L’Occidente, complesso economico, militare sociale, politico, religioso prima ancora che geografico, malgrado i ricorrenti annunci di declino o collasso, nonostante la crisi di legittimità che le sue istituzioni soffrono a livello internazionale, dispone ancora del più grande arsenale di guerra e del più grande arsenale di pace al mondo.
Guerra e pace sono innanzitutto dei dispositivi. Un “dispositivo”, scrive Michel Foucault, è «un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del non detto, ecco gli elementi del dispositivo»[1]. E, a proposito della guerra e della pace, cosa dice l’Occidente e cosa, invece, non dice? Il detto è il contenuto immediatamente espresso, sono le motivazioni dichiarate che legittimano le funzioni dei nostri apparati di guerra e di pace. Il non detto è la componente rimossa, ciò che non si può dire. Così come la psiche adotta dei meccanismi di rimozione di quei desideri, pensieri o residui di memoria che considera inaccettabili, così accade che una società è costretta a tacere tutto ciò che non può tollerare. Gli elementi rimossi, tuttavia, non vengono mai soppressi del tutto, ma tendono a ricomparire deformati: si ripresentano sotto forma di nevrosi, crisi d’angoscia, atti mancati, lapsus. Sul piano della psicologia collettiva, ritornano nel corpo visibile del discorso, quindi nei nostri media, nelle affermazioni di politici e giornalisti, nelle nostre conversazioni quotidiane, sotto forma di contraddizioni, cortocircuiti, incoerenze dell’ideologia.
Il discorso attraverso cui l’Occidente giustifica i dispositivi della guerra e della pace nel tempo ha subito significative variazioni, aggiunte e sottrazioni. Prima del 1945 la pace era un dispositivo ancora acerbo. Poco dibattuto dagli antichi, una mistificazione a detta di Platone («in realtà fra le Città perdura, quasi per legge naturale, uno stato di conflitto non dichiarato di tutti contro tutti» Leggi, 626a) e definito quasi esclusivamente per negazione, per lunghi anni è monopolio della religione cristiana, attributo di Cristo («Ipse est pax nostra») e di una Chiesa cattolica che non ha certo sdegnato la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie, ma che ha rappresentato, per molti anni, con la sua letteratura teologica, la sua vocazione missionaria e le sue spedizioni evangelizzatrici in tutto il mondo, l’unico corpo intermedio capace di elaborare teoricamente la pace.
Con il giusnaturalismo, con i contributi di Grozio, Hobbes, Locke e poi Kant, autore del celebre trattato Per la pace perpetua, si assiste, parallelamente alla nascita dello Stato moderno, a una laicizzazione del concetto, e ai primi tentativi filosofici di immaginare delle confederazioni internazionali che ne garantiscano il mantenimento.
La guerra, invece, è un dispositivo antichissimo, ha una tradizione immemore, discorsi millenari, istituzioni consolidate. Finché la pace non divenne un apparato stabile e prolifico, la guerra non ebbe bisogno di discorsi articolati che ne legittimassero l’impiego. I moventi erano tutti più o meno validi. Con la nascita dei primi imperi coloniali, l’Occidente esportò la guerra fuori dai suoi confini, consapevole che per saldare il costo del suo sviluppo industriale era costretto a sfruttare in forma sempre più massiccia le risorse presenti in altri territori. Per giustificare la sottomissione dei popoli autoctoni furono sufficienti discorsi semplicisti e grossolani. La superiorità bellica, logistica, tecnologica era ragione più che sufficiente per comprovare la fondatezza del nostro dominio.
L’ignoranza dei popoli indigeni rispetto alla rivelazione biblica ne sanciva l’indegnità, nella distanza da Dio. Inventata l’idea di progresso, la diversità dell’organizzazione politica fu interpretata come sintomo di arretratezza nelle tappe della civilizzazione.
