La Generazione Z è una generazione privata di fantasia, perché deve fare i conti esclusivamente con i problemi creati dai propri genitori “boomer” (l’ecologia, la parità di genere, la salute mentale, il linguaggio inclusivo) quindi è ostaggio di questi problemi, che ne infestano sogni e aspirazioni come fantasmi. La Gen Z è il prodotto più riuscito dei boomer, frutto delle loro nevrosi e dei loro sensi di colpa. Liberiamoci dalle generazioni, dal fascismo di queste identità che ci vengono assegnate prima ancora di maturare una coscienza

Boomer, Millennial, Gen Z, Gen Alpha, e chissà quante altre sigle ancora verranno affibbiate ai nuovi nati da ricercatori universitari con molto tempo libero, riviste di sociologia, pop-psicologi, conduttori di podcast e giornalisti che devono riempire le pagine subculturali di testate in perdita. Ma perché abbiamo la smania di catalogare le generazioni, classificarne aspirazioni e incubi, produrre sopra di esse tutta una serie di discorsi? E se questa stessa produzione non contribuisse indirettamente alla loro invenzione? Perché stiamo cercando sempre più soggetti – intellettuali, registi, artisti, ma anche influencer – da eleggere a rappresentanti della loro generazione? Perché cerchiamo i romanzi generazionali, i film generazionali, perché promuoviamo tutte quelle opere che fissano il perimetro esistenziale di una generazione, prima ancora che quella generazione abbia davvero compiuto qualcosa? Possibile che neanche facciamo in tempo a maturare una coscienza, che già qualcuno ci consegna lo starterpack di idee politiche, usi, costumi, pose, film e playlist a cui appaltare il nostro universo interiore, il nostro destino? Se i boomer si sono scoperti boomer all’improvviso, etichettati in senso dispregiativo da una generazione più giovane, i Millennial se lo sono praticamente detto da soli un po’ svogliatamente, su un sottofondo di musica indie che già ne annunciava il declino e la conseguente depressione, mentre la Gen Z, caso più emblematico, nonostante affermi la sua autonomia rispetto al passato, sembra esserne, in fondo, il prodotto più riuscito.

Le principali aspirazioni e paure di questa generazione (che per fortuna, come le altre, non esiste se non sulla carta, benché una sparuta ma rumorosa minoranza di essa faccia di tutto pur di appartenervi) corrispondono perfettamente ai “contenuti rimossi” dalla generazione dei loro padri e madri, quindi per lo più dai boomer.

I membri della Gen Z si affacciano alle porte della storia come il ritorno, sotto altra forma, dei fantasmi che abitano l’inconscio dei loro genitori: lotta per il clima e per un mondo sostenibile, parità di genere, apertura alla queerness, inclinazione alla fluidità delle relazioni rispetto alle rigidità dei rapporti tradizionali, forte attenzione alla salute mentale, all’uso delle parole, ai diritti civili. Tutti questi temi sono l’inversione di quei valori che hanno guidato la generazione precedente – cha ha goduto dei benefici dell’industrialismo ma ne ha visto gli scompensi, ha abbracciato la famiglia tradizionale senza però riuscire a salvaguardare il patto che la sancisce (inaugurando quindi la stagione dei divorzi), ha riconosciuto principalmente le identità binarie e i loro stereotipi mentre questi stessi stereotipi, quelli di virilità e femminilità, stavano diventando obsoleti all’interno di un post-capitalismo che non fa più distinzioni di sesso, e può sfruttare donne e uomini in ugual misura. Una generazione, quella dei boomer, che ha sottovalutato l’importanza della salute mentale mentre collassavano i corpi intermedi e ha pagato lo scotto delle sue nevrosi, così come ha fatto meno attenzione al proprio vocabolario, in una società non ancora colonizzata dai social e quindi meno suscettibile, o comunque meno esposta, alle conseguenze di insulti, offese, shitstorm, dove il confine con lo scherzo era meno marcato, sicuramente più labile.

Questi ragazzi e ragazze nati tra il 1995 e i primi anni duemila, così come i discorsi che li informano, quindi che li mettono in forma, sono il dispositivo attraverso cui i loro padri e le loro madri stanno tentando di redimersi, di lenire il loro senso di colpa, di riscattare la loro cattiva coscienza. Sono perciò i figli prediletti, quelli che saranno in fin dei conti perdonati, assolti, coinvolti.

