Il progetto di partecipazione
Del gioco, l’organizzazione della sopravvivenza non tollera che le falsificazioni spettacolari. Ma la crisi dello spettacolo fa sì che, braccata da ogni parte, la passione del gioco risorga dappertutto. Essa assume ormai il volto del sovvertimento sociale, e fonda, al di là della sua negatività, una società di partecipazione reale. La
prassi ludica implica il rifiuto del capo, il rifiuto del sacrificio, il rifiuto del ruolo, la libertà di realizzazione individuale, la trasparenza dei rapporti sociali (1). La tattica è la fase polemica del gioco. La creatività individuale ha bisogno di un’organizzazione che la concentri e che le conferisca più forza. La tattica è inseparabile da un certo calcolo edonista. Ogni azione parziale deve avere per fine la distruzione totale del nemico. Bisogna estendere alle società industrializzate le forme adeguate di guerriglia (2). Il salvataggio per trasferimento (détournement) è il solo uso rivoluzionario dei valori spirituali e materiali distribuiti dalla società di consumo; l’arma assoluta del superamento (3).
Le necessità dell’economia si conciliano male con il gioco. Nelle transazioni finanziarie, tutto è serietà: non si scherza con il denaro. La parte di gioco ancora inclusa nell’economia feudale è stata a poco a poco espulsa dalla razionalità degli scambi monetari. Il gioco negli scambi permetteva in effetti di barattare dei prodotti, se non del tutto privi di una misura comune, almeno non rigorosamente tarati. Ma nessuna fantasia sarà più tollerata dal momento in cui il capitalismo impone i suoi rapporti mercantili, e l’attuale dittatura del consumabile prova a sufficienza che esso ha giurato di imporli dappertutto, a tutti i livelli della vita.
Nell’alto Medioevo, i rapporti bucolici inclinavano verso una certa libertà gli imperativi puramente economici della organizzazione feudale delle campagne; spesso era il gioco a presiedere alle corvées, ai giudizi, ai regolamenti dei conti. Precipitando la quasi totalità della vita quotidiana nella battaglia della produzione e del consumo, il capitalismo reprime la propensione al gioco, mentre si sforza nello stesso tempo di recuperarla nella sfera del rendimento. Così, in qualche decina d’anni si sono viste le gioie dell’evasione trasformarsi in turismo di massa, l’avventura diventare missione scientifica, il grande gioco della guerra trasformarsi in strategia operativa. Il gusto del cambiamento è ormai pago e soddisfatto grazie a un cambiamento di gusto…
In generale. L’organizzazione sociale attuale preclude il gioco autentico. Ne riserva l’uso all’infanzia, alla quale, sia detto per inciso, essa propone con insistenza crescente delle specie di giocattoli gadget, veri premi alla passività. Quanto all’adulto, egli non ha diritto che a delle forme falsificate e recuperate: competizioni, giochi televisivi, elezioni, casinò… Va da sé che la povertà di questi espedienti non soffoca veramente la ricchezza spontanea della passione del gioco, soprattutto in un’epoca in cui la sfera ludica ha tutte le opportunità di trovare storicamente riunite le condizioni più favorevoli di espansione.
Il sacro scende a patti con il gioco profano e dissacrante: testimoni i capitelli irriverenti, le sculture oscene delle cattedrali. La Chiesa assorbe senza nasconderli la risata cinica, la fantasia caustica, la critica nichilista. Protetto sotto il suo mantello, il gioco demoniaco è al sicuro. Invece, il potere borghese mette il gioco in quarantena, lo isola in un settore particolare come se volesse preservare da esso le altre attività umane. L’arte costituisce appunto questo dominio privilegiato, e un po’ disprezzato, del non-redditizio. Lo resterà fino a quando l’imperialismo economico non lo convertirà a sua volta in fabbrica di consumo. Ormai braccata da ogni parte, la passione del gioco risorge dappertutto.
Nello strato di interdizioni che ricopre l’attività ludica, si apre una falla nel punto meno resistente, nella zona in cui il gioco si è mantenuto più a lungo, nel settore artistico. L’eruzione si chiama Dada. «Le rappresentazioni dadaiste fecero risuonare negli ascoltatori l’istinto primitivo-irrazionale del gioco, che era stato sommerso», dice Hugo Ball. Sulla china fatale dello scherzo e della burla, l’arte doveva trascinare nella sua caduta l’edificio che lo spirito di serietà aveva eretto a gloria della borghesia. Di modo che il gioco assume oggi il volto dell’insurrezione. Il gioco totale e la rivoluzione della vita quotidiana ormai si confondono.
