Non c'è categoria più vuota, priva di coscienza e disunita di quella dei giovani. Eppure essi sono il termine di validazione sia della politica che del mercato. Tutto deve piacere ai giovani, deve essere "da giovani", pena il boicottaggio e la derisione. Ma cosa hanno da dire, in fondo, questi giovani? Dalla newsletter "Preferirei di no".

«Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, nemmeno una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, stupore di essercela presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quanto poi si è rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato».

Questo è Aldo Busi – uno degli incipit più belli di sempre – dal suo Seminario di gioventùLa giovinezza è una stagione della vita che non va presa troppo sul serio: perché non dura. I suoi dolori e le sue angosce, le sue pretese, le sue rivendicazioni, sono incendi transitori, fuochi fatui, deliri, megalomanie, vani tentativi di cambiare il mondo prima che il mondo ci cambi. Non si tratta di essere pessimisti né disfattisti. È l’amara constatazione di un fatto: storicamente i giovani non sono mai stati una forza rivoluzionaria. A parte i singoli individui, che hanno prodotto qualcosa in quanto individui ma non in quanto giovani, ragazze e ragazzi, specie quando agiscono collettivamente, non hanno mai cambiato le cose.

I giovani non hanno interessi comuni, i loro legami si fondano sul disinteresse, e perciò non possono avere coscienza di classe, anzi il loro portato d’innovazione artistica e culturale è tutto nell’incoscienza. Ogniqualvolta si aggregano per dare vita a qualcosa, il massimo che riescono a esprimere collettivamente è una potenza contestataria. L’associazionismo giovanile rimane allo stadio della disobbedienza, ma raramente viene convertito in qualcosa di più, perché anche «la disobbedienza – come scriveva Calvino – acquista un senso solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella». E a un giovane la disciplina non si addice quasi mai.

 A che serve, quindi, dialogare con i giovani? Politicizzare la giovinezza (primavera di bellezza) come stiamo facendo in questi ultimi anni, cioè elevare a una dimensione politica quella che è una condizione solo anagrafica e temporanea? È sensato prendere sul serio i giovani? Malgrado Millennial e Gen Z si lamentino del contrario, a noi sembra che siano mediaticamente sovraesposti: sui social, in televisione (da Sanremo a Xfactor), tutti i grandi brand devono allinearsi, almeno comunicativamente, ai «valori» delle nuove generazioni per non subire shitstorm e fenomeni di boicottaggio. La giovinezza è un «marker di credibilità» artistica, musicale, ormai anche intellettuale e politica. Ma cosa hanno da dire oggi i giovani? Ovviamente, la loro sovraesposizione, come scrivevamo in un articolo sul Nemico, è tutta una strategia dei vecchi per accontentare un diffuso malcontento giovanile. C’è un tacito accordo, un gioco delle parti tra Gen Z e Boomer, una segreta connivenza dove gli uni ripuliscono la coscienza agli altri, in un conflitto edipico perennemente pacificato, un parricidio sempre rimandato nel Paese dove i vecchi non muoiono.

Ma perché stiamo riflettendo su questo? Perché l’altro giorno mentre passeggiavamo abbiamo trovato un’edicola. Pensavamo si fossero estinte. In centro a Roma sono infopoint per turisti, vendono grembiuli con la statua del David di Michelangelo, il cazzo caricaturalmente smisurato, oppure calendari di preti belli – in copertina un prete che oggi avrà sessant’anni – e biglietti per i bus a due piani da bucargli le gomme. Giornali non ce ne sono più. Invece in questa edicola superstite ancora li espongono, e infatti il proprietario se la passa male, sta incazzato nero, vuole emigrare in Spagna, non vende più mezza copia. Campeggia in bella vista un numero di Vanity Fair. Titolo: i giovani non esistono. Sfogliamo.

