Accento, la casa editrice di Alessandro Cattelan, è una delle peggiori operazioni editoriali degli ultimi anni. Fondata su presupposti cretini, non può fare altro che libri cretini.

Come dice il maestro Nicolás Gómez Dávila, che non ci stancheremo mai di citare, i pregiudizi salvano dalle idee stupide. Non si tratta solo di giudizi espressi a priori, senza alcuna conoscenza di un’esperienza o di una situazione particolare, ma di giudizi basati sulla somma delle conoscenze che le passate generazioni si sono formate su quell’esperienza o situazione e che noi, per ultimi, abbiamo ereditato. E visto che l’umanità è più o meno sempre la stessa, mossa dalle stesse passioni e dalle stesse angosce – recita il Qohélet: «quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà: non c’è niente di nuovo sotto il sole» – allora tante volte un pregiudizio millenario, sopravvissuto alla storia e giunto fino a noi, forse è più affidabile e meno fallace dell’ultimo pregiudizio, quello dettato dalla moda del momento. Come i proverbi, i pregiudizi sono giudizi levigati dai secoli, scremati dalle donne e dagli uomini che ci hanno preceduto, che li hanno utilizzati, testati, collaudati. Più sono vecchi, più è probabile siano giusti. La realtà, ogni tanto, interviene per sconfessarli, rimettendo tutto in discussione, o facendoci scoprire le eccezioni che rendono vario e stupefacente il mondo, ma senza pregiudizi, le prime bussole che ci vengono fornite per orientarci nella vita, ci troveremo perennemente spaesati.

Tutto questo per dire che Accento, la neonata casa editrice di Alessandro Cattelan, pur non avendo letto nessuno dei libri pubblicati (altrimenti il nostro sarebbe un semplice giudizio) è una delle peggiori operazioni editoriali degli ultimi anni. Fondata su presupposti cretini, non può fare altro che libri cretini (ecco il pregiudizio). Aspettiamo che la realtà ci sconfessi, ma nel frattempo ci sentiamo di poter affermare che questa casa editrice, emanazione del suo patron, il Pippo Baudo che la nostra generazione si merita, è l’ennesima di cui non si sentiva alcun bisogno in un Paese che pubblica, tra novità e ristampe, 70.000 libri l’anno, quindi 192 al giorno (siamo una delle industrie più prolifiche del reame se non fosse che non c’è nessun mercato pronto ad assorbire questa offerta, tanto che il 90% di ciò che viene pubblicato vende meno di 100 copie – a mamma e papà e zia praticamente). In un panorama desolante per sovrabbondanza, bisogna avere motivazioni serie, irrinunciabili, irrevocabili. Variando quello che diceva Rainer Maria Rilke nelle sue lettere al giovane poeta – moriresti se ti fosse vietato scrivere? – l’editore deve chiedersi: moriresti se ti fosse vietato pubblicare? Lungi da noi vestire i panni dei martiri, sia chiaro (ma un dito, una falange, ecco, quella potremo sacrificarla) qualche movente lo possiamo almeno sguainare. Ma quale buona motivazione vanta Cattelan? Cosa lo spinge, cosa lo motiva, cosa lo muove? Sono queste le domande che ci sorgono spontanee mentre allo stand del Salone di Torino lo guardiamo firmare copie di libri che non ha scritto di fronte a schiere di fan che non li leggeranno. Così recuperiamo un’intervista rilasciata all’indomani del suo debutto editoriale: «Il periodo della pandemia ha coinciso con i miei quarant’anni, quel periodo in cui tiri un po’ le somme e decidi di fare qualcosa di diverso». La noia, lo spleen, la saudade pandemica ci avevano già ammorbato con un altro virus, quello degli scrittori in ciabatte, dei romanzi brutti e dei “viaggi intorno alla propria camera da letto”, con l’aggiunta delle quaranta candeline Cattelan è passato direttamente alla fondazione di un marchio editoriale. Ma l’enfant prodige della tv era già noto alle cronache del bel mondo della cultura, almeno sui social, per le sue #recensionivelocidilibri. La prima volta avevamo letto eiaculazioniveloci. Pensavamo fosse una rubrica di un centinaio di caratteri, delle recensioni-tweet, il grado zero dell’approfondimento culturale. Invece è peggio. Sono recensioni monosillabi. Ecco un esempio.