A questi si aggiunsero i temi della superiorità della razza, un abisso ideologico in cui caddero, nell’Ottocento, i pensatori più raffinati, da Spencer a Carlyle, da Gobineau, Taine fino a Renan, che ebbe modo di dire: «noi non aspiriamo all’uguaglianza ma alla dominazione. I paesi estranei alla nostra razza dovranno ridiventare paesi di servi, di braccianti agricoli o di lavoratori industriali. Non si tratta quindi di sopprimere le disuguaglianze tra gli uomini ma di evidenziarle e trasformarle in legge»[2].
Con queste grezze motivazioni si inaugurò senza sensi di colpa la stagione coloniale dell’Occidente: sfruttamento intensivo delle materie prime degli altri popoli, alterazione degli ecosistemi, schiavismo, assoggettamento politico, distruzione dell’artigianato locale e sviluppo della manifattura soffocato dall’afflusso di beni di produzione europea, proprietà delle principali attività commerciali detenuta in via esclusiva da compagnie coloniali, quindi perdita dell’autosufficienza economica e alimentare dei nativi.
Durante il Novecento, sulle ceneri di un vecchio continente devastato da due guerre mondiali fratricide, catastrofi che i nascenti movimenti nazionalisti afro-asiatici nelle colonie seppero sfruttare per liberarsi dalle maglie dell’imperialismo europeo, l’Occidente cominciò a istituire il dispositivo della pace, con i suoi organismi internazionali, i suoi enti non governativi, i suoi discorsi volti a smussare le asperità tra gli stessi paesi europei, gli ex protettorati e il resto del mondo. In contemporanea il bollato Sud globale portava a termine il processo di decolonizzazione, rappropriandosi della sua storia, riformulando la sua identità, imboccando una strada che, a differenza di quanto credevano i liberali occidentali con il loro “migliore dei mondi possibili” in offerta, guardava invece, e con meno timore, all’Unione Sovietica e trovava nel socialismo, nell’economia pianificata, nella guida statale, i mezzi più veloci per avviarsi alla modernità.
Per difendersi, soprattutto, da un libero mercato predatorio in cui era difficile competere in una fase ancora emergente, non appena fu chiaro che lo smithiano laissez-faire era un giocattolo teorico anglosassone che i paesi più industrializzati suggerivano ai vicini per saccheggiarne i mercati. Non a caso in Asia, scoperto l’imbroglio, si guardò con più favore all’economista List, tra i principali teorici del protezionismo tedesco, che non ad Adam Smith. In questo nuovo scenario qualcuno vide i primi sintomi di una rovina irrevocabile. Paul Valéry cantava epitaffi «all’impero alla fine della decadenza / che guarda passare i grandi barbari bianchi»: temeva che l’Europa diventasse solo una «protuberanza del continente asiatico»[3]. Oswald Spengler scrisse il Tramonto dell’Occidente (1919) perché guardava, intimorito, all’alba del Terzo Mondo. Altri invece, i gattopardi, nei crepuscoli presagivano nuove opportunità, e sapevano che «il mondo libero», per proteggere i propri interessi, soddisfare il fabbisogno di materie prime, forza lavoro a basso costo e nuovi mercati in espansione, doveva riconoscere (seppur controvoglia) l’indipendenza dei territori in questione. Tutto cambia perché nulla cambi, e la supremazia prese nuove, inedite forme. Oggi lo chiamiamo neocolonialismo, un «imperialismo senza colonie» in cui a valere è il dispositivo della pace più che il dispositivo della guerra. Laddove non è più strettamente necessario intervenire direttamente o indirettamente per destabilizzare i paesi “sottosviluppati”, si può operare per ingraziarsi la classe dominante, orientarne le scelte politiche, economiche e culturali con il supporto, l’aiuto, la cooperazione, metodi dalla violenza sottile, raffinatissima, che pure li costringe nella nostra “sfera di influenza” senza intaccarne la sovranità d’ufficio. Kwame Nkrumah, ghanese, tra i principali esponenti del nazionalismo africano, scriveva «che lo Stato assoggettato conserva una indipendenza formale, con tutti gli ornamenti esterni della sovranità, mentre il suo sistema economico e quindi la sua politica vengono diretti dall’esterno»[4].
