazionali, aristocratiche o borghesi che fossero – spesso caratterizzate da uno spiccato e trasparente antisemitismo.
Non solo perché una costituzione simile a quello dello Stato di Israele, sarebbe, di fatto, la massima ambizione giuridica a cui potrebbe aspirare una destra moderna – soprattutto nella sua declinazione più autoritaria, essendo quella più moderata e liberale difficile da conciliare con un assetto teocratico – ma anche perché lo Stato di Israele rappresenta una soluzione definitiva al problema ebraico, che minaccia l’uniformità identitaria dell’Occidente fin dagli albori della sua esistenza politica.
Il governo di Gerusalemme rappresenta l’esperimento più riuscito di un’elaborazione statuale in chiave moderna della triade Dio, patria, famiglia, grazie a un’interpretazione rigidamente teocratica dell’agenda politica (assicurarsi il controllo della Terra promessa da Dio), un sistema di discendenza/cittadinanza che garantisce la continuità etnica, e, finalmente, dopo una diaspora millenaria, una terra da difendere contro una persistente minaccia “esterna”.
Vi è dunque anche un’inconfessata radice antisemita nel sostegno che le destre nazionali elargiscono alla causa israeliane, poiché lo Stato di Israele costituisce una soluzione definitiva e conciliante al problema che la comunità ebraica ha sempre rappresentato per le frange più identitarie dei paesi occidentali. Problema che non poteva che riproporsi nel territorio dove si è acconsentito di dislocarlo.
La confusione e l’aggressiva partigianeria che domina il dibattito occidentale sulla guerra non riguarda l’interrogativo principale, che l’apparato mediatico dovrebbe permettere di porre: a quale delle due parti si vuol fornire sostegno? All’Israele tendente alla teocrazia o alla Palestina di Hamas?
In realtà le parti coinvolte nel conflitto sono molte di più. Ci sono attori secondari e terziari che si muovono dietro le quinte e, tra i rivoli di sangue e le macerie, tirano acqua al proprio mulino. La questione che ha senso porsi, forse l’unica, riguarda la natura stessa del sostegno a una delle due parti, e quindi il ruolo che l’Occidente vuole avere nel mondo.
In quanto dispositivo planetario di gestione della crisi, l’Occidente contiene al suo interno, intrinsecamente, i prodromi di tutte le guerre future. Si è vista ormai la medesima dinamica, in forma diversa, ripetersi in (quasi) ogni contesto di crisi mediorientale. E se quantomeno in Libia, in Afghanistan, in Siria, in Iraq l’Occidente poteva ancora contare su una vigorosa, e spesso immatura, coscienza di sé, oggi il suo intervento sembra sempre più fiacco e meno convinto, guidato non più da un’idea presente di potenza, ma dagli spettri del passato e dall’angoscia del futuro.
Per questo all’opinione pubblica occidentale interessa poco comprendere chiaramente ciò che è in gioco nel conflitto israelo-palestinese, come del resto negli altri conflitti in corso. Le guerre sono un pretesto per estrapolare, a scapito di Paesi terzi, un assetto valoriale e una idea di mondo, mentre i combattimenti scorrono per conto loro. I conflitti sono solo l’occasione per giocare la propria mano, comodi e al sicuro, nella battaglia delle opinioni, per prendere posizione e affermare valori, con la serena coscienza di una pressoché totale ininfluenza.
La presa di posizione nella guerra mediatica permette a ciascuno di situarsi, di leggere il reale attraverso la visione preconcetta che in seguito estrapolerà dai notiziari e dai discorsi pubblici. Mentre le conseguenze sul conflitto restano limitate, tale presa di posizione risulta un ottimo strumento per discriminare la popolazione civile tra chi è incapace di liberarsi del peso opprimente del passato, da conservare cambiandogli forma, e chi è invece talmente proiettato nel progresso futuro da non prevedere i pericoli latenti e i disastri di domani
[1] A. NASSER, La fabbricazione di una bomba umana: un’etnografia della resistenza palestinese, Duke University Press, Durham 2009.
[2] A. OMAR, La questione di Hamas e della sinistra,