Cacciata dall’organizzazione sociale gerarchizzata, la passione del gioco, abbattendola, fonda una società di tipo nuovo, una società della partecipazione reale. Senza presumere di ipotecare ciò che sarà un’organizzazione di rapporti umani aperta senza riserve alla passione del gioco, ci si può aspettare che presenti le caratteristiche seguenti:
rifiuto del capo e di ogni gerarchia;
rifiuto del sacrificio;
rifiuto del ruolo;
libertà di realizzazione autentica;
trasparenza dei rapporti sociali.
Il gioco non può essere concepito né senza regole né senza che si giochi con le regole. Guardate i bambini. Essi conoscono le regole del gioco, se le ricordano benissimo, ma barano continuamente, inventano o immaginano degli imbrogli. Tuttavia, per loro, barare non ha il senso che gli attribuiscono gli adulti. L’imbroglio fa parte del loro gioco, essi giocano a barare, complici anche nelle loro dispute. Così essi ricercano un gioco nuovo. E talvolta questo riesce: si crea e si sviluppa un nuovo gioco. Senza interromperne il flusso, essi ravvivano la loro coscienza ludica.
Non appena un’autorità si fissa rigidamente, diviene irrevocabile, si fregia di un’aura magica, il gioco finisce. Peraltro, la leggerezza ludica non va mai disgiunta da uno spirito di organizzazione, con ciò che questo implica per disciplina. Ma anche se occorre un direttore di gioco investito di un potere di decisione, questo potere non è mai dissociato dai poteri di cui ogni individuo dispone in modo autonomo, è anzi il punto di concentrazione di tutte le volontà individuali, il duplicato collettivo di ogni esigenza particolare. Il progetto di partecipazione implica dunque una coerenza tale che le decisioni di ciascuno siano le decisioni di tutti. Sono evidentemente i gruppi numericamente deboli, le microsocietà, quelli che offrono migliori garanzie di sperimentazione. In essi, il gioco regolerà in modo sovrano i meccanismi di vita in comune, l’armonizzazione dei capricci, dei desideri, delle passioni. Tanto più che questo gioco corrisponderà al gioco insurrezionale condotto dal gruppo e reso necessario dalla volontà di vivere fuori dalle norme ufficiali.
La passione del gioco esclude il ricorso al sacrificio. Si può perdere, pagare, subire la lesse, passare un brutto quarto d’ora; è la logica del gioco, non la logica di una Causa, non la logica del sacrificio. Quando appare la nozione di sacrificio, il gioco si sacralizza, le sue regole diventano dei riti. Nel gioco, le regole sono date insieme al modo di cambiarle e di giocare con esse.
Nel sacro, al contrario, il rituale non si lascia giocare, bisogna spezzarlo, trasgredire la proibizione (ma profanare un’ostia è ancora un modo di rendere omaggio alla Chiesa). Solo il gioco desacralizza, solo esso si apre a una libertà senza limiti. Esso è il principio del rovesciamento (détournement), la libertà di cambiare il senso di tutto ciò che serve il potere; la libertà, per esempio, di trasformare la cattedrale di Chartres in lunapark, in labirinto, in poligono di tiro, in paesaggio onirico…
In un gruppo imperniato sulla passione del gioco, gli impegni e i lavori noiosi potranno per esempio essere ripartiti come penalità, in conseguenza di un errore o di una sconfitta. O, più semplicemente, riempiranno i tempi morti, una sorta di riposo attivo; il che, per contrasto, renderebbe la ripresa del gioco più eccitante. La costruzione di situazioni dovrà necessariamente fondarsi sulla dialettica della presenza e dell’assenza, della ricchezza e della povertà del piacere e del dispiacere, dove l’intensità di un tono stimola l’intensità dell’altro.
D’altra parte, le tecniche usate nel contesto del sacrificio e della costrizione perdono molta della loro efficacia. Il loro valore strumentale è infatti annullato dalla loro funzione repressiva; e la creatività oppressa diminuisce il rendimento delle macchine oppressive. Solo l’attrazione ludica garantisce un lavoro non alienante, un lavoro produttivo.