Il welfare colonialism è una forma di governo a distanza, come scrive Robert Paine «crea dipendenze paralizzanti dal “centro” in una popolazione periferica, un centro che esercita il controllo attraverso incentivi che creano dipendenza economica totale, impedendo così la mobilitazione politica e l’autonomia».[5] In questa fase di transizione, un ruolo fondamentale fu giocato dagli Stati Uniti, potenza vergine di un passato coloniale, addirittura ex-colonia a sua volta, di più: che ha fatto della lotta anti-imperialista il suo mito fondatore.
Nazione innocente, benedetta anzi eletta da Dio per compiere il suo «destino manifesto», quello di redimere il continente e forse il mondo intero, esportando l’esperimento democratico, diffondendo la sua idea di libertà, pacificamente se possibile ma militarmente se necessario. Malgrado l’innocenza fosse quotidianamente smentita dagli irrisolti problemi della schiavitù, dello sterminio degli indiani, della discriminazione e della segregazione razziale, l’America non esitò nel vedere sé stessa come un dispositivo di pace: spostando, nei primi anni del Novecento, con la presidenza Wilson, la mitologica frontiera oltreoceano, partecipando alla Grande Guerra, e facendo traballare le costitutive posizioni isolazioniste. I «Quattordici Punti» che Wilson espose al Congresso l’8 gennaio del 1918 applicavano il principio di autodeterminazione dei popoli, e furono un primo esercizio di regolazione delle controversie internazionali, esperimento di soft power che si risolse nel 1920 con la creazione della Società della Nazioni, lì per la prima volta auspicata, dispositivo di pace planetario, braccio “disarmato” dell’Occidente.
Nonostante furono proprio gli Stati Uniti a patrocinare la redazione dello statuto, con Wilson eletto Presidente della commissione, non vi aderirono mai, ma il regolamento dell’organizzazione descrive con precisione la nuova mentalità neocolonialista, che poi erediterà l’Onu, la cui dichiarazione d’intenti fu scritta alla Casa Bianca nel 1941, in piena Seconda guerra mondiale.
Si legge all’articolo 22 della Società delle Nazioni, a proposito delle ex colonie, che «il benessere e lo sviluppo di tali popoli è un compito sacro alla civiltà e le garanzie per l’attuazione di questo compito dovranno essere incluse nel presente atto».
Per garantire questo sviluppo però, uno Stato democratico avanzato può costringere, con un’occupazione militare temporanea, uno «Stato nuovo» ad aprire il suo commercio. Solo una volta maturo per il libero scambio, il popolo può rivendicare i suoi diritti e guadagnarsi il self-government. Un bias cognitivo molto liberal, secondo cui, in condizioni ottimali, la naturale inclinazione di qualsiasi società è quella di darsi un governo e delle istituzioni democratiche, indipendentemente dalla sua cultura e dalle sue tradizioni.
Obbiettivo è favorire quelle “condizioni ottimali”, con la gentilezza o con la forza. Grande malinteso, questo, che la redeemer nation non ha mai sciolto del tutto: esportare l’eccezionalismo, di fatto, è controintuitivo. E del resto anche un po’ naif, se pensiamo che la nascita della democrazia e del liberalismo sono sempre stati attribuiti allo sviluppo delle facoltà individuali e all’ascesa della classe media. Come si può pensare di trapiantare un sistema economico in regioni che riscontravano delle difficoltà anche solo nella traduzione di tutto il glossario liberale? Il traduttore cinese Yan fu (1854-1921), cimentandosi con le opere di Smith, Mill, Huxley, Spencer, fece fatica a rendere concetti come «vita privata», «gusto», «diritti», e «legittimo interesse personale», ma anche «volontà», «giudizio», «ragione»[6] e non riuscì a raschiare l’ideale confuciano, depositato in ogni espressione, di un mondo non competitivo, in cui l’interesse individuale è considerato sempre in relazione all’armonia sociale. Si legge ancora al comma 2: «il metodo migliore per dare effetto pratico a questo principio è di affidare la tutela di questi popoli a nazioni progredite che, grazie ai loro mezzi, alla loro esperienza ed alla loro posizione geografica, possono meglio assumere questa responsabilità e siano disposte ad accettare tale incarico: questa tutela dovrebbe essere esercitata dalle medesime come mandatarie della Società delle Nazioni».