Incubati nel ventre di queste colpe, educati, anche involontariamente, quasi per contrappasso, per sopperire a tutta questa serie di contraddizioni che la generazione precedente non ha risolto, gli zetini millantano un atteggiamento di ribellione contro i boomer, colpevoli del pessimo ordine del mondo, dei loro traumi, delle loro condizioni di vita precarie, ma ne sono il prolungamento con altri mezzi, la loro opera definitiva. Questi giovani vengono intervistati, promossi, valorizzati, chiamati a esprimersi nei luoghi che qualcun altro ha allestito per loro: sono manipolati (laddove ogni verbalizzazione comporta una manipolazione) e quindi disciplinati dai boomer, perché sono gli over 50, ancora, a detenere i mezzi di produzione di questi discorsi e il potere di escludere e includere i soggetti che reputano più rappresentativi, perché più utili ai loro fini.

Una generazione rivoluzionaria dovrebbe deludere completamente le aspettative di quella precedente, compiere il parricidio senza chiedere perdono invece di realizzarne i sogni reconditi. Odiati per essere amati, gli zetini scendono in piazza con il benestare dei loro padri e delle istituzioni. È un po’ quello che è successo ai sessantottini, perdonati dai genitori democristiani, che nei figli hanno potuto osservare il riverbero delle loro nevrosi borghesi. È quello che sta succedendo oggi a un fenomeno come Scomodo, la redazione zetina tutta under 30 che piace tanto alla vecchia guardia del Pd. Le istituzioni non fanno altro che parlare di “giovani”, i giovani sono diventati un “discorso”, in senso foucaultiano, e ogni discorso è una forma di «violenza che noi facciamo alle cose»: una manomissione della realtà. La Gen Z è quindi un’invenzione narratologica, che i boomer sfruttano abilmente – potremmo chiamarlo youthwashing – e in cui i più giovani in crisi di identità trovano riparo, rimanendone al tempo stesso ostaggio. Se i vecchi promuovono le cause di questa generazione, infatti, lo fanno solo formalmente, che strutturalmente ed economicamente sono invece insostenibili, almeno finché si parlerà della pace nel mondo e dell’ecosostenibilità integrale ma nessuno sarà davvero disposto a rinunciare ai propri privilegi, agli spritz e all’aria condizionata. Boomer e Gen Z hanno già fatto pace, forse non sono neanche mai state in guerra, sono entrambe emanazioni l’una dell’altra in un gioco di specchi psicanalitico collettivo, espressioni sintomatiche di una classe media in crisi che di giorno in giorno vede erodersi il suo potere d’acquisto e le sue aspettative sul futuro.

Per ora la Gen Z non rappresenta altro che un segmento di mercato molto preciso, al servizio di un’economia che si basa su dati, statistiche, profilazioni: basta fare un giro su Google per notare come i siti di marketing dispensino consigli a brand e aziende per intercettare il target di questi ragazzi – le parole da usare, i toni, i valori da comunicare. Appartenere a una generazione equivale oggi ad appartenere a un segmento di mercato facilmente identificabile e misurabile.

Ma come si fa a non sentirsi stanchi di rivendicare questa appartenenza, di confinare il proprio pensiero in un vincolo anagrafico, con tutto il prontuario di frasi fatte da dire a cena, il compendio di atteggiamenti e di idee politiche da sbrodolare all’aperitivo o sui social? Di adottare i pregiudizi dei propri coetanei, e sospendere qualsiasi spirito critico? Insomma di appartenere a una generazione prima ancora ch’essa venga effettivamente storicizzata? Di solito, ciò che una generazione rappresenta, viene decretato a posteriori. Lo decidono i posteri, in modo più o meno arbitrario, quando rimettono insieme i pezzi delle opere di quello o quell’altro gruppo di persone che hanno sintetizzato i motivi ricorrenti di un’epoca. Ora invece la definizione precede l’azione, la anticipa e la predetermina. La Gen Z è condannata nella definizione che qualcuno le ha dato di sé, che impossibilita qualsiasi variazione, delirio, qualsiasi fuga dal canone, costretta nel gioco delle colpe, privata di fantasia e di spontaneità, impegnata ad assolvere il mandato messianico e ingrato di rimediare agli errori dei genitori.

Noi vorremmo scappare dalle generazioni, dall’essere una generazione, dalla tessera del partito delle generazioni, dal fascismo delle generazioni, dalle generazioni politicizzate, polarizzate. Vorremmo vivere il più lontano possibile da speranze e ossessioni pret-à-porter della nostra generazione, di non ragionare collettivamente, collettivisticamente. Chissà se un giorno ce le ritroveremo stampata sulla carta di identità, la generazione a cui apparteniamo. Ma avere una data di emissione, però, implica anche avere una data di scadenza. E l’innocenza cronologica dura poco, almeno finché non si diventa abbastanza grandi da scoprirsi un giorno dietro il banco degli imputati nel tribunale della generazione successiva.