Sì, ma qual è il suo rapporto con la lettura? Mai letto niente fino ai vent’anni, anzi repulsione epidermica (e sacrosanta) per i libri, finché non gli viene regalata la biografia di Baggio scritta da Zazzaroni: «è stato importantissimo perché mi ha fatto capire che leggere non ti uccide, puoi benissimo arrivare in fondo e divertirti». Inconsapevolmente Cattelan ha elencato due dei principali motivi per cui i libri sono diventati oggetti obsoleti, destinati alla sostituzione, che non assolvono più ad alcuna funzione rivoluzionaria. 1) Il fatto che non uccidano più (metaforicamente), quindi non creino quei conflitti interiori ed esteriori che sono alla base di ogni movimento e 2) che il loro scopo definitivo sia quello di divertire, come se un libro fosse l’equivalente di un video di Paperissima o di una puntata del suo programma. Nella società dello spettacolo tutto scivola verso l’intrattenimento, e il messaggio si dissolve dietro la danza dei significanti. Così anche il discorso culturale si è ridotto a spettacolo. E Cattelan, in questo senso, è letteralmente il “conduttore” perfetto, lui che viene da Radio Deejay, ha un programma in Rai e uno spettacolo a teatro… Senza nulla togliere a radio, televisione e teatro, si tratta di mezzi espressivi che hanno l’intrattenimento nel dna, è la loro naturale vocazione, ma il medium libro è una tecnologia che se può servire anche per divertire, tra tutti i tipi di intrattenimento è sicuramente il più noioso, specie nel mondo multimediale. Se continuiamo a diffondere a tappeto l’idea di una lettura sempre più appiattita sull’intrattenimento, allora è un attimo che poggeremo i libri sul comodino per giocare a Fornite o per guardare Xfactor, perché sono, giustamente, molto più divertenti. Leggere invece è faticoso, è uno sforzo, una rogna infinita, e soddisfa non un bisogno, quanto più un’inclinazione umana  “negativa” senza cui diventeremo un po’ meno umani e un po’ più cyborg. Siamo davvero convinti, come scrive Dostoevskij nelle Memorie dal sottosuolo, «che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Che non abbia a sbagliarsi, la ragione, a proposito di codesti vantaggi? Non sarebbe poi possibile che all’uomo non piaccia soltanto lo star bene? Che gli piaccia anzi altrettanto la sofferenza? Che lo star male gli sia di vantaggio giusto quanto lo star bene?».

Il nostro sospetto di fondo, sommato ai pregiudizi che qualcuno speriamo confuterà, è che Accento abbia una funzione inavvertitamente organica al sistema inceppato delle “Contemporary humanities”. L’enorme carrozzone sponsorizzato da Baricco & Friends sta creando migliaia di aspiranti scrittori che non trovano una collocazione nel mondo del lavoro. Accento, in questo ecosistema malato, fa da ammortizzatore, da sbocco transitorio per attutire una manciata di diplomati in eccesso delle scuole di scrittura creativa, parte di quel surplus che se va bene, dopo aver fatto un po’ di anti-camera nel salottino di Cattelan, troverà posto a sedere tra i big dell’editoria. In questo modo il sistema fa finta di essere in buona salute, mentre siamo in bancarotta culturale ormai da un pezzo. Non tanto perché con la cultura non si mangia e le solite menate liberiste, ma perché la cultura delle contemporary humanities che stiamo edificando (e mantenendo a spese dello Stato, finché potrà) con l’illusione di avvicinare la gente a una lettura pop, carina, divertente, tisanina, fotina sull’insta, sta traghettando più persone possibili verso Netflix e tutti quei medium che, sul piano dell’intrattenimento, vincono su qualsiasi “prodotto” culturale. La cultura non è meglio, ma è un’altra cosa, i libri sono un’altra cosa. E bisognerebbe raccontarli (anzi forse bisognerebbe smettere di parlarne) come mezzi diversi, con potenzialità diverse da quelle di una serie tv o di un podcast. Assolvono a un’altra funzione. Per quanto riguarda Accento, basta guardare ai titoli, ai temi (pescati tra i trend topic dei social), alle copertine, a tutto un progetto concepito sul letto di Instagram, che oltre a sancirne l’inizio sembra anche indicarne il fine, quindi la tomba, per capire che si tratta di un’operazione inserita in questo discorso. E poi il giovanilismo spicciolo promosso dal duo Cattelan-Bianchi (non proprio due ragazzini) con la pubblicazione di Quasi di nascosto, un’antologia che raccoglie 12 racconti scritti da under 25, sulla scorta dell’esperimento di Tondelli degli anni ’80, ci sembra l’ennesima forzatura, il tentativo di ghettizzare la Generazione Z (ma cos’è poi questa generazione? Chi l’ha definita e messa in forma, se non dei boomer, come in questo caso?) nei soliti temi (transizione sessuale, discriminazione, bullismo, disturbi alimentari: sono questi i motivi triti e ritriti dei racconti) che una minoranza rumorosa al suo interno mette sotto i riflettori, come se i giovani di oggi fossero solo questo e che il materiale letterario si esaurisca nelle proprie fragilità, e che la fragilità basti a legittimare la scrittura. Per quanto riguarda lo stile, poi, rimandiamo a una recensione (anche se il sistema delle recensioni nel suo insieme ci ripugna) che abbiamo letto su Goodreads. Tra le tante immotivate, sia di approvazione che di disapprovazione, questa è l’unica che allega un minimo di analisi, e quest’analisi conferma molti dei nostri sospetti.

Anche stilisticamente non mi ha convinto: cambiano i contesti, i personaggi ed anche i registri linguistici (un brano è in dialetto ed un altro, parzialmente, in una lingua inventata), ma, non so come sia possibile, tutti i racconti sembrano scritti dalla stessa voce, come se ci fosse dietro una stessa scuola di scrittura. La caratteristica ricorrente dello stile è un proliferare di immagini molto cariche, con un uso un po’ barocco degli aggettivi e, soprattutto, delle metafore, che mal si combina con un contenuto scarno, impoverendo ulteriormente questi brevi brani. Non aiuta, secondo me, neanche la scelta di una linearità quasi pedante. Si doveva osare di più, puntare su una sperimentazione, non so, o un tono più personale. Capisco che il linguaggio social appiattisca ed omologhi il modo di parlare di chiunque, ma questa eco costante, soprattutto in un contesto letterario che ci si aspetta eterogeneo, rende l’esperienza di lettura molto meno agile.

MsElisaB