Il ruolo nel gioco non può concepirsi senza un gioco sul ruolo. Il ruolo spettacolare esige un’adesione; il ruolo ludico, al contrario, postula una distanza, una prospettiva dalla quale ci si scopre liberi e in gioco, alla maniera degli attori navigati che, nell’intermezzo fra due scene drammatiche, si scambiano delle battute scherzose. L’organizzazione spettacolare non resiste a questo tipo di comportamento. I Fratelli Marx hanno mostrato che cosa può diventare un ruolo quando il gioco prende il sopravvento. Purtroppo il loro è ancora un esempio recuperato, in questo caso dal cinema. Che cosa ne sarebbe di un gioco sui ruoli che avesse il proprio epicentro nella vita reale?
Se c’è chi entra nel gioco con un ruolo fisso, un ruolo serio, o costui è perduto, o corrompe il gioco. È il caso del provocatore. Il provocatore è uno specialista del gioco collettivo. Ne possiede la tecnica ma non la dialettica.
Forse potrebbe anche essere in grado di tradurre le aspirazioni del gruppo in maniera offensiva – il provocatore spinge sempre all’attacco – se non fosse per il fatto che, non essendo altro il suo tormento che quello di difendere il proprio ruolo, la propria missione, egli è per ciò stesso incapace di difendere l’interesse del gruppo. Questa incoerenza fra l’offensivo e il difensivo prima o poi smaschera il provocatore, è causa della sua triste fine. Qual è il miglior provocatore? Il direttore di gioco che è diventato un capo.
Solo la passione del gioco è tale da poter fondare una comunità i cui interessi sono identici a quelli dell’individuo. A differenza del provocatore, il traditore sorge spontaneamente in un gruppo rivoluzionario. Egli appare ogni volta che la passione del gioco è scomparsa e che, al tempo stesso, il progetto di partecipazione è stato falsificato. Il traditore è un uomo che, non riuscendo a realizzarsi autenticamente nella forma di partecipazione che gli viene proposta, decide di «giocare» contro una tale partecipazione, non per correggerla, ma per distruggerla. Il traditore è la malattia senile dei gruppi rivoluzionari. Tradire il gioco è il primo tradimento, quello che pone le basi per tutti gli altri.
Infine, generando la coscienza della soggettività radicale, il progetto di partecipazione accresce la trasparenza dei rapporti umani. Il gioco insurrezionale è inseparabile dalla comunicazione.
La tattica – La tattica è la fase polemica del gioco. La tattica assicura la continuità necessaria tra la poesia così come nasce (il gioco) e l’organizzazione della spontaneità (la poesia). Essenzialmente tecnica, essa impedisce che la spontaneità si disperda, che si perda nella confusione. È noto quanto sia stata dolorosamente assente dalla alla maggior parte delle insurrezioni popolari. È noto anche con quale disinvoltura lo storico tratta le rivoluzioni spontanee. Non uno studio serio, non un’analisi metodica, niente che ricordi da vicino o da lontano il libro di Clausewitz sulla guerra. Finisce così che i rivoluzionari ignorino le battaglie di Makhno con lo stesso impegno con cui un generale studia quelle di Napoleone.
Alcune osservazioni, in mancanza di analisi più approfondite. Un esercito ben disciplinato in una gerarchia può di certo vincere una guerra, ma non una rivoluzione; un’orda indisciplinata non otterrà la vittoria né in guerra né nella rivoluzione. Si tratta di organizzare senza gerarchizzare, in altre parole di vigilare affinché il meneur de jeu non si trasformi mai un capo. Lo spirito ludico è l’unica garanzia contro la sclerosi autoritaria. La creatività, col mitra in spalla, è inarrestabile. Si sono viste le truppe villiste e makhnoviste battere le truppe più agguerrite e meglio equipaggiate del loro tempo. Se al contrario il gioco si arresta, diventa ripetitivo, la battaglia è persa. La rivoluzione fallisce affinché il suo leader diventi infallibile. Perché Villa è sconfitto a Celaya? Perché non si è curato di rinnovare il proprio gioco strategico e tattico. Sul piano tecnico del combattimento, inebriato dal ricordo di Ciudad Juarez dove, buttando giù i muri e avanzando così di casa in casa, aveva attaccato il nemico alle spalle e lo aveva annientato, Villa disdegna le innovazioni militari della guerra 1914-18, nidi di mitragliatrici, mortai, trincee. Sul piano politico, una certa ristrettezza di vedute lo ha tenuto lontano dal proletariato industriale. È significativo che l’esercito di Obregon, che sgominò i Dorados di Villa, contasse tra le sue file anche delle milizie operaie e dei consiglieri militari tedeschi.