L’editoriale è una paternale melensa del direttore che ci introduce a questo numero pensato in collaborazione con i redattori di Scomodo: progetto culturale di bravi ragazzi romani che fanno un sacco di cose, ma soprattutto come dicono loro stessi, non fanno «un’informazione comoda, accondiscendente, ma un giornalismo dirompente e di conflitto». Su Vanity Fair. Babbé. Ma cosa hanno da dire? Continuiamo a sfogliare. Se superi pagina tre lo compri – dice il giornalaio, con una sangria in mano. Noi lo compriamo ma dentro non c’è niente. Niente in tutto il numero. Cento e passa pagine di lamentela di giovani che ambiscono a un riconoscimento, vogliono un lavoro stabile, la recessione industriale ma con gli iphone in tasca, il sesso addestrato, l’intromissione delle istituzioni nella sfera privata, a regolamentare i rapporti sociali, linguistici tra le persone.

Non c’è alcuna fantasia in queste pretese: il posto fisso, la casa assicurata a vent’anni, l’istruzione accessibile ma con riserve sulla meritocrazia: praticamente lo stesso programma politico di Checco Zalone. Micro-concessioni, assistenzialismo, paghetta obbligatoria, reddito di giovinezza, sesso automatizzato. I giovani che si riconoscono in questa categoria sintetica, sintetizzata in laboratorio, eleggendo le istituzioni dei vecchi a loro interlocutori (Ghali si dice contento di essere diventato l’idolo delle mamme), utilizzando il loro stesso linguaggio burocratico, muovendo la loro ribellione nel perimetro che esse concedono, sono una forza costituente, anzi ricostituente di uno Stato in carenza vitaminica, sono lo Stato di domani. Al contrario, le forze più interessanti in seno a qualsiasi società, qualsiasi ordine costituito, quelle più creative, esprimono una tensione destituente, sottraggono legittimità ai padroni del discorso, non chiedono riconoscimento perché sanno che vuol dire riconoscere a loro volta, liberano spazi invece di territorializzarli con nuove parole d’ordine, nuove regole, distruggono le identità invece di creare funzionari al servizio delle identità, degli identitarismi in lotta tra di loro alla ricerca dell’approvazione da parte di vecchie mummie che elargiscono bonus cultura, bonus facciate, bonus psicologi e contratti a tempo indeterminato all’identità più alla moda del momento. È questa la bella lotta? L’integrazione a una società disintegrata?

È questo il manifesto stilato da una minoranza rumorosa di giovani che si è arrogata il diritto di parlare, e quindi inventare, questa categoria fasulla, diffondendo una visione semplicistica del mondo, per cui basta camperizzare un van per abolire i confini, fare un aperitivo per creare un momento di aggregazione (allora anche Casapound è un movimento conviviale), leggere un libro per dirsi impegnati, scopare per fare la rivoluzione dei costumi, parlare della libertà senza menzionare l’enorme sacrificio che la libertà comporta, per sentirsi liberi? Fare skincare per lottare contro il razzismo (sì, abbiamo letto un articolo su cosmesi e lotta di classe)?

E se la nostra fosse tutta invidia? Invidia per questi giovani impegnati (impiegati?), pieni di speranza e di fiducia e di metri quadri? Noi che giovani non lo siamo più – abbiamo oltrepassato la soglia dei trent’anni, la lotta dei trent’anni. Ma è strano, perché giovani non ci siamo mai sentiti, specie da giovani. La giovinezza si riconosce solo per difetto, per distacco. Si è stati giovani, non lo si è. Forse invidiamo questa disinvoltura nell’identificarsi a una categoria, facilita tantissime cose quando si tratta di compilare un bando, di scegliere che scarpe mettersi, ma ne vediamo anche il pericolo, specie quando si tratta di una categoria così transitoria: applicare una data di scadenza alla propria intelligenza, alla propria credibilità o incredibilità è una pessima strategia. O forse no, per chi già sa che dovrà ammazzare il giovane e diventare il vecchio che ha disprezzato. Quando il segreto per non invecchiare, dice il maestro, è ammazzare il giovane per salvare il bambino.