Nacque il sistema dei mandati, nacquero gli Stati civilizzatori, numi tutelari, nacque l’assistenzialismo internazionale: nacque la pace imposta.
Perciò, per fare la guerra, si dovette cambiare la semantica della guerra, che divenne, a partire dal secondo conflitto mondiale, non più di aggressione, ma di prevenzione. Non più attacco militare ma intervento umanitario. Non più ministero della Guerra ma della Difesa. Lo scopo, come si legge nei documenti della National Security Strategy degli Stati Uniti d’America, stilati dopo il discorso di George W. Bush all’accademia militare di West Point il 1º giugno 2002, è quello di «estendere democrazia, libertà e sicurezza in tutte le regioni». Corea, Vietnam, Guerra del Golfo, Kosovo, Afghanistan, Iraq, il dispositivo della guerra si adopera a scopo di pace: ha finalità teologiche, per gli Stati Uniti, potenza del bene investita da Dio, che combatte contro l’«impero del male» (Reagan) rappresentato dall’Unione Sovietica e i suoi alleati prima, e contro l’«asse del male» (Bush) incarnato dal terrorismo di matrice islamista poi.
Pace come forma rinnovata di guerra. Guerra come strumento di pace. I dispostivi si confondono, si sovrappongono. Ma questo, ancora una volta, è solo il detto. Sono gli elementi dichiarati, le motivazioni esplicite. Il non detto della guerra, il materiale psichico rimosso, è il fatto che essa rimane il principale strumento attraverso cui l’Occidente cerca di espandere la sua egemonia a livello planetario, con l’obiettivo di mantenere intatti i suoi privilegi, inevitabilmente fondati sullo sfruttamento delle risorse altrui. E così pure l’apparato di pace, con le sue istituzioni e con i suoi discorsi (dalla cancel culture agli studi postcoloniali), nasconde il senso di colpa di un continente per l’impiego del dispositivo della guerra. Impasse ontologica, nevrosi di una società strattonata dai suoi non detti, che riemergono sotto altra forma, come contraddizioni. Da un lato non siamo disposti a rinunciare al nostro status di potenza, al surplus economico e materiale che ci riserva questo status, e dall’altro però siamo stritolati dal senso di colpa per lo stile di vita che conduciamo sulle spalle altrui. Non potendo risolvere la grande contraddizione, continuiamo a puntare sulla guerra e sulla pace, convinti che finché si gioca, il banco non possa saltare.
La guerra e la pace sono dispostivi che attiviamo, di scenario in scenario, a seconda di diversi fattori e delle priorità economiche o ideologiche che di volta in volta prevede la nostra agenda. Sono dispositivi politici e, come tali, hanno bisogno di un assenso da parte dell’opinione pubblica. Nel «free democratic world», come Churchill definì nel 1946 il blocco occidentale, il potere è regolato da un sistema di feedback quantitativo, quindi il suo principio di legittimità risponde al consenso. Qualsiasi dichiarazione di guerra o intervento di pace necessita di una motivazione (anche inventata, l’importante è che funzioni) acconsentita dalla società. Dacché l’Occidente ha attivato il dispositivo della pace ha dovuto produrre sempre più discorsi, per poter attivare quello della guerra, e questi discorsi prevedono l’invenzione di amici e di nemici, di buoni e di cattivi, un teatro di maschere e personaggi che nascondono la grande e insanabile contraddizione, il grande non detto. Giornalisti, professori, politici, rappresentanti istituzionali, opinionisti, analisti, operatori del settore umanitario si dividono nel tentativo di determinare chi è giusto difendere e chi attaccare, chi finanziare e chi sanzionare, le armi e gli aiuti da distribuire.
Il pubblico è chiamato a prendere una posizione sulla base di una produzione di discorsi e di giustificazioni alla guerra e alla pace, per lo più forniti dai media stessi, le principali centrali di diffusione del sapere e delle informazioni, che informano i fatti, quindi danno forma ai termini stessi di qualsiasi conflitto o missione di pace. Questi media rispondono a una serie di trazioni e spinte dalle forze che si contendono l’egemonia. Essendo noi europei vincolati dall’Alleanza atlantica, presieduta dagli Stati Uniti (sono loro ad avere il monopolio del dispositivo della guerra, coprendo il 69% del bilancio Nato), nelle controversie internazionali ci troviamo spesso a ratificare l’agenda delle priorità strategiche dettate da Washington. La produzione del discorso istituzionale e mediatico elaborato dagli intellettuali, «i commessi – scrive Gramsci – del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico, cioè del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante»[7], malgrado la polifonia delle voci, risente inevitabilmente di questo allineamento e di questo peso, anche contro i nostri interessi più immediati. Tra i più emblematici rimane il caso, nel 2011, dell’aggressione alle Libia, a cui l’Italia si accodò insieme a Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, malgrado le trivelle Eni nel paese nordafricano primeggiavano nell’estrazione di petrolio con i loro 267 mila barili al giorno sulla tedesca Wintershall e sulla francese Total. Gheddafi, tra l’altro, fu un interlocutore storico dell’Italia, invitato sei mesi prima a Roma per firmare accordi economici da 50 miliardi di dollari e l’intesa sul controllo dei flussi dei profughi.
È il caso, da ultimo, della guerra in Ucraina in cui l’Unione Europea ha approva le sanzioni a Mosca malgrado l’elevata dipendenza di molti paesi europei dalle forniture di gas e di petrolio russe. Così anche la produzione degli amici e dei nemici, dei buoni e dei criminali risente di questa arbitrarietà, avverte della falsificazione dell’ideologia, di un certo grado di mistificazione, creando quei malintesi che diventano, per il principio dell’eterogenesi dei fini, i prodromi delle guerre future.
Nella storia recente sono tantissimi gli esempi di questi malintesi, di scelte di campo che abbiamo motivato sulla base di concetti democratici, finzioni progressiste o altre astrazioni umanitarie, e che non solo si sono rivelate l’opposto, ma hanno finito per creare situazioni più complesse di quelle che dovevano risolvere, dando vita a ulteriori guerre, che hanno richiesto ulteriori discorsi sopra i discorsi per giustificarle (e così pure ingenti spese nel dispositivo della pace). Negli anni dell’amministrazione Carter, ad esempio, gli Stati Uniti si impegnarono nella promozione dei governi fondamentalisti lungo il confine meridionale dell’Unione Sovietica, dal Medio Oriente fino all’Asia centrale.
A teorizzare questo “Arco della crisi” fu l’orientalista britannico Bernard Lewis, professore all’Università di Princeton, un modello ripreso poi dall’allora consigliere per la Sicurezza Nazionale di Washington, Zbigniew Brzezinski. L’intento era utilizzare l’Islam in funzione anti-sovietica. Quando nel 1979 si avverò l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’armata rossa, a favore del regime filo-comunista di Kabul, gli Stati Uniti con l’appoggio militare e logistico del Pakistan e quello finanziario dell’Arabia Saudita armarono migliaia di mujaheddin dando vita a una “guerra santa” decennale e disastrosa che nel 1989 si risolse con il ritiro delle truppe sovietiche. Se questi guerriglieri sono stati presentati all’opinione pubblica come degli eroi nel ’79, venti anni dopo sono diventati i capibanda del terrorismo internazionale, mettendo a punto attentati nel Kashmir, nelle Filippine, per poi arrivare a colpire gli Stati Uniti d’America, avviando l’invasione dell’Afghanistan. Seguendo sempre la medesima dottrina si scelse di non intervenire nello stesso anno quando in Iran lo Scià di Persia era destituito dalla rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini, che godeva allora di un certo prestigio tra gli intellettuali europei.