La creatività fa la forza degli eserciti rivoluzionari. Avviene spesso che i movimenti insurrezionali riportino fin dal primo momento delle brillanti vittorie perché rompono le regole del gioco a cui sono abituati gli avversari, che le osservano invece fedelmente. perché inventano un gioco nuovo: perché ogni combattente partecipa a tutti gli effetti all’elaborazione ludica. Ma se la creatività non si rinnova, se essa tende verso il ripetitivo, se l’esercito rivoluzionario assume la forma di un esercito regolare, si vedono a poco a poco la devozione cieca e l’isteria che tentano di vanamente di supplire alla debolezza sul campo di battaglia. L’ebbrezza del ricordo delle vittorie passate annuncia sempre terribili e prossime disfatte. La magia suggestiva della Causa e del capo prende il sopravvento sull’unità cosciente della volontà di vivere e della volontà di vincere. Dopo aver tenuto in scacco i principi per due anni, 40.000 contadini per i quali il fanatismo religioso finisce per prendere il posto della tattica, si lasciano fare a pezzi a Frankenhaussen nel 1525; l’esercito feudale perde tre uomini. Nel 1964, a Stanleyville, centinaia di mulelisti, convinti della propria invincibilità, si fanno massacrare lanciandosi su un ponte presidiato da due mitragliatrici. Son tuttavia gli stessi che si impadronirono dei camion e delle armi dell’ANC scavando nelle strade trappole da elefanti.
L’organizzazione gerarchizzata, così come il suo contrario, ovvero l’indisciplina e l’incoerenza, sono ugualmente inefficaci. In una guerra classica, quando due fazioni ugualmente inefficaci si scontrano, prevale quella meglio equipaggiata; la tecnica diventa rilevante. Nella guerra rivoluzionaria, la poesia degli insorti toglie all’avversario le armi e il tempo di servirsene, privandolo così dell’unica superiorità possibile. Se l’azione dei guerriglieri si fa ripetitiva, il nemico impara a giocare secondo le regole del combattente rivoluzionario; da quel momento, bisogna temere che la controguerriglia riesca, se non a distruggere, almeno a contenere la creatività popolare già frenata.
Come mantenere, in un gruppo armato che rifiuta di obbedire servilmente a un capo, la disciplina necessaria al combattimento? Come evitare la mancanza di coesione? Il più delle volte, gli eserciti rivoluzionari non fanno che oscillare tra la Scilla della devozione a una Causa, alla Cariddi della ricerca incoerente e sfrenata del piacere.
Lanciare appelli, in nome della libertà, al sacrificio e alla rinuncia pone le basi per una schiavitù futura. D’altra parte, la festa prematura e la ricerca del piacere parcellare precedono sempre di poco la repressione e le settimane di sangue che “ristabiliscono l’ordine”. Il principio del piacere deve conferire coesione al gioco e disciplinarlo. La ricerca del massimo piacere deve sempre correre il rischio del dolore: è il segreto della sua forza. Dove attingeva il suo ardore la soldataglia dell’Ancien Régime quando andava all’assalto di una città e, dieci volte respinta, dieci volte riprendeva la lotta? Nell’attesa appassionata della festa – nella fattispecie, bisogna ammetterlo, principalmente del saccheggio e dello stupro –, di un piacere tanto più vivo in quanto ottenuto lentamente e con preparazione. La migliore tattica sa andare di pari passo con l’anticipazione del piacere. La volontà di vivere, brutale, sfrenata, è per il combattente l’arma segreta più micidiale. Una tale arma si ritorce contro quelli che la ostacolano: per difendere la sua pelle, il soldato ha tutto le ragioni del mondo per sparare alla schiena dei suoi comandanti; per le stesse ragioni, gli eserciti rivoluzionari guadagnano molto nel trasformare ogni uomo in un abile tattico, arbitro e comandante di se stesso; qualcuno che sappia costruire il suo piacere con conseguenza.
Nelle lotte a venire, la volontà di vivere intensamente dovrà prendere il posto della vecchia brama del saccheggio e della razzia. La tattica si unirà allora con la scienza del piacere, tanto è vero che la ricerca del piacere è essa stessa il piacere. È questa una tattica che si impara tutti i giorni. Il gioco armato non differisce essenzialmente da quello libero, lo stesso che gli uomini perseguono più o meno coscientemente in ogni istante della loro vita quotidiana. Chi non disdegna di imparare cosa sia, anche nella semplice quotidianità, ciò che lo uccide e ciò che invece lo rende più forte come individuo libero, conquista passo per passo il suo brevetto di tattico.
Comunque, non esiste tattico isolato. La volontà di distruggere la vecchia società implica una federazione di tattici della vita quotidiana. Una federazione di questo tipo è quella che l’Internazionale situazionista si propone fin da questo momento di attrezzare tecnicamente. La strategia costruisce collettivamente il piano inclinato della rivoluzione, fondandola sulla tattica della vita quotidiana individuale.
L’ambigua nozione di umanità provoca talvolta un certo ondeggiamento nelle rivoluzioni spontanee. Troppo spesso il desiderio di porre l’uomo al centro delle rivendicazioni è stato soffocato da un umanismo paralizzante. Quante volte il partito della rivoluzione ha risparmiato i suoi fucilatori, quante volte ha accettato una tregua da cui il partito dell’ordine attingeva nuove forze? L’ideologia dell’umano è un’arma in mano al partito reazionario, quella che serve a giustificare tutte le disumanità (i parà belgi a Stanleyville).
Non c’é compromesso possibile con i nemici della libertà, nessuna umanità che tenga per gli oppressori degli uomini. L’annientamento dei controrivoluzionari è l’unico gesto autenticamente umanitario, poiché previene la crudeltà dell’umanismo burocratizzato.
Infine, uno dei problemi dell’insurrezione spontanea verte su questo paradosso: bisogna, attraverso azioni parziali e frammentarie, distruggere totalmente il potere. La lotta per la sola emancipazione economica ha reso la sopravvivenza possibile per tutti rendendo al tempo stesso inaccessibile per tutti qualsiasi cosa che andasse oltre la semplice sopravvivenza. Ora, è certo che le masse lottavano per un obiettivo più ampio, per il cambiamento globale delle condizioni di vita. D’altra parte, la volontà di cambiare in un sol colpo la totalità del mondo fa ancora parte del pensiero magico. Per questo si ribalta così facilmente in un piatto riformismo. La tattica apocalittica e quella delle rivendicazioni graduali si uniscono prima o poi, trovano un compromesso, gli antagonismi si riconciliano. I partiti falsamente rivoluzionari non hanno forse finito per identificare tattica e compromesso?
La rivoluzione non può vincere né attraverso vittorie parziali né con un attacco frontale e aperto. La guerra di guerriglia deve essere totale. Appunto lungo questa via si impegna l’Internazionale situazionista, con un’azione di disturbo calcolato, un martellamento su tutti i fronti – culturale, politico, economico, sociale. Il terreno della vita quotidiana assicura l’unità della lotta.
Il détournement – Nel senso largo del termine, il détournement è una rimessa in gioco globale. È il gesto con il quale l’unità ludica si impadronisce degli individui e delle cose congelate in un ordine parcellare e disposte gerarchicamente.
Ci è capitato una volta, sul far della sera, di penetrare, i miei amici ed io, nel Palazzo di Giustizia di Bruxelles. Conosciamo bene questo edificio mastodontico che schiaccia con la sua mole i quartieri poveri sottostanti, proteggendo la ricca avenue Louise che, un giorno o l’altro, trasformeremo nell’epicentro di un esplosione mozzafiato. Sul filo di una lunga deriva attraverso un dedalo di corridoi, di scalinate, di stanze a schiera, calcolavamo le situazioni possibili del luogo, occupavamo il territorio conquistato, trasformavamo in virtù dell’immaginazione questo luogo spento e mortifero in un fantastico terreno da circo, in un palazzo dei piaceri, dove le più eccitanti avventure sarebbero state, per la prima volta, realmente vissute. Insomma, il détournement è la manifestazione più elementare della creatività.
Le fantasticherie soggettive stravolgono (détournent) il mondo. Gli individui stornano (détournent), come Monsieur Jourdain e James Joyce hanno fatto l’uno con la prosa e l’altro con l’Ulisse; vale a dire spontaneamente e, al tempo stesso, con molta riflessione.
Nel 1955, Debord, colpito dall’impiego sistematico del détournement in Lautréamont, attirava l’attenzione sulla ricchezza di una tecnica di cui Jorn doveva scrivere nel 1960: «Il détournement è un gioco dovuto alla capacità di svalorizzazione. Tutti gli elementi del passato culturale devono essere reinvestiti oppure scomparire». Infine, nella rivista «Internationale Situationniste» (n. 3), Debord, ritornando sull’argomento, precisava: «Le due leggi fondamentali del détournement sono la diminuzione d’importanza, fino alla perdita del senso iniziale, di ogni elemento autonomo détourné; e nello stesso tempo, l’organizzazione di un altro insieme significante, che conferisce ad ogni elemento la sua nuova portata». Le condizioni storiche attuali ci permettono di essere ancora più precisi. È ormai infatti evidente che:
– ovunque si estende la palude della decomposizione, il détournement prolifera spontaneamente. L’era dei valori consumabili rinforza singolarmente la possibilità di organizzare dei nuovi insiemi significanti;
– il settore culturale non è più un settore privilegiato. L’arte del détournement si estende a tutti i gesti di rifiuto attestati dalla vita quotidiana;
– la dittatura del parcellare fa del détournement la sola tecnica al servizio della totalità. Il détournement è il gesto rivoluzionario più coerente, più popolare e più adatto alla pratica insurrezionale. Per una sorta di movimento naturale – dovuto alla passione che sempre accompagna il gioco – esso spinge gli uomini ad essere sempre più estremi, sempre più radicali.
Per via della decomposizione e dello sgretolamento che affligge l’insieme delle condotte spirituali e materiali – decomposizione legata agli imperativi della società di consumo – la fase di svalorizzazione, presupposto fondamentale del détournement, è assicurata dalle condizioni storiche, che in certo modo se ne incaricano. La negatività incrostata nella realtà dei fatti rende così il détournement un passaggio obbligatorio nel processo di superamento, un atto essenzialmente positivo.
Se l’abbondanza di beni di consumo è salutata dappertutto come una felice evoluzione, è noto che l’impiego sociale di questi beni ne corrompe il buon uso. È appunto perché il gadget è prima di tutto un pretesto a profitto del capitalismo e dei regimi burocratici che esso deve essere inutilizzabile ad altri fini. L’ideologia del consumabile agisce come un difetto di fabbrica, sabota la merce di cui è il rivestimento; introduce nell’apparato materiale della felicità una nuova schiavitù. In questo contesto, il détournement diffonde un diverso modo d’impiego, inventa un uso superiore in cui la soggettività manipolerà a suo vantaggio ciò che è stato prodotto per esserle venduto e per manipolarla. La crisi dello spettacolo dovrà ora precipitare le forze della menzogna nel campo della verità vissuta. L’arte di rivolgere contro il nemico le armi che le necessità commerciali gli impongono di distribuire è la questione dominante dei problemi di tattica e di strategia. Bisogna diffondere i metodi di détournement come il vangelo del consumatore che vorrebbe semettere di essere tale.
Il détournement, che alle prime armi ha fatto il proprio tirocinio nel mondo dell’arte, è ora divenuto l’arte dell’impiego rovesciato di tutte le armi. Apparso inizialmente nei sommovimenti della crisi culturale degli anni 1910-1925, si è via via esteso all’insieme dei settori toccati dalla decomposizione. Ciò non esclude che il dominio dell’arte offra ancora alle tecniche di détournement un campo valido di sperimentazione; che occorra saper trarre lezione dal suo passato. Così, l’operazione di reinvestimento prematuro in cui si cimentarono i surrealisti, è fallita, perché essi provarono a reintrodurre in un contesto ancora valido, gli anti-valori dadaisti, ma senza ridurli a zero; il che, mostra bene che il tentativo di costruire a partire da valori che non siano stati purgati da una forte crisi nichilista condurrà sempre al recupero da parte dei meccanismi dominanti dell’organizzazione sociale. La tendenza «combinatoria» degli attuali cibernetici a proposito dell’arte va fino alla fiera accumulazione insignificante di elementi qualunque, che non sono stati in alcun modo de-valorizzati. Pop Art e Jean-Luc Godard, ovvero l’apologetica della spazzatura.
L’espressione artistica permette in pari tempo di cercare, a tastoni e prudentemente, delle nuove forme di
agitazione e di propaganda. In questo ordine di idee, le composizioni di Michèle Bernstein nel 1963 (calchi in gesso in cui si incastrano delle miniature come soldatini di piombo, automobili, carri armati …) incitano, con dei titoli come «Vittoria della Banda Bonnot», «Vittoria della Comune di Parigi», «Vittoria dei Consigli operai di Budapest», a correggere per il meglio certi avvenimenti paralizzati artificialmente nel passato; a rifare la storia del movimento operaio e, nello stesso tempo, a realizzare l’arte. Per quanto limitata sia, per quanto speculativa rimanga, una tale agitazione apre la via alla spontaneità creativa di tutti, non fosse che provando, in un settore particolarmente falsificato, che il détournement è il solo linguaggio, il solo gesto che porti in sé la propria critica. La creatività non ha limiti, il détournement non conosce fine.