Oggi l’Iran è uno dei paesi più invisi all’Occidente. Tanto che per fare una guerra indiretta a Teheran e mantenere il controllo dei depositi di gas e di petrolio nel Golfo Persico, gli Stati Unitii hanno deciso, a partire dalla prima insurrezione popolare contro Bashar-al Assad del 2011, di destabilizzare la Siria, uno dei pochi regimi laici e multiconfessionali della regione, finanziando e armando insieme a Francia e Gran Bretagna, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, quelli che i nostri media si sono impegnati a definire “ribelli moderati”, ma che poi confluirono nel fronte al-Nusra, in Al Qaeda, nell’Isis, trasformandosi nei miliziani dei gruppi jihadisti che qualche anno dopo rivendicheranno i maggiori attentati nel cuore dell’Europa. Allo stesso modo, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia potrebbe aver innescato uno scenario simile. Unione Europea e Stati Uniti hanno sostenuto il governo di Kiev all’unanimità, inviando armi e supporto militare all’Ucraina, che nel frattempo preme sempre di più per l’ingresso all’interno dell’Unione Europea e della Nato.
L’Occidente sembra concorde nel vedere in Mosca l’aggressore e il principale nemico della pace in Europa, ma non solleva dubbi sull’influenza che molti gruppi di estrema destra e neonazisti esercitano sulla vita politica del paese, visto il ruolo che hanno giocato nella rivoluzione di EuroMaidan e nella destituzione di Janukovyč nel 2014. Chissà che domani l’Ucraina nell’Unione Europea non si aggiunga a quella cintura di governi autoritari e illiberali insediati nei paesi dell’Est europeo, condannati dagli stessi intellettuali che sostengono Zelensky senza riserve. Oggi, con l’escalation del conflitto israelo-palestinese, ci troviamo di fronte a un’impasse ancora più complessa, che in qualche modo disvela le contraddizioni che lacerano il «mondo libero»: qualsiasi mossa dell’Occidente mette a rischio un pezzo della sua sicurezza, dei suoi privilegi e della sua reputazione, in poche parole della sua egemonia, e potrebbe dare adito a scenari ancora più critici da gestire in futuro di quelli che si è candidato a risolvere. In medicina si chiama effetto iatrogeno, quello dovuto a una soluzione terapeutica che genera dei danni collaterali peggiori della malattia che si vorrebbe scongiurare. L’incertezza è tale che la produzione del discorso non è univoca come nel caso del conflitto russo-ucraino.
Nonostante la storica vicinanza agli israeliani («fratelli maggiori» dei cristiani ricorda il Papa) il presidente americano Joe Biden, in visita a Tel Aviv dopo l’aggressione del 7 ottobre da parte di Hamas, benché garantisca il suo sostegno allo Stato ebraico, ha invitato Netanyahu alla cautela nella sua replica militare. Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha ammesso che gli attacchi di Hamas nascono «da 56 anni di soffocante occupazione», provocando la reazione perplessa di Gerusalemme.
Strattonati dal senso di colpa nei confronti del popolo ebraico che affonda le sue radici nell’Olocausto, uno sterminio tutto europeo, e allo stesso tempo dalla responsabilità indiretta per la segregazione dei palestinesi nella striscia di Gaza, che abbiamo silenziosamente avallato a partire dal 1947, con il piano Onu di partizione della Palestina, ci ritroviamo con i nostri dispositivi di guerra e di pace in tilt, che producono discorsi sempre più contraddittori a tutti i livelli. Sul fronte puramente operativo gli Stati Uniti forniscono armi e munizioni all’esercito israeliano, dispiegano mezzi militari per fare da scudo contro eventuali interventi esterni, il tutto con il favore di Ursula Von Der Layen, presidente della Commissione Europea, che parla di «sostegno incondizionato a Israele», e tuttavia l’Unione Europea destina l’indomani i primi 50 milioni di aiuti umanitari a Gaza, aiuti che i convogli sono riusciti a far arrivare dall’Egitto nella Striscia solo grazie alle pressioni che gli stessi Stati Uniti hanno esercitato su Israele.
Le contraddizioni innervano anche i discorsi politici che i due fronti dell’opinione pubblica adottano per giustificare il sostegno alle relative cause. Sono come piccoli lapsus dell’ideologia. Le forze di sinistra, dalle frange storicamente anti-imperialiste a quelle più progressiste, dagli attivisti di Amnesty agli studenti della Columbia, dai movimenti per i diritti civili a quelli più radicali, sostengono la resistenza palestinese, dimenticandosi di considerare che questo popolo sunnita, indipendentemente dall’ideologia fondamentalista di Hamas, dai rapporti con i gruppi arabi più estremisti, che pure esistono, non è in alcun modo di sinistra, non condivide battaglie per i diritti civili, istanze femministe, multiculturali, inclusive o ecologiste, e altri concetti cari all’universo woke.
La sinistra europea si è schierata con il suo potenziale nemico di domani, lo stesso che in altre vesti vorrebbe accogliere sulle sue sponde del Mediterraneo, per le tragiche ragioni umanitarie che rendono un’urgenza il problema migratorio.
Dall’altro lato la destra liberale e conservatrice si spende in difesa di Israele, che considera «l’unica democrazia del Medio Oriente», omettendo alcune delle caratteristiche, quelle più evidenti, che lo descrivono come uno Stato etnico dalle inclinazioni teocratiche che non è disposto a cedere la cittadinanza a nessun non ebreo, i cosiddetti «gentili» o «goym». Difendono l’incubo di qualsiasi liberale. A questo si aggiunge che il sostegno incondizionato a Israele inasprirebbe delle tensioni nei rapporti dell’Occidente con i vicini arabi, rapporti da cui dipende l’approvvigionamento indispensabile di risorse energetiche che garantiscono quello stile di vita che la destra conservatrice per prima difende, e a cui non è in alcun modo disposta a rinunciare.
Il modello di sviluppo Occidentale ha dei costi sempre maggiori. Per mantenerlo investiamo ingenti risorse nei dispositivi della guerra e della pace. L’uno contraltare dell’altro, entrambi garantiscono il nostro dominio e il nostro prestigio a livello planetario. Di malinteso in malinteso però, l’Occidente è sempre più lacerato dalle contraddizioni al suo interno e perde di credibilità agli occhi di un pianeta in cui crescono nuove potenze, molto diverse da noi. Con il passare del tempo e degli errori commessi, i cui effetti iatrogeni sono imprevedibili, sembra che i soldi e le energie che allochiamo in questi dispositivi rendano ogni volta un po’ di meno. Assistiamo a una caduta tendenziale del saggio di profitto degli investimenti nella nostra egemonia. In pratica non possiamo più permetterci il costo di essere una potenza mondiale. O ce lo possiamo permettere in misura sempre minore.
Ed è per questo che negli Stati Uniti, da Donald Trump fino al ritiro delle truppe dall’Afghanistan, si è ritornato a parlare di isolazionismo[8]. In qualche modo questa situazione viene raccontata da un film del 2016 diretto da Zack Snyder, Batman v Superman: Dawn of Justice. Più o meno inconsciamente il lungometraggio che vede come protagonisti i due personaggi dei fumetti della DC Comics si interroga sulla crisi del ruolo di Superman, quindi della funzione egemonica degli Stati Uniti. L’uomo d’acciaio è una delle metafore attraverso cui l’America vede se stessa. Alla pari dell’eroe, un extraterrestre con enormi poteri a sua disposizione, l’America si rappresenta come una nazione aliena, piombata nella storia solo a un certo punto, e perciò innocente, pura, semplice, ma con grandissime capacità. Sin dall’inizio il regista ci mette di fronte al problema: Superman, intento a salvare la città di Metropolis dall’attacco del generale Zod, causa la morte di molti civili e la distruzione di un intero quartiere. In un’altra situazione, nel tentativo di salvare in Africa la giornalista e fidanzata Lois Lane, prigioniera del capo di un’organizzazione terroristica, devasta un villaggio vicino al luogo dell’incontro, creando indignazione nelle comunità locali. La Senatrice Finch indice una commissione per processare l’eroe, mentre l’opinione pubblica è divisa tra chi vede in lui un Dio e chi un assassino. Quanto costa mantenere Superman? È questa la domanda implicita di un film che vuole fare un bilancio dei costi e dei benefici del bene, un bene che, paolinamente, genera il male.
Superman è sconvolto, non si capacita di tutta la sofferenza prodotta, lui che indossa il mantello per difendere il mondo dai cattivi. Ricorda Bush, all’indomani dell’attentato al World Trade Center, incapace di afferrare i motivi che avevano spinto i jihadisti a compiere un’azione tanto efferata ai danni di un popolo “innocente” come quello americano. Superman, turbato, è costretto ad ammettere che «nessuno resta buono in questo mondo». Estrema consapevolezza di un’innocenza ormai smarrita per sempre, così come l’hanno persa gli Stati Uniti, di fronte a se stessi e agli altri, lungo tutto il Novecento – perché il potere, come dice Lex Luthor, «non può mai essere innocente».
Durante un momento di sconforto l’eroe fantastica di parlare con il defunto padre adottivo, che gli racconta un aneddoto apparentemente irrilevante, ma che ci consente di mettere a fuoco il dilemma del bene che lo inquieta. Narra di un’alluvione che, da ragazzo, aveva colpito la sua fattoria. Dopo estenuanti manovre, deviando il corso d’acqua, era riuscito a salvare la proprietà. Fiero della sua impresa, che gli era costata grandi fatiche, al risveglio viene a sapere che il nuovo corso si era incanalato per errore verso la fattoria del suo vicino, uccidendo tutti i suoi cavalli. Superman, quindi gli Stati Uniti, scoprono il non detto, il rimosso di ogni discorso e cioè che tutte le azioni grazie a cui mantengono i loro benefici, il loro benessere e la loro potenza, implicano degli squilibri, perciò generano la sofferenza di qualcun altro. Nonostante le giustificazioni che si possono produrre per nascondere questa verità insopportabile, essa in qualche modo fa sempre ritorno, è l’inconscio dell’Occidente, la sua ombra. Più si ampliano gli scompensi e le asimmetrie, più diventa dispendioso gestire tutti gli scenari di crisi. Più aumentano le difficoltà, più elaboriamo discorsi per interpretarle e per risolvere. Più elaboriamo discorsi, più emergono le contraddizioni, più si generano errori di valutazione. Come cominciano le guerre?, si chiedeva Karl Kraus. «Gli uomini politici raccontano bugie ai giornalisti e poi credono a quello che leggono». Oggi vale lo stesso, siamo storditi dal rumore che siamo costretti a produrre pur di non sentire il suono della realtà.
[1] M. Foucault, Dits et Ecrits 1954-1988, Gallimard, Parigi 2004, pp. 298-329.
[2] Ernest RENAN, La Réforme intellectuelle et morale, 1871
[3] Paul Valéry, La crise de l’esprit, 1919
[4] K. Nkrumah, L’Afrique doit s’unir, Paris, Éditions Présence Africaine, coll. « Textes politiques », 2001
[5] R. Paine, Development and Social Goals: Balancing Aid and Development to Prevent ‘Welfare Colonialism'”. UN DESA Publications. Retrieved 2022-12-26.
[6] Pankaj Mishra, Le illusioni dell’Occidente, Mondadori, Milano 2021, p. 105.
[7] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 9
[8] Charles A. Kupchan, A History of America’s Efforts to Shield Itself from the World, Oxford University Press